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 2013  maggio 16 Giovedì calendario

CORRIERE, UN DRAMMA DA MISERIA E (EX) NOBILT


Il 30 maggio l’assemblea di Rcs si riunisce per decidere sulle sorti del gruppo. In quella sede si voterà per ridurre il capitale (causa perdite) e subito reintegrarlo con un aumento da 400 milioni (più altri 200 entro il 2015). [1]

Rcs, gruppo editoriale storico e strategico che controlla il primo quotidiano del paese, il Corriere della Sera, è al dissesto. Dal 2002 ha perso un quarto del fatturato e accumulato un miliardo di euro di debiti per comprare attività che nel 2012 hanno prodotto una perdita complessiva di 510 milioni (dopo 322 milioni nel 2011). Il Corriere della Sera ancora contiene i danni: un milione di rosso sui 79 già accumulati dal gruppo nel primo trimestre 2013. [2]

Roberto D’Agostino: «La “corazzata Corriere” rischia di affondare sotto il peso dei debiti accumulati nei lunghi anni di sciagurate piraterie finanziarie (e di scelte editoriali dissennate). A partire dalle stagioni dei pattisti megalomani con le acquisizioni-pacco in Spagna (Recoletas) e quelle ambiziose in Francia (Flammarion). L’ampliamento della fabbrica di via Solferino, la realizzazione di un torracchione a Crescenzago. L’acquisto di emittenti radiofoniche e banche dati ben presto liquidate; le Befane elargite generosamente a manager e collaboratori esterni, pagati anche per non scrivere una riga. Intanto, sul pennone della sede storica di via Solferino, simbolo centenario di Milano – nell’indifferenza delle sue autorità e della gente –, sventola da mesi il cartello “vendesi”». [3]

«Un dato per tentare di capire la crisi d’identità del Corriere sicuramente esiste. Negli ultimi vent’anni ha avuto una lenta emorragia di copie. Come a dire? Gli scandali, veri o presunti, l’antipolitica non pagano, almeno in termini di vendite. Dopo Mani pulite il Corrierone, si è messo a pestare ogni Casta che gli passava a tiro: medici, avvocati, spazzini, infermieri, professori, ghisa, tramvieri, consiglieri comunali e regionali, bottegai, notai, tassisti... Il tessuto forte e ramificato dei lettori di un quotidiano milanese sin dalla sua remota nascita sempre nazional-popolare. I quali si sono stufati di andare in edicola per essere additati come dei malfattori o degli imbroglioni. «...stupisce che gli unici a uscirne indenni siano i giornalisti», ha osservato il professore Alessandro Zeno-Zencovivh già nel 1995 (Alcune ragioni per abolire la libertà di stampa, Laterza)». [3]

Il piano di rilancio (nome: «2015: Imbarco immediato»), presentato giorni fa dall’amministratore delegato Pietro Scott Jovane, prevede la chiusura di nove testate: A, Bravacasa, Yacht&Sails, Max, l’Europeo, Astra, Novella 2000, Visto, Ok Salute, con ricorso alla cassa integrazione a zero ore per i 90 giornalisti attualmente impegnati nelle redazioni (che comprendono anche il lavoro di 20 amministrativi e 50 precari). [4]

Dei 10 periodici Rcs l’unico che non produce perdite (e l’unico che non verrà smantellato) è il settimanale enigmistico Domenica Quiz, che non abbisogna di direttori o giornalisti. [5]

Motivi per cui l’editore Urbano Cairo non è interessato alle testate Rcs: «Abbiamo una strategia diversa, abbiamo sempre preferito lanciare nuovi giornali piuttosto che rilanciare giornali con un passato importante ma che vendono poche copie e hanno ridotto i margini». [1]

Alessandro Penati: «Il piano triennale per il rilancio è semplice: crescita zero del fatturato, con i ricavi digitali che compensano il declino di quelli tradizionali; e taglio dei costi per riportare il margine operativo a un livello accettabile. Venduto il facilmente vendibile (Dada e Flammarion), in futuro sono previste generiche dismissioni per 250 milioni, in gran parte destinati al rimborso del debito, come richiesto dall’accordo con le banche. Fine del piano». [2]

Se il nuovo piano industriale ha visto la dura opposizione dei giornalisti, anche l’aumento da 400 milioni vede allargarsi tra gli azionisti un pericoloso fronte del no, visto che la delibera del 30 maggio dovrà essere approvata con il 66% dei voti. [6]

La ricapitalizzazione vede il sostegno di gran parte dei sindacati di blocco (44%), con Fiat e Intesa Sanpaolo pronti a sottoscrivere l’eventuale inoptato. A dar supporto al patto ci sono le banche creditrici: il consorzio di garanzia è pronto a finanziare fino al 41,7% dell’aumento. Ma Diego Della Valle (8,7%) e i Benetton (5,1%), entrambi azionisti fuori dal patto di sindacato (58%), hanno comunicato ufficialmente di voler votare contro. E il fronte del no potrebbe allargarsi. Andrea Montanari: «Il pattista Merloni (2%) si era detto “non favorevole” e un socio di peso come la famiglia Pesenti (7,75%) non si è ancora ufficialmente espresso, così come nulla si sa delle intenzioni dei Lucchini (2,04%) e di Bertazzoni (1,23%). Non va poi dimenticato l’eventuale ruolo che potrebbe giocare il primo socio, la famiglia Rotelli (16,55%) che tuttora non ha sciolto le riserve». [7]

Intesa e Mediobanca, sono grandi creditori di Rcs, ma anche azionisti del patto: una duplice veste che le ha messe al posto di guida della ristrutturazione del debito. Così hanno imposto ai vecchi soci un aumento di capitale (400 milioni) che per metà serve a ridurre l’esposizione verso le banche (più il rimborso di altri 200 milioni fra tre anni garantito dalla cessione di attività), che pertanto non devono contabilizzare alcuna sofferenza. [2]

Le critiche dei soci forti, specie di estrazione industriale come Della Valle, Benetton, Rotelli, Pesenti, Merloni, si concentrano su un riassetto finanziario che privilegia il rimborso ai creditori, e rinegozia il debito futuro (575 milioni) a tassi del 6%. [8] Nicola Porro: «Insomma, chi deve aprire il proprio portafoglio (e non quello dei suoi azionisti) non riesce a capire per quale motivo metà delle nuove risorse debba andare a ridurre il debito delle banche e non a rafforzare la società editoriale». [9]

Dunque conflitti e problemi maggiori nascono dalla ristrutturazione finanziaria. La situazione è di chiaro dissesto. Il debito attuale (circa 850 milioni) è insostenibile anche a piano di rilancio industriale realizzato: equivale a 5,5 volte il margine operativo previsto per il 2015, un livello che nessun finanziatore accetterebbe mai. Penati: «In una ristrutturazione tradizionale, i creditori negozierebbero la conversione (volontaria o concorsuale) del debito in azioni, acquisendo il controllo della società, per poi vendere le attività poco redditizie, tagliare i costi e cederla rapidamente al miglior offerente. Credo sia questo che avesse in mente Della Valle». [2]

Se il primo socio Giuseppe Rotelli non aderisse all’aumento di capitale, la sua quota (oggi superiore al 16%) si ridurrebbe a circa il 3% della Rcs ricapitalizzata. Discorso simile per Diego Della Valle, il cui 9 per cento si diluirebbe a meno del 2 per cento. Porro: «Questo aumento di capitale fortemente diluitivo fa davvero male a chi non lo sottoscrive. È l’angolo da cui si deve scappare. Se i privati aderiscono all’aumento mettono altri quattrini in una società in cui contano poco e a beneficio delle banche finanziatrici. Se non li mettono vedono le proprie partecipazioni al capitale polverizzarsi e chiudere così la loro storia a via Solferino». [9]

Se il 30 maggio non dovesse arrivare il quorum per il via libera alla ricapitalizzazione, la sola strada che resta è quella per il tribunale. Ma niente fallimento: l’azienda di via Rizzoli potrebbe ricorrere all’articolo 67 della legge fallimentare, come ha chiesto Della Valle, ovvero l’accordo stragiudiziale con i creditori, in particolare le banche. Milano Finanza: «Quegli stessi istituti di credito hanno dato l’ok alla ristrutturazione del debito, in cambio di garanzie sul rimborso e certezze granitiche sulla solidità del business plan predisposto da Jovane, che prevede 800 tagli complessivi su 5 mila dipendenti». [10]

L’idea di Della Valle non è invece piaciuta a l’Espresso: «Il quotidiano e la casa editrice con i soci più potenti d’Italia nelle mani del tribunale fallimentare? Il concordato preventivo, è uno strumento nato per quelle realtà produttive che, se superano la crisi, sembrano avere le qualità per potersi riprendere. Così, per bloccare le istanze di fallimento, è diventato sufficiente (provvedimento governo Monti, ndr) che il proprietario scriva una richiesta di due righe al tribunale. Evitare che un fallimento dettato da ragioni contingenti faccia sparire per sempre un’impresa, è un obiettivo del tutto ragionevole. In Italia però, a causa delle molte insensatezze dell’ordinamento fallimentare, la novità ha finito per amplificare problemi annosi. Permettendo ai più furbi tra i “quasi falliti” di ripresentarsi sul mercato a stretto giro di posta. E lasciando a secco molti piccoli fornitori, costretti a inseguire per anni un risarcimento spesso inferiore al 10 per cento di quanto era loro dovuto». [11]

I conti (della crisi) non tornano né per i giornalisti né per gli editori. Ma se i Poteri possono scappare dalla “corazzata Corriere” non avendo più nulla “da scambiare”, i redattori rischiano di affogare nella sala macchina se qualcuno non gli lancerà un salvagente. Ma chi? Alla vigilia dell’assemblea di fine maggio che, di fatto, segnerà l’implosione del “patto di sindacato”, nessuno sembra agitarsi più di tanto per le sorti del quotidiano milanese. E le ragioni vanno ricercate forse nella sfiducia dell’opinione pubblica nei confronti sia dei vecchi che nuovi media, indistintamente. Oltre un secolo fa, il giornalista-editore Joseph Pulitzer, faceva osservare: “Una volta che il pubblico giunge a vedere la stampa come un’impresa esclusivamente commerciale, quest’ultima perde tutto il suo potere morale”». [3]

Dopo i lettori e gli inserzionisti pubblicitari, dunque anche gli armatori-azionisti stanno per abbandonare la “corazzata Corriere”? Gli azionisti non bancari ben prima dell’ultima tornata elettorale hanno capito che il vecchio Corrierone, conta più poco nel teatrino della politica. D’Agostino: «Meglio allora darsela a gambe levate. Magari perdendoci qualche milioncino se il gioco (il Corriere) non vale la candela (un peso in politica e nelle banche per scambiarsi favori e protezioni)». [3]

Penati: «Meglio che Della Valle, Rotelli, Benetton non si lamentino di aver bruciato milioni per uno strapuntino al tavolo del potere: non si grida allo scandalo, uscendo da un cinema a luci rosse; basta non entrarci». [2]

Note: [1] Ansa 29/4; [2] Alessandro Penati, la Repubblica 11/5; [3] Dagospia 6/5; [4] Andrea Montanari, MF 10/5; [5] Dagospia 7/5; [6] Gian Maria De Francesco, il Giornale 3/5; [7] Andrea Montanari, MF 8/5; [8] Andrea Greco, la Repubblica 7/5; [9] Nicola Porro, il Giornale 4/5; [10] Milano Finanza 7/5; [11] Luca Piana e Gloria Riva, l’Espresso 10/5.