Donato Masciandaro, Il Sole 24 Ore 15/5/2013, 15 maggio 2013
LA CITY SE NE VA? NON È UN MALE PER L’EURO
Nel Regno Unito il dibattito sui benefici e i costi di abbandonare l’Unione europea è intenso. Ma proviamo a rovesciare la domanda: dalla prospettiva dell’Unione, l’uscita di Londra come va valutata? Almeno dal punto di vista della moneta e della finanza, non è detto che l’evento sia drammatico. Anzi. Se partiamo dal considerare l’euro, la risposta è molto semplice: il Regno Unito adotta ancora oggi la sterlina. Un’uscita di Londra dall’Unione certo chiuderebbe ogni possibilità che possa aderire all’euro.
È un male? Dipende dal possibile impatto sull’utilità dell’euro per i Paesi che fanno già parte dell’Unione. L’utilità cresce quanto più l’euro svolge efficacemente due funzioni, che sono tra loro inseparabili: strumento di pagamento e riserva di valore.
Non bisogna mai dimenticare che l’euro - come ogni moneta - è una passività pubblica infruttifera, che le istituzioni statale possono far circolare nella misura in cui i cittadini la utilizzano. I cittadini, a loro volta, sono spinti a utilizzare l’euro per i loro scambi innanzitutto perché è l’unico strumento di pagamento che ha il corso legale. È vero che nei pagamenti correnti si possono utilizzare le passività emesse dalle banche - attingendo ai depositi - ma come la recente esperienza di Cipro ha fatto a tutti ricordare, comunque l’euro e la moneta bancaria non sono la stessa cosa, formalmente e sostanzialmente. L’euro è debito pubblico, i depositi sono debiti privati.
Il debito pubblico chiamato euro ha dunque un’utilità grazie a una riserva di legge a suo favore; ma non basta. Perché sia accettato e usato senza problemi occorre anche che abbia un valore economico, vale a dire che non si svaluti il suo potere d’acquisto. Qui emerge la ragione d’essere di avere in Europa una banca centrale indipendente che tutela la stabilità monetaria, appunto come presidio del valore dell’euro.
Ora, abbandonare la prospettiva che la sterlina si possa "fondare" nell’euro significa senz’altro una perdita in termini di mercato potenziale per la nostra valuta. Se anche il Regno Unito adottasse l’euro, la domanda forzosa che si otterrebbe - grazie alla riserva di legge - senz’altro aumenterebbe. Quindi avremmo una esternalità positiva sull’Unione. Ma quale sarebbe l’impatto sull’euro in termini di riserva di valore? Quando un Paese adotta una valuta già esistente, in prospettiva il suo ingresso può essere fonte di maggiore o minore stabilità monetaria a seconda delle sue caratteristiche strutturali e di politica economica. In particolare, un Paese con mercati efficienti, regolati con l’approccio del "tocco leggero" e politiche economiche disciplinate offre maggiori garanzie. Senza dubbio il Regno Unito presenta ottime credenziali dal primo punto di vista, mentre meno rassicuranti sono le indicazioni dalla seconda prospettiva.
La crisi finanziaria ci ha insegnato che i Paesi che hanno disegnato i mercati cercando la massima efficienza negli scambi con l’approccio del "tocco leggero" - come Stati Uniti e appunto Regno Unito - hanno un punto debole: la finanza. Il criterio di disegnare le regole in modo che ogni operatore possa sempre cercare di ottimizzare le sue scelte con il massimo grado di libertà non vale quando si parla di debito. L’eccesso di debito individuale può produrre crisi sistemiche. A quel punto, se si vuol evitare il collasso, occorre che lo Stato intervenga, producendo debito pubblico. La crisi forse si evita, ma rimane un doppio fardello sull’economia: debito privato e debito pubblico. Questa è la fotografia oggi del Regno Unito: un Paese che non può dare garanzie né in termini di disciplina fiscale né - per conseguenza - di disciplina monetaria.
L’endemica vulnerabilità finanziaria del Regno Unito è il suo fattore di maggior criticità. Il fallimento dell’approccio regolamentare del "tocco leggero" ha prodotto danni all’efficienza allocativa, che si sono riverberati anche sull’Unione. Per non parlare dei danni inflitti all’integrità e alla sana gestione degli scambi finanziari, causati dagli scandali e dalle frodi registrati in questi anni, vicenda Libor in testa. Il Regno Unito è ben conscio della sua vulnerabilità e afferma di voler riformare profondamente l’architettura della regolamentazione e della supervisione finanziaria. Di passi davvero concreti finora si può solo registrare un accentramento dei poteri di controllo nella Banca di Inghilterra: un provvedimento che non dà alcuna maggiore garanzia di efficacia, ma serve ai politici inglesi per mostrare che qualcosa si è fatto.
Dal punto di vista della costruzione del mercato bancario e finanziario dell’Unione, il Regno Unito è sempre stato un interlocutore che, nel disegno delle regole, ha finito sempre per assumere un ruolo dominante e trainante, dato il peso della sua piazza finanziaria. Ora quella piazza mostra in tutta evidenza luci e ombre. Solo un Regno Unito interessato davvero ad eliminare le ombre potrebbe essere un partner interessante per l’Unione. Altrimenti, si rischia di far circolare in un sanatorio già mal messo un potenziale untore.