Giovanni N. Ciullo, D la Repubblica 4/5/2013, 4 maggio 2013
GLI AMORI FOLLI DI MADAME HARDY
Vieni, seguimi in casa. Leggera, persino fragile, Françoise Hardy ci dà le spalle per farci strada verso il suo appartamento parigino, a pochi passi dal Bois de Boulogne. È una posizione privilegiata per osservarla senza discrezione. Jeans stretti e giacca nera, scarpe basse e bianchissime, come i capelli, andamento lento e corpo androgino: è bella, è ancora molto bella l’ex ragazza yè-yè arrivata alla vigilia dei settant’anni.
«Merci d’être là», grazie di essere qui, dice con una voce in cui cerchiamo di ritrovare traccia dei sussurri ante-litteram (e ante-Carla Bruni) di un’icona degli anni 60 che ha avuto un percorso fra i più originali nella storia della musica francese: esordio fulminante (nel 1962) e rapido ritiro dalle scene (dal 1968 l’addio ai concerti dal vivo), corteggiamenti celebri (Mick Jagger la definì “la donna ideale”, Bob Dylan le dedicò un poema, David Bowie la inseguì per una vita, Jacques Prévert fece in tempo a scrivere per lei), un matrimonio (con il cantautore Jacques Dutronc) e un figlio (Thomas) che adora. E milioni di copie vendute, con oltre trenta dischi, in una carriera durata di fatto mezzo secolo.
Per questo anniversario, Madame Hardy ha aperto il cassetto in cui, da venticinque anni, conservava il diario personale. Una racconto autobiografico delle sue relazioni sentimentali, una tela di Penelope «le cui parole ho continuato a cucire e scucire negli anni, in maniera maniacale, mescolando le storie importanti della mia vita. Non avrei mai pensato di farlo, ma i 50 anni di carriera meritavano una novità. E così, ecco questa recita romanzata degli amori che mi hanno resa folle. Perché tutto ciò che richiede un’attrazione totale, che pretende un desiderio violento, può solo farti impazzire».
È L’Amour fou (L’amore folle in italiano, in arrivo a fine maggio per la fiorentina Edizioni Clichy), che racconta, attraverso un Monsieur X, i suoi tre uomini, «diversi, ma simili. Ognuno di loro si può riconoscere, ma in parte. Perché sono sempre stata ispirata dallo stesso tipo e ho avuto con tutti la medesima attitudine».
Alcune delle situazioni che racconta non le ha vissute proprio così, ma i sentimenti della protagonista, quelli sì sono autentici. «C’è l’incontro di due solitudini e tanta sofferenza. C’è una donna che fa di tutto per far paura al suo compagno. Da farlo fuggire. Perché, amando, ho imparato che la cosa che non riusciamo a sopportare è la mancanza di reciprocità: quella che ti porta a sentirti inadeguata, ma a pretendere l’esclusività. A me è successo con quelli che mi hanno idolatrata per il ruolo pubblico: a un certo punto ho avuto voglia di vederli sparire, addirittura di ucciderli. In privato, è successo il contrario: la masochista sono stata io. Così ho cercato solo sadici. O li ho costretti a diventarlo. È un classico: ho armato con un bastone la mano che mi avrebbe poi bastonata».
Françoise Hardy è seduta, le gambe allungate sul suo divano di pelle nera, in una sala piena di finestre, di mobili laccati di rosso, con un mappamondo al centro, «La verità è che sono una solitaria, una marziana. Da sempre. Ingenua come poche, non avevo alcuna coscienza di me».
Anche il successo è arrivato per caso. Una chitarra in regalo per il diploma, le radio, le prime canzoni. Fino a quell’intermezzo musicale, durante la diretta di un’elezione politica, in cui la Francia intera impazzì per la ragazzina che cantava (sussurrando) Tous le garçons et le filles. Due milioni di copie vendute in pochi mesi, e contratti, concerti, tournée. «Pensare che la mia prima casa discografica l’aveva scartata. Fu una delle rare volte in cui imposi la mia volontà».
Di quegli anni è la relazione con il fotografo Jean-Marie Périer. «Io sempre in giro, lui anche, furono quattro anni di vero inferno. Quando finì, giurai a me stessa che non avrei mai più accettato quel tipo di vita. Conobbi Jacques Dutronc e la nostra casa discografica ci spedì in Corsica, nel 1968, per registrare un disco. Vivevamo in un’isolamento totale, non venimmo nemmeno a sapere delle manifestazioni di piazza, di Parigi che bruciava. Tornando in città, qualche tempo dopo, scoprimmo che era stato ucciso Bob Kennedy. Non volevo più ripartire in tournée: e approfittai di quella lunga pausa per abbandonare le scene».
Sorride, Madame Hardy, ricordando quegli anni. Ed è qui che ci racconta divertita di altri uomini: le star che hanno incrociato la sua vita, senza incrociarne davvero il destino. «Quando conobbi Mick Jagger rimasi fulminata: aveva un carisma incredibile. Un giorno, mentre giravo per Londra, da sola come sempre, me lo ritrovai davanti: mi fece un sorriso che avrebbe sciolto chiunque. Io, timida, ricambiai e tirai dritto. Tempo dopo lessi un’intervista a un magazine in cui sosteneva che fossi la sua “femme idèale”. Incassai i complimenti e basta. Lui usciva con Christine (Chrissie) Shrimpton, davvero bruttina, poi si mise con Marianne Faithfull. Ero troppo normale per lui». E Bob Dylan? «La sua musica mi commuoveva. Scrisse un poema per me (For Françoise Hardy at the Seine’s Edge..., ndr) e una sera mi invitò nella sua camera d’albergo per farmi sentire in anteprima due inediti. Magro, scheletrico, aveva le unghie lunghe e le dita gialle, mi fece quasi paura».
La sua non-storia con David Bowie è questa. «Sapevo che aveva tutto quello che cercavo in un uomo. Andavo a sentirlo dal vivo ogni volta che potevo, ma evitavo di incontrarlo vis-à-vis. Poi, quattro anni fa, un suo invito: “Sono a Parigi per due concerti, scegli una data”. Arrivo e me lo ritrovo all’ingresso. «Era ora”, mi dice con un filo di quella voce che da quarant’anni adoravo, “scusa ma l’aria condizionata in camera stanotte era troppo alta”». Infine, gli italiani. «Come mi piaceva la vostra musica. E due ragazzi su tutti: Adriano Celentano e Gianni Morandi. Abbiamo fatto un Cantagiro insieme. Adriano arrivava nelle piazze stracolme di gente e riusciva a creare un religioso silenzio. Di Gianni ascoltavo a tutto volume Se non avessi più te, aveva una carica pazzesca».
L’energia è quella che a lei, invece, è sempre mancata. «Ed è la ragione della mia fragilità», confessa oggi Françoise. «Se sono quella che sono, è per il tipo di infanzia che ho avuto. I miei non erano sposati, mia sorella e io siamo cresciute con una madre severa: lavorava tanto e viveva per noi. Mio padre non c’era mai, ma volle iscrivermi a una scuola cattolica di cui poi non pagava le rate. Mi vergognavo di questa non-famiglia». Ammette che forse anche per questo lei è stata una mamma chioccia. «E ansiosa. Per fortuna Thomas era un bambino determinato, a cui non potevi imporre tante regole. Quando cercavo di convincerlo a fare una cosa, a prendere una medicina senza protestare, mi diceva: “Vabbè, mamma, sono solo un bambino”.
Oggi anche lui è un musicista di successo. E come Jacques Ducronc, suo padre, compagno di Hardy, vive più spesso in Corsica che a Parigi. «Io invece preferisco stare in città, sull’isola ci torno d’estate». Da sempre appassionata di astrologia, ha lavorato in questo campo. «La gente pensa agli indovini e ai ciarlatani. Ma io non faccio oroscopi, solo previsioni: mi sento più come un meteorologo con le stelle». È un libro aperto Françoise, come il suo, che non riesce a leggere da quando è stato stampato. «Dovevo farne un audiobook, ma mi sono rifiutata perché avrei dovuto rileggerlo». È soprattutto il cassetto da cui ha tirato fuori il manoscritto, a darle da pensare. «Da lì viene un vuoto che mi crea un’inquietudine leggera. Voglio programmare qualcosa di nuovo, subito. La vita è un soffio».