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 2013  maggio 16 Giovedì calendario

QUANDO LA LEGGE SI INCHINA ALLA RAGIONE DI STATO

In diversi casi si è venuti a conoscenza di detenuti rilasciati per decisione del loro governo. L’ultimo caso, in ordine di tempo, riguarda i due marò per i quali si chiede un provvedimento del governo indiano. Mi tornano alla mente anche ordini esecutivi del presidente americano per alcuni prigionieri di Guantanamo. Casi nei quali la decisione di rilascio non è della magistratura, ma del governo. Mi chiedo come sia possibile e quali azioni siano necessarie perché un governo decida su fattispecie che esulano dalle competenze del potere esecutivo appartenendo all’autonomia di quello giudiziario e soltanto da questo possono essere definite. Vuole chiarire questo dubbio?
Federico Argentieri
federgen@yahoo.it
Caro Argentieri, non credo che vi sia uno Stato, nella società internazionale, che non riservi a se stesso il potere di graziare, amnistiare o espellere prima del giudizio una persona quando il provvedimento viene ritenuto utile alla sicurezza nazionale. All’epoca del rapimento di Aldo Moro vi furono proposte di leader politici e dello stesso presidente della Repubblica (era Sandro Pertini) per uno «scambio di prigionieri». In una recensione di Giovanni Bianconi al libro di David Sassoli e Saverio Garofani sulle riunioni del Consiglio dei ministri durante quelle drammatiche giornate (Corriere del 3 maggio), vi sono a questo proposito notizie interessanti. Giulio Andreotti, allora presidente del Consiglio, disse che erano state prese in considerazione «proposte di scambi in altri Paesi (Cile)», mentre il ministro della giustizia Francesco Paolo Bonifacio suggerì un’amnistia «per alleggerire la tensione nelle carceri, terreno di battaglia dei brigatisti». Se queste proposte non ebbero corso, la ragione fu politica, non giuridica. Il governo e il gruppo dirigente della Democrazia cristiana temettero che ogni proposta conciliante avrebbe fatto delle Brigate Rosse un interlocutore politico e rafforzato la loro posizione agli occhi del Paese. Ma in altre circostanze non avrebbero esitato a proporre e a realizzare uno scambio.
Più tardi, nel 1998, quando la Gran Bretagna di Tony Blair chiuse il sanguinoso capitolo irlandese con gli accordi del Venerdì Santo, il governo di Londra liberò i terroristi dell’Ira (Irish Republican Army) che stavano scontando lunghe pene nelle carceri del Regno Unito. Più recentemente abbiamo appreso che Abdullah Ocalan, leader del Partito comunista curdo, stava tirando le fila, dalla cella di una prigione turca, dell’intesa con il governo di Ankara per la soluzione della questione curda. Ricordo ai lettori che Ocalan, dopo la sua partenza dall’Italia (dove trovò rifugio per qualche settimana), fu arrestato dall’Intelligence turca in Africa, processato e condannato all’ergastolo. Se l’intesa non verrà boicottata dai falchi delle due parti, Ocalan, probabilmente, avrà diritto a un trattamento di favore. Lo stesso potrebbe accadere al palestinese Marwan Barghouti, leader della prima e della seconda Intifada, condannato a cinque ergastoli dai tribunali israeliani. Se e quando il governo di Gerusalemme adotterà sulla questione palestinese una linea più conciliante, sarà impossibile fare a meno di Barghouti, oggi forse il più popolare fra i leader della resistenza palestinese.
Le ricordo infine, caro Argentieri, che i ministri della Giustizia italiani hanno più volte rifiutato di firmare la richiesta di estradizione proveniente dai magistrati milanesi per i funzionari dei servizi d’Intelligence degli Stati Uniti coinvolti nel rapimento dell’Imam Hassan Mustafa Osama Nasr, meglio noto come Abu Omar. Anche questa fu una delle numerose occasioni in cui i criteri politici (sicurezza nazionale, buoni rapporti con un altro Stato) prevalgono su quelli giuridici.
Sergio Romano