Andrea Marcenaro, L’Europeo 5/2013, 16 maggio 2013
NON SONO CIRCONDATO DA GIGANTI
[Giulio Andreotti] –
È nato a Roma il 14 gennaio 1919 in via dei Prefetti 18, terzo piano. Il padre, maestro elementare, morì nel 1921 senza aver maturato il diritto alla pensione. Tempi grami. Elementari alla Emanuele Gianturco di via della Palombella, liceo al Tasso, con Adriano Ossicini e Franco Rodano compagni di scuola. Nel frattempo si spella le mani come claqueur a pagamento nei teatri del centro storico e si impiega a 18 anni ali’ufficio imposte per mantenersi all’università.
La fede e l’ambiente cattolico lo guideranno sempre. Tanto che diventerà presidente degli universitari cattolici (Fuci) durante gli studi in giurisprudenza e sceglierà come moglie Livia Danese, nipote del monsignore che aveva fondato l’ordine monastico delle suore benedettine di Santa Priscilla. Cattolicissimo. Ha un fratello che è stato comandante dei vigili urbani di Roma, e quattro figli andreottianamente divisi in maschi e femmine.
È un gattopardo o gatto sornione, dipende dai gusti. Instancabile creatore di battute, tutte famose o famosissime, non si altera quasi mai. Quando gli capita, l’espressione più forte che usa è “santa pace”. Vuoi dire che c’è vento di guerra. Ama la discreta e affettuosa presenza in famiglia, ma, con curiosa dissonanza, un tempo gli piaceva frequentare le feste dei fratelli Caltagirone, forse non colpevoli di nulla, ma certo non discreti.
L’espansività non è il suo forte. A chi glielo contesta sibila che Giuda era un affettuosone ma che i suoi baci hanno fatto qualche danno. Il suo forte, invece, è la pignoleria. E poi non ha mai fretta. Un esempio, con le sue parole: «Nel 1970 fui invitato a formare il governo, ma i socialdemocratici dissero che ero troppo filosocialista. Aspettai e lo feci due anni dopo». E ancora: «Quando ero presidente del Consiglio, dal 1976 al 1979, Bettino Craxi mi faceva delle violente campagne contro perché aspirava a venire a palazzo Chigi. Lo capisco. Ma adesso lavoriamo molto bene insieme». Ma può darsi che la definizione migliore della sua personalità sia quella che Andreotti stesso diede a Enzo Biagi qualche anno fa. «Ma insomma, Giulio Andreotti chi è?». Risposta: «Una persona consapevole dei suoi limiti, ma anche sicura di non essere circondata da giganti». Qualità e difetti affiorati nel corso di una vita: la flemma, l’ostinazione, il gusto delle cose concrete, il buon senso furbesco e quel cinismo che lo hanno reso sospetto agli uomini della sua generazione. «Uomini con slanci», scriverà Il Giorno del 18 febbraio 1972, «ma slanci ideali che,egli non ha mai condiviso ne apprezzato, perché incapace di abbandoni». Gli è stato chiesto: «Se lei non fosse ministro degli Esteri, bensì Giampiero Boniperti, presidente della Juventus, restituirebbe la Coppa dei Campioni?». Risposta: «No». (Il riferimento è alla strage dell’Heysel, Bruxelles, del 29 maggio 1985: benché 39 tifosi trovarono la morte prima della finale Juventus-Liverpool, la partita fu giocata lo stesso e la squadra torinese accettò la Coppa, tra molte polemiche, ndr).
Ha a fianco il capo di gabinetto alla Farnesina, Umberto La Rocca, e il capo della segreteria, Carlo Zaccaria. Ma nessuno potrà prendere il posto dello scomparso Giorgio Ceccherini, suo compagno di scuola. «Faccio eccezione per la signora Vincenza Enea, mia segretaria privata da sempre», ammette con la massima convinzione Andreotti, «alla quale va l’Oscar della laboriosità e della pazienza» (Andreotti la licenziò nel 1993 perché affetta da morbo di Alzheimer; le si attribuisce la frase: «La politica pulita nun ce sta», ndr). «Premetto che non sono candidato alla carica di presidente della Repubblica. Ho solo superato da tempo l’età minima per esserlo, al pari di circa 20 milioni di italiani, quasi tutti più bravi di me. Quanto al resto sono un uomo medio, tale nei difetti, nelle virtù, nelle abitudini. Mi sono trovato quasi per caso nella vita politica e ho cercato di supplire sgobbando (si faccia pure dell’ironia sul verbo) alle carenze di preparazione specifica. Dopo quarant’anni qualche criterio valutativo l’ho acquisito. Mi aiuta, nella vita, la convinzione che il bene e il male sono frammisti e non esistono paradisi, purgatori e inferni su questa Terra. Lassù, spero di andarmene in paradiso».
Meglio di tutti vale quello tratteggiato da Leo Longanesi: «Andreotti tiene la testa china sulla spalla sinistra (forse per l’abitudine di portare il Santissimo in processione) e discorre con estrema gravita e sicurezza. Egli possiede uno sguardo che da garanzie, che lascia sperare; uno sguardo molle, venato di rosso cardinalizio. Che la sua carriera non sia finita, lo intuite quando vi porge la mano un po’ fredda, un po’ umida, tenera come una braciolina di vitello».
Serena e Stefano Andreotti, figli di Giulio: «Nostra madre ha la “r” moscia, papà ogni tanto chiama al telefono e le ripete anche due volte: Trimarri, oppure Vrigliari. Finché lei non si arrabbia e abbassa la cornetta».
Legge, scrive, raccoglie statuine di presepi napoletani del Seicento-Settecento, colleziona campanelli e campanacci, ordina con certosina pazienza una raccolta di francobolli del 1870. Ha più di mille campanelli, un po’ a casa, un po’ in un grande armadio allo studio di piazza Montecitorio. Quello con cui Enrico De Nicola richiamava all’ordine i deputati, uno utilizzato in un convento, accanto a quello di un monatto che risale alla peste di Milano del 1600, di vetro, di legno, di porcellana, di bronzo. Ne ha per tutti i gusti. Quando non sta lì a rimirarli, va allo stadio a tifare per la Roma. Sennò all’ippodromo di Tor di Valle a fare la sua puntatina sui cavalli. Fra i giochi di carte predilige il gin rummy (si gioca in due, ndr). Non si sa dove trovi il tempo, ma divora letteralmente libri gialli. «Mi distraggono», dice.
Gli anni fondamentali della sua vita: 1942. Un giorno di primavera incontra Alcide De Gasperi nei saloni della Biblioteca vaticana. A quel tempo era presidente della Fuci: aveva sostituito con il grado di sergente.
1947. Appena ventottenne, viene nominato sottosegretario alla presidenza del Consiglio con tali margini di potere e di intervento da scandalizzare i notabili democristiani di allora. Era stato lui, qualche mese prima, a scrivere sul Popolo: «Basta col tripartito!». E i comunisti furono scaricati dal governo. 1954, estate. Al congresso democristiano di Napoli, Andreotti rifiuta di entrare in quella che definisce sprezzantemente “stramaggioranza” e da vita a una lista sua. La chiama “Primavera”, in omaggio alla sua sfrenata passione calcistica (le squadre giovanili si chiamano così).
1954. Qualche mese dopo il congresso, muore De Gasperi. Molti pensano che sarà la morte politica del suo giovane pupillo. Resteranno delusi.
16 marzo 1978. Sequestro di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse. «Prima non pensavo mai alla morte. Mi pareva quasi strano il pensarci. Ma quando Moro è stato rapito e poi assassinato, allora ho cominciato a meditare molto di più sulla morte. Ho un impulso di grande paura e di rifiuto». Come raramente gli capita, questa volta Andreotti non è spiritoso.
14 gennaio 1979. Compie 60 anni e deve mantenere una promessa e un impegno con se stesso preso da molto tempo e ribadito più volte: ritirarsi dalla politica. Viene meno: «Perché hanno cercato di prendermi a cornate».
Le possibilità del ministro degli Esteri di diventare l’ottavo Presidente della Repubblica sono legate in grande misura alla possibilità che il Partito comunista possa convogliare i propri voti sul suo nome.
Ma questa è una eventualità che non appare scontata, se si pensa che solo il 30 ottobre scorso proprio il Pci ne ha chiesto le dimissioni dal governo e l’incriminazione per il caso Sindona. Gian Carlo Pajetta ha detto di lui: «Non si può eleggere un presidente per insufficienza di prove». Nella Dc la sinistra lo ha indicato .come proprio candidato. Con il Partito socialista i rapporti, pessimi fino a qualche tempo fa, sono migliorati. Ma sarebbe strano che Bettino Craxi accettasse una personalità così forte nel posto che fu di Sandro Pertini. Non parla volentieri di amicizie. A parte il fedelissimo Franco Evangelisti, Adriano Ossicini, suo antico compagno di liceo, il decano dei cronisti parlamentari Emilio Frattarelli, il comunista Paolo Bufalini e l’ex segretario del Psi Francesco De Martino.
Si alza alle sette e spesso va a letto dopo mezzanotte. Appena alzato, mangia i biscottini. Alla sera trova il latte caldo nel thermos e il gelato nel freezer. A pranzo, quando può, preferisce cotolette fredde. Guai se qualcuno, per sbaglio, beve dal suo bicchiere. Dopo la lettura dei giornali, si chiude in bagno per mezz’ora di cyclette. Poi, a messa a San Giovanni dei Fiorentini. O alla Chiesa del Gesù.