Hermione Lee, The Paris Review vol. 4 (Numero 28, 1962), Fandango Libri, Milano 2012, 15 maggio 2013
Biografia di Philip Roth raccontata da lui stesso
Incontrai Philip Roth dopo che era uscito un mio breve libro sulla sua opera nella collana di Methuen dedicata agli autori contemporanei. Lui lo lesse e mi scrisse una lettera generosa. Dopo il nostro primo incontro, mi mandò la quarta stesura della Lezione di anatomia di cui poi parlammo perché a Philip Roth piaceva avere più critiche e riscontri che poteva da pochi e interessati lettori quando era in dirittura d’arrivo con un romanzo. Cominciammo l’intervista che lui aveva appena finito il libro. Era l’inizio dell’estate del 1983, ci incontrammo al Royal Automobile Club, a Pali Mali, dove di solito Philip Roth si prende una stanza per lavorare quando viene in Inghilterra. La stanza era stata trasformata in un piccolo ufficio, organizzato con meticolosità — macchina da scrivere IBM a testina rotante, raccoglitori suddivisi in ordine alfabetico, lampade Anglepoise, dizionari, aspirina, leggio, pennarelli per segnare le correzioni, una radio — e diversi libri sopra il caminetto fra i quali la recente autobiografia di Irving Howe, A Margin of Hope, Il giovane Lutero di Erik Erikson, l’autobiografia di Leonard Woolf, Cechov di David Magarshack, Sembra proprio di stare in paradiso di John Cheever, Behavioral Me — thods for Chronic Pain and Illness di Fordyce (utile per Zuckerman), l’autobiografia di Claire Bloom. Limelight and Afier, e alcuni volumi d’interviste della Paris Review. Restammo a parlare per un giorno e mezzo chiusi in quella che sembrava una cella adibita a ufficio, staccando solo per andare a mangiare. Venni trattato col massimo riguardo. I modi di Philip Roth, che corrispondono al suo aspetto — sobrio, abbigliamento classico, occhiali con la montatura dorata, lo stile di un placido professionista americano in visita a Londra o magari di un docente universitario o di un avvocato — sono cortesi, gentili e ricettivi.
Ascolta tutto con attenzione, ha sempre la battuta pronta e gli piace essere intrattenuto, ma sotto questo aspetto benevolo si nasconde una concentrazione mostruosa e una rapacità mentale: è tutto pane per i suoi denti, non ammette approssimazioni, sguazza avidamente fra le divergenze di opinione, qualunque cosa è acqua per suo mulino. Elabora le idee con grande prontezza di pensiero, facendo un uso giocoso del linguaggio figurato sia per evitare le domande personali (per quanto possa anche essere molto diretto), sia per mantenere vivo il proprio interesse. Le trascrizioni di questa conversazione registrata erano lunghe, appassionanti, divertenti, disorganizzate e ripetitive. Le editai fino a dar loro una forma maneggevole e mandai a Philip Roth la mia versione. Poi seguì una lunga pausa durante la quale lui rientrò in America e uscì La lezione di anatomia. Riprendemmo all’inizio del 1984, quando Roth venne in Inghilterra; revisionò la mia versione e parlammo della lavorazione fino a quando non prese la sua forma definitiva. Fu un lavoro molto interessante. L’umore dell’intervista era cambiato nei sei mesi intercorsi fra la fine del romanzo al quale stava lavorando e l’inizio del suo nuovo libro. Si era fatto più vivace e combattivo. E le diverse stesure rivelarono i metodi di lavoro dello scrittore — interi brani della nostra conversazione vennero sgrossati fino a diventare prosa intensa, energetica, elegante, e quel ritornare su idee pregresse ne fece nascere di nuove. Il risultato è un esempio e una descrizione di come Philip Roth vede se stesso.
Hermione Lee, 1984
Come comincia un nuovo libro?
«Iniziare un libro è sconfortante. Non ho le idee per niente chiare sul personaggio e sulla situazione che sta vivendo, e devo cominciare dal personaggio alle prese con quella situazione. Non sapere come trattare il proprio argomento è peggio che non conoscerlo perché alla fin fine il nocciolo della questione è tutto lì. Batto a macchina i miei incipit e sono pessimi, sembrano più un inconsapevole parodia del mio libro precedente che il frutto del distacco che vorrei. Ho bisogno di qualcosa che mi porti dritto al cuore del romanzo, di un magnete che vi calamiti tutto dentro, ecco cosa vado cercando nei primi mesi di scrittura a un nuovo libro. Spesso devo scrivere un centinaio di pagine o anche più, prima di avere un paragrafo che sia vitale. Mi dico. Va bene, questo è il tuo inizio, comincia da qui; ecco il primo paragrafo del libro. Rivedo i primi sei mesi di lavoro, sottolineo in rosso un paragrafo, una frase, a volte non più di una frase, che abbia una certa vitalità di suo, e poi batto tutto su un foglio, in genere non ne viene fuori più di una pagina, ma se sono fortunato, quello è l’inizio di pagina uno. Cerco la vitalità che gli dia il tono giusto. A questa spaventosa fase iniziale seguono mesi di scrittura a ruota libera, poi arriva la crisi, la rivolta contro ciò che ho scritto e l’odio verso il libro».
Prima ancora di cominciare, quanto ha già in testa del libro?
«La cosa più importante ancora non c’è. Non intendo le soluzioni ai problemi, ma i problemi stessi. Quando inizio, vado in cerca di resistenza, di guai. Certe volte l’incertezza iniziale viene non tanto perché la scrittura è difficile, ma perché non lo è abbastanza. La fluidità può essere il segnale che non sta succedendo niente se non addirittura che devo fermarmi, mentre invece quando brancolo nel buio, da una frase all’altra, allora capisco che devo andare avanti».
Lei deve avere un inizio? É mai partito da una fine?
«Per quel che ne so, io parto da una fine. Un anno dopo la mia prima pagina può diventare la duecentesima, ammesso che ci sia ancora».
Che ne è di quelle centinaia di pagine che ha lasciato in sospeso? Le mette da parte?
«In genere preferisco non rivederle più».
C’è un particolare momento della giornata durate il quale lavora meglio?
«Lavoro tutto il giorno, mattina e pomeriggio, sette giorni su sette. Se mi ci metto per due o tre anni, alla fine ho un libro».
Crede che gli altri scrittori lavorino così tante ore?
«Io non chiedo agli altri scrittori quali siano le loro abitudini lavorative. Non mi interessa proprio. Joyce Carol Oates dice, non so più dove, che se uno scrittore domanda a un altro scrittore a che ora comincia a lavorare, quando finisce, e quanto tempo dedica al pranzo, in realtà sta solo cercando di scoprire se è matto quanto lui. Io non sento la necessità di quella risposta».
Le sue letture influenzano ciò che scrive?
«Leggo sempre mentre sto lavorando, in genere la sera. É un modo per tenere aperti i circuiti. É un modo di pensare alla mia linea di lavoro prendendomi una piccola pausa da ciò che sto scrivendo. Aiuta perché alimenta l’ossessione generale».
Fa leggere a qualcuno il suo lavoro mentre è all’opera?
«É più utile che i miei errori maturino e affiorino al momento giusto. Quando scrivo ci metto tutta l’autocritica di cui ho bisogno e quando so di non essere nemmeno a metà, il plauso non conta niente per me. Non faccio vedere a nessuno quello che sto scrivendo sino a quando non riesco più ad andare avanti e mi piacerebbe persino credere di aver finito».
Quando scrive ha in testa un lettore di Roth?
«No. A volte mi capita di avere in testa un lettore anti-Roth. E penso, Come odierà questa cosa! Il che può rivelarsi proprio la spinta di cui ho bisogno».
Ha definito l’ultima fase della scrittura di un romanzo una “crisi” in cui si rivolta contro il suo stesso materiale e odia il libro. Questa crisi scoppia sempre, ogni volta?
«Sempre. Mesi interi a guardare il manoscritto e a dire, Questo non va, ma cos’è che non va? Mi chiedo. Se questo libro fosse un sogno, sarebbe un sogno di cosa? Ma nel momento stesso in cui me lo sto chiedendo, cerco anche di credere in quello che ho scritto, di dimenticare che è finzione e di dire, questo è accaduto, anche se così non è. L’idea è di percepire la propria invenzione come una realtà che può essere vista come un sogno. L’idea è di trasformare i personaggi in carne e ossa in personaggi letterari e quelli di fantasia in personaggi in carne e ossa».
Può dirci di più a proposito di queste crisi?
«Nello Scrittore fantasma la crisi — una delle tante — aveva a che vedere con Zuckerman, Amy Bellette e Anna Frank. Non è stato facile rendersi conto che Amy Bellette come Anna Frank erano una creazione dello stesso Zuckerman. Solo lavorando a diverse alternative ho deciso che non solo lei era una sua creazione, ma che poteva anche essere la creazione di se stessa, una giovane donna che s’inventava all’interno dell’invenzione di Zuckerman. Per arricchire la sua fantasia senza complicanze o confusioni, per essere ambiguo e chiaro — il mio cruccio era questo e perdurò per un’estate e un autunno interi. In Zuckerman scatenato la crisi era provocata dal mio non vedere che il padre di Zuckerman non doveva essere già morto all’inizio del libro. Mi resi conto solo dopo che era meglio farlo morire alla fine, presumibilmente come conseguenza del bestseller blasfemo del figlio. E invece, all’inizio, avevo fatto l’esatto contrario e me ne ero rimasto lì a guardare come un rimbambito per mesi, senza accorgermi di niente. Sapevo di voler far sviare il libro da Alvin Pepler — mi piace essere trasportato a tutta velocità in una direzione e poi farmi sorprendere — ma non riuscii a rinunciare alla premessa delle stesure precedenti fino a quando non mi accorsi che tutto quell’interesse ossessivo del romanzo per omicidi, minacce di morte, funerali e pompe funebri mi stava portando alla morte del padre di Zuckerman, più che ad allontanarmene. Il modo di concatenare gli eventi può legarti le mani e basta ripensarne la successione per liberarti e farti arrivare alla fine. Quello che scoprii con La lezione di anatomia — dopo aver preso a testate la macchina da scrivere per troppo, troppo tempo — fu che quando Zuckerman prende il volo per Chicago per cercare di diventare dottore, dovrebbe cominciare a impersonare un pornografo. Doveva per forza esserci un deliberato radicalismo in ciascuna estremità dello spettro morale, ogni suo sogno di autotrasformazione andava a sovvertire il significato e a deludere le intenzioni dell’altro. Se avesse preso quella strada per diventare dottore, mosso esclusivamente da cotanto ardore morale, o se invece se ne fosse andato in giro a impersonare un pornografo, vomitando solo quella rabbia anarchica e alienante, non sarebbe stato il mio uomo. Lui possedeva due modalità dominanti, quella di autoabnegazione e quella che-se-ne-vadano-tutti-a-fanculo. Vuoi un cattivo ragazzo ebreo? Eccoti servito. Ne mette a riposo una per attivare l’altra. Anche se, come possiamo vedere, di riposo nel suo caso non si può certo parlate. Quello che m’interessa di Zuckerman è che, per quanto siamo tutti divisi, pochi lo sono in modo così dichiarato. Siamo tutti pieni di crepe e di fessure, ma in genere le persone fanno il possibile per non far vedere dove sono quelle spaccature. La maggior parte vuole sanare le proprie lesioni e continuare a provarci. Nasconderle a volte può sembrare un modo di sanarle o di non averle proprio. Zuckerman però non riesce a far bene entrambe le cose, e alla fine della trilogia lo dimostra anche a se stesso. A determinare la sua vita e la sua scrittura sono le linee di frattura in quella che è una spaccatura tutt’altro che netta, A me interessava seguire quelle linee».
Cosa succede a Philip Roth quando si trasforma in Nathan Zuckerman?
«Nathan Zuckerman è una finzione come del resto tutta l’arte dell’immedesimazione, non è così? Il grande dono della narrativa è proprio questo. Zuckerman è uno scrittore che vuole diventare dottore impersonando un pornografo. Io sono uno scrittore che scrive un libro impersonando uno scrittore che vuole essere un dottore che impersona un pornografo — il quale poi, a complicare ulteriormente l’immedesimazione, a completare l’opera, si spaccia per un noto critico letterario. Inventarmi biografie false, storie false, architettare un’esistenza semi-immaginaria a partire dal dramma reale della mia vita è la mia vita. Deve esserci una qualche forma di piacere in questo lavoro, ed è proprio questa. Andarsene in giro con un travestimento, agire come un personaggio, spacciarsi per qualcun altro. Fare finta. Una messa in scena scaltra e ingegnosa. Pensi per esempio a un ventriloquo. La sua voce sembra provenire da qualcun altro lontano da lui, eppure, se lui non fosse nel campo visivo di chi lo guarda, lo spettatore non trarrebbe alcun piacere dalla sua arte. La sua arte consiste nell’essere presente e assente al tempo stesso; il ventriloquo è più se stesso che mai nell’essere contemporaneamente qualcun altro, e una volta calato il sipario, non “è” né l’uno né l’altro. Come scrittore, non sei tenuto per forza ad abbandonare completamente la tua biografia per riuscire a entrare nell’immedesimazione. Potrebbe essere più interessante non farlo. Puoi distorcerla, ridicolizzarla, parodiarla, torturarla e sovvertirla, sfruttarla, tutto per dare alla biografia quella dimensione che stimolerà la tua vita verbale. Ovviamente ci sono milioni di persone che lo fanno in continuazione e senza nemmeno la giustificazione della letteratura, lo fanno veramente. Sono incredibili le bugie che la gente può sostenere dietro la maschera della propria vera identità. Pensi solo all’arte dell’adultero: sfidando pressioni tremende ed enormi difficoltà, semplici mariti e mogli che su un palcoscenico si bloccherebbero per la vergogna, quando sono soli, nel teatro delle mura domestiche, davanti al consorte tradito come spettatore, interpretano ruoli di innocenza e fedeltà con capacità drammatiche impeccabili. Grandi, grandissime interpretazioni, elaborate con talento fin nei più piccoli particolari, una recitazione naturale di un perfezionismo ineccepibile, e tutto questo da parte di attori dilettanti, persone che fingono egregiamente di essere “se stesse”. Sa, la finzione può assumere le forme più sottili. Perché un romanziere, un simulatore di professione, dovrebbe essere meno abile o più affidabile di un imperturbabile e gretto contabile privo di immaginazione che tradisce la moglie? Jack Benny faceva finta di essere un taccagno, ricorda? Si faceva chiamare con il suo nome d’arte e pretendeva di essere tirchio e meschino. Così facendo stimolava il suo estro comico. Probabilmente non era poi tanto divertente, esattamente come un altro buonuomo che firmava assegni dell’UJA e ci invitava i suoi amici a cena. Celine si faceva passare per un medico insensibile, per non dire irresponsabile, quando invece pare che prendesse molto sul serio il suo mestiere e fosse estremamente coscienzioso con i suoi pazienti. Ma questo non era interessante».
Perché no? Essere un buon dottore è interessante.
«Per William Carlos Williams forse, ma non per Celine. Fare il marito devoto, il padre intelligente e il medico di famiglia coscienzioso a Rutherford, New Jersey, sarà parso ammirevole a Celine come a lei, o anche a me, ma la sua scrittura traeva il suo vigore dalla voce demotica e dalla drammatizzazione del suo lato oscuro, piuttosto notevole. Fu così che creò il Celine dei grandi romanzi, un po’ come Jack Benny che, flirtando col tabù, si creò il personaggio dello spilorcio. Bisogna essere di un ingenuità infinita per non capire che uno scrittore è un artista che mette in scena lo spettacolo che gli riesce meglio, soprattutto quando si cala la maschera della prima persona singolare. Può essere la maschera migliore di tutte per un alter ego. E c’è più di qualcuno — molti direi — che finge di essere più amabile di quel che è, e chi finge di esserlo meno. Poco importa. La letteratura non è un concorso di bellezza morale. La sua forza viene dall’autorevolezza e dall’audacia con cui viene fatta l’immedesimazione, quello che conta è la convinzione che riesce a ispirare. La domanda da porsi sullo scrittore non è perché si comporta così malamente, ma cosa ci guadagna nell’indossare quella maschera? Non ammiro il Genet che Genet presenta come se stesso più di quanto non ammiri l’insipido Molloy impersonato da Beckett. Ammiro Genet perché scrive libri che non mi faranno dimenticare chi è quel Genet. Quando Rebecca West stava scrivendo di Agostino disse che le sue Confessioni erano troppo soggettivamente vere per essere oggettivamente vere. Credo sia così nei romanzi in prima persona di Genet di Celine, come pure nell’Ancora e nella Vagabonda di Colette. Gombrowicz ha scritto un romanzo intitolato Pornografia nel quale si presenta come personaggio che porta il suo stesso nome — la cosa migliore per prendere parte a certe azioni molto equivoche e creare terrore morale. Konwicki, un altro polacco, nei suoi ultimi due romanzi, Kompleks polski e Piccolo apocalisse, per colmare il divario fra il lettore e la narrazione introduce “Konwicki” come protagonista. Nell’immedesimarsi in se stesso, Konwicki rafforza l’illusione che il romanzo sia vero — e che non vada screditato come “finzione”. E si torna sempre a Jack Benny. Devo precisarlo, in ogni caso, che il compito dello scrittore è tutt’altro che spassionato? Scrivere per me non è una cosa naturale che faccio sempre, come i pesci nuotano e gli uccelli volano; è qualcosa che si fa sotto un certo tipo di provocazione, di urgenza particolare. È la trasformazione, attraverso un’elaborata immedesimazione, di un’emergenza personale in un atto pubblico, nei due sensi del termine. Trasmettere attraverso la propria persona qualità estranee alla propria struttura morale può essere un esercizio spirituale molto provante — tanto per lo scrittore quanto per il lettore; si può finire col sentirsi più un mangiatore di spade che un ventriloquo o un imitatore. A volte quell’andare oltre se stessi, nel vero e proprio senso della parola, è estremamente logorante. Chi s’immedesima non può permettersi di indulgere negli istinti umani più comuni, che indicano alle persone cosa vogliono che si veda e cosa vogliono che si nasconda».
Se il romanziere è un interprete, allora cosa mi dice dell’autobiografia? Qual è la relazione per esempio, fra la perdita dei genitori, che sono così importanti negli ultimi due romanzi di Zuckerman, e la morte dei suoi?
Perché non mi chiede della relazione fra la morte dei miei genitori e quella della madre di Gabe Wallach,l’evento che apre Lasciarsi andare, il mio romanzo del 1962? O perché non mi chiede della morte e del funerale del padre che è al centro del “Giorno che nevicò”, il mio primo racconto pubblicato sulla Chicago Review nel 1955? O non mi chiede della morte della madre di Kepesh, la moglie dell’albergatore delle Catskills, che è un evento scatenante nel Professore di desiderio. Cominciai a scrivere del terribile trauma provocato dalla perdita di un genitore molto tempo prima che uno dei miei genitori morisse. Spesso ai romanzieri interessa ciò che non hanno vissuto in prima persona esattamente quanto quello che hanno vissuto. Quella che a un occhio ingenuo potrebbe sembrare un autobiografia nuda e cruda, è, come ho detto, più che altro una finta autobiografia o un’autobiografia ipotetica o un’autobiografia notevolmente ampliata. C’è chi si presenta al posto di polizia e confessa crimini che non ha commesso. Ebbene la falsa confessione tenta anche gli scrittori. I romanzieri s’interessano a quello che succede agli altri,un po’ come i bugiardi e gli imbroglioni di tutto il mondo, e faranno finta che qualcosa di tragico o tremendo o raccapricciante o meraviglioso che è capitato a qualcun altro, sia capitato a loro. I particolari fisici e le circostanze morali della morte della madre di Zuckerman non hanno praticamente niente a che vedere con la morte di mia madre. La morte della madre di uno dei miei più cari amici — il cui racconto della sofferenza materna mi è rimasto a lungo impresso — mi ha fornito i dettagli più significativi per la morte della madre in La lezione di anatomia. La donna delle pulizie di colore che a Miami Beach partecipa al dolore di Zuckerman per il lutto materno, è ispirata alla cameriera di alcuni vecchi amici di Philadelphia, una donna che non vedevo più da dieci anni e che nessuno della mia famiglia ha mai conosciuto a parte me. Quel suo stile così caratteristico mi ha sempre estasiato e, appena ho potuto, l’ho usato. Ma le parole che le ho messo in bocca me le sono inventate io. L’ottantatreenne Olivia, la cameriera di colore della Florida, c’est moi. Come lei sa bene, l’interessante questione biografica — e critica — non verte tanto sul fatto che uno scrittore scriva di qualcosa che gli è successo, quanto di come ne scriva, il che se viene letto nel modo giusto porta ancora più lontano, a capire il perché ne scriva. Ancora più interessante è capire come e perché scriva di quello che non è successo — come inserisca l’ipotetico o l’immaginato nel materiale ispirato e controllato dal ricordo, e come quello che viene ricordato produca l’invenzione d’insieme. Per inciso le segnalo che la persona più indicata alla quale rivolgersi sulla pertinenza autobiografica di quell’evento cruciale che è la morte del padre in Zuckerman scatenato è mio padre, che vive a Elizabeth, New Jersey. Le darò il suo numero di telefono».
Dunque, che rapporto c’è fra la sua esperienza di psicoanalisi e l’uso della psicoanalisi come stratagemma letterario?
«Se non fossi stato in analisi non avrei scritto Lamento di Portnoy come l’ho scritto, o La mia vita di uomo come l’ho scritto, e neanche II seno sarebbe com’è, e neanche io sarei come sono. L’esperienza della psicoanalisi probabilmente mi è stata più utile come scrittore che come soggetto nevrotico, anche se qui ci può essere una falsa distinzione. E un’esperienza che ho diviso con decine di migliaia di persone sconcertate, e qualsiasi elemento altrettanto potente nella sfera privata che leghi lo scrittore alla sua generazione, alla sua classe, al suo tempo, è incredibilmente importante per lui, purché poi egli riesca a distaccarsene abbastanza da poter esaminare l’esperienza in modo oggettivo, fantasioso, nella clinica della scrittura. Devi riuscire a diventare il dottore del tuo dottore, anche soltanto per scrivere cosa vuol dire fare il paziente, che era, almeno in parte, uno dei temi di La mia vita di uomo. Questo mio interesse per il paziente — sin da Lasciarsi andare, scritto quattro o cinque anni prima che entrassi in analisi — era dettato dal fatto che tanti contemporanei illuminati sono arrivati ad accettare l’idea di se stessi come pazienti, e i concetti di malattia psichica, di cura e di guarigione. Lei mi sta chiedendo del rapporto fra arte e vita? È un po’ come il rapporto fra — evado a spanne — le ottocento ore che ci vogliono per farsi psicoanalizzare e le otto che ci vorrebbero per leggere Lamento di Portnoy. La vita è lunga e l’arte è più breve».
Le va di parlare del suo matrimonio?
«È successo così tanto tempo fa che non mi fido nemmeno più del mio ricordo. Il problema è ulteriormente complicato da La mia vita dì nomo: sono così tanti i punti in cui il libro si allontana clamorosamente dalla brutta vicenda personale che lo ha ispirato, che mi riesce difficile, a distanza di venticinque anni, distinguere l’invenzione del 1974 dai fatti del 1959. Chieda all’autore del Nudo è il morto che cosa gli successe nelle Filippine. Le posso solo dire che quello fu il mio periodo in fanteria, e che La mia vita di uomo è il romanzo di guerra che scrissi qualche anno dopo non aver ricevuto la croce al valore militare».
Ha ricordi dolorosi se si guarda indietro?
«Se mi guardo indietro mi sembrano anni affascinanti, come capita spesso ai cinquantenni quando contemplano l’avventura della giovinezza che hanno pagato con dieci anni di vita, in un passato comodamente remoto. All’epoca ero più aggressivo di quanto non lo sia oggi, qualcuno diceva persino di essere intimorito da me, eppure restavo un facile obiettivo. A venticinque anni lo siamo tutti, basta che qualcuno scopra quanto è grande il centro del bersaglio».
E dov’era?
«Oh, era nei geni letterari acerbi e dichiarati in cui si trova in genere. Il mio idealismo, il mio romanticismo, la mia smania di scrivere Vita con la V maiuscola. Volevo che mi capitasse qualcosa di difficile e pericoloso. Volevo un periodo duro, e l’ho avuto. Venivo da un ambiente provinciale, piccolo, sicuro, relativamente felice — la mia Newark negli anni lì Trenta e Quaranta era una Terre Haute ebrea — e insieme all’ambizione e all’aspirazione, assorbivo i timori e le fobie della mia generazione di bambino ebreo americano. Poco più che ventenne provai a dimostrare a me stesso che non avevo paura di tutte quelle cose. Quella mia voglia di dimostrarlo non era un errore, anche se, dopo la fine delle danze, non riuscii praticamente a scrivere per tre o quattro anni. Il periodo fra il 1962 e il 1967 fu l’arco di tempo più lungo da quando ero diventato scrittore in cui non pubblicai un solo libro. Tutto quello che guadagnavo con l’insegnamento e la scrittura andava in alimenti e periodiche spese legali, e ancor prima dei trent’anni mi ero già indebitato per migliaia di dollari con il mio amico ed editore Joe Fox. Il prestito servì a pagarmi l’analisi di cui avevo un assoluto bisogno per impedirmi di uscire di casa e ammazzare qualcuno con tutti gli alimenti e le spese legali che dovevo sostenere per un matrimonio di due anni e senza figli! L’immagine che mi tormentava all’epoca era quella di un convoglio che era stato smistato sul binario sbagliato. All’inizio dei miei vent’anni ero filato via come un treno, sa, puntuale, con poche fermate, e una destinazione finale ben chiara in testa; poi, tutto a un tratto, miri trovavo sul binario sbagliato, in corsa verso terre desolate. Mi chiedevo, Come diavolo faccio a riportare questo affare sul binario giusto? Non puoi e basta. Per anni ho continuato a sorprendermi ogni volta che, a notte fonda, mi ritrovavo nella stazione sbagliata».
Ma non tornare indietro sullo stesso binario è stata una gran cosa per lei.
«John Berryman diceva che, per uno scrittore, ogni prova che non uccide è un toccasana. Il fatto che la sua avesse finito per ucciderlo non invalida quella teoria».
Cosa pensa del femminismo, in particolare dell’attacco femminista contro di lei?
«E quale sarebbe?»
La sostanza dell’attacco sarebbe in parte che ai personaggi femminili non viene riservata alcuna comprensione, Lucy Nelson, per esempio, viene presentata in Quando Lucy era buona in modo ostile.
«Non lo sopravvaluti definendolo un attacco femminista, è soltanto una stupida interpretazione! Lucy Nelson è un’adolescente arrabbiata che vuole una vita decente. Per come viene presentata, lei è migliore del mondo che la circonda e ne è consapevole. Si trova a dover affrontare e contrastare uomini che incarnano dei tipi profondamente irritanti per molte donne. Protegge una madre passiva, indifesa, di una vulnerabilità esasperante. Si trova a scagliarsi contro quegli aspetti della middle-class americana che il nuovo femminismo militante avrebbe identificato come il nemico pochi anni dopo la pubblicazione del libro — anzi, il suo potrebbe persino essere considerato un caso precoce di rabbia femminista. Quando Lucy era buona parla della lotta di Lucy per liberarsi dalla terribile delusione provocata da un padre irresponsabile. Parla del suo odio per il padre che era stato, e del suo desiderio per il padre che lui non era potuto essere. Sarebbe una mera idiozia, specialmente se di attacco femminista si trattasse, affermare che quei sentimenti così intensi di perdita e disprezzo e vergogna non esistano nelle figlie di ubriaconi, vigliacchi e criminali. E poi c’è l’inetto cocco di mamma che Lucy si sposa e l’odio di lei per la sua incompetenza e ingenuità professionale. Forse a questo mondo non esiste l’odio fra marito e moglie? Sarebbe una novità per tutti i ricchi divorzisti, per non parlare di Thomas Hardy e di Gustave Flaubert! Il padre di Lucy è trattato con “ostilità” perché è un alcolista e un ladruncolo che finisce in prigione? Il marito di Lucy è trattato con “ostilità” per quel suo essere così infantile? Lo zio che cerca di distruggere Lucy è trattato con “ostilità” perché è un bruto? Questo è un romanzo su una figlia ferita che ha più di una ragione sufficiente per essere arrabbiata con gli uomini della sua vira. È presentata con “ostilità” solo se per atto di ostilità s’intende il riconoscere che una giovane donna possa essere ferita e che le giovani donne possono arrabbiarsi. Scommetto che ci sono donne arrabbiate e ferite che sono femministe. Sa, il piccolo segreto proibito non è più il sesso, ma l’odio e la rabbia. È l’invettiva a essere tabù. Strano che sia così cento anni dopo Dostoevskij — e cinquanta dopo Freud — ma a nessuna personcina per bene piace essere identificata con roba del genere. È un po’ l’atteggiamento che c’era una volta rispetto alla fellatio: “Io? Mai sentita. Che schifo!”. Ma è davvero “ostile” dare un’occhiata alla ferocia dell’emozione che chiamano “ostilità”? Quando Lucy era buona non serve la causa, questo è poco ma sicuro. La rabbia della giovane donna non viene presentata per essere sostenuta con un caloroso “vai così!” che esorti il volgo all’azione. La natura della rabbia è analizzata come la profondità della ferita. Sono queste le conseguenze della rabbia, per Lucy come per chiunque altro. Odio dover essere io a dirlo, ma il ritratto non manca di intensità. E con intensità non intendo “compassione”, come la chiamano i compassionevoli recensori. Voglio dire che si vede la sofferenza della rabbia vera.»
Ma immaginiamo che le dica che quasi tutte le donne dei suoi libri sono lì per ostacolare, o aiutare, o consolare i personaggi maschili. C’è la donna che cucina e consola, ed è equilibrata e tranquillizzante, oppure c’è l’altro tipo di donna, la maniaca pericolosa, quella che ti mette i bastoni fra le ruote. Arrivano come strumenti capaci di aiutare o ostacolare Kepesh, Zuckerman, Tarnopol. E questa potrebbe essere interpretata come una visione limitata delle donne.
«Diciamolo: ci sono donne equilibrate che sanno anche cucinare. E lo stesso vale per le maniache pericolose. Tralasciamo la pecca della cucina. Potevo scrivere un libro della statura di Oblomov, su un uomo che passa da una relazione all’altra scegliendosi sempre donne che lo rimpinzano di deliziosi manicaretti, però non l’ho fatto. Se c’è una persona alla quale si possa applicare la sua definizione di “equilibrata”, “calma” e “consolatrice”, quella è Claire Ovington nel Professore di desiderio, con la quale Kepesh stabilisce una tenera relazione qualche anno dopo la fine del suo matrimonio. Ora, non farei obiezioni se lei scrivesse un romanzo su questa relazione dal punto di vista di Claire Ovington — sarei molto curioso di vedere come la vedrebbe — ma allora com’è che lei assume un tono leggermente critico se io scrivo un romanzo dal punto di vista di David Kepesh?»
Non c’è niente di male che il romanzo sia scritto dal punto di vista di David Kepesh. È il fatto che Claire e le altre donne del libro siano lì per aiutarlo o per ostacolarlo che ad alcuni lettori può creare qualche difficoltà.
«Non ho la presunzione di rendere nient’altro che il senso della vita di Kepesh con quella giovane donna. Non è che il mio libro stia o meno in piedi se Claire Ovington è calma ed equilibrata, ma piuttosto se io sono in grado di descrivere cosa sono la calma e l’equilibrio e cosa significa avere un compagno e perché si desidera un compagno che possiede quelle e altre virtù in abbondanza. E poi lei cede alla gelosia quando l’ex moglie di Kepesh si presenta senza essere invitata e porta con sé una certa tristezza legata alla sua storia familiare. Lei non è lì “come mezzo” che possa aiutare Kepesh. Lei lo aiuta — e lui aiuta lei. Sono innamorati. Lei è lì perché Kepesh si è innamorato di una donna equilibrata, calma e consolatrice dopo essere stato infelicemente sposato con una donna difficile ed eccitante che lui non riusciva a gestire. Non è forse normale? Qualcuno più dottrinario di lei potrebbe obiettare che lo stato dell’innamoramento, specialmente quando si tratta di amore passionale, non costituisce una base per stabilire una relazione permanente fra uomini e donne. Ma, ahimè, tutti, anche le persone dotate di intelligenza ed esperienza, lo faranno,lo hanno fatto e sembrano intenzionati a continuare a farlo – e a me non interessa scrivere di quello che la gente dovrebbe fare per il bene della razza umana e fingere che sia quello che fa, bensì scrivere di quello che fa veramente,senza l’efficienza programmatica degli infallibili teorici. L’ironia della situazione di Kepesh è che proprio quando ha trovato la donna calma ed equilibrata con cui vivere, una donna dalle tante qualità, scopre che il suo desiderio per lei sta perversamente svanendo e si rende conto che se questa involontaria diminuzione della passione non smette, lui verrà privato della più bella cosa che gli sia capitata in vita sua. Non succede forse anche questo? Da quel che sento il dannato calo di desiderio capita di continuo e può essere estremamente doloroso per le persone coinvolte. Guardi, non sono io ad aver inventato la perdita di desiderio e tantomeno il miraggio della passione, e non mi sono inventato le compagne equilibrate o quelle maniache. Mi rincresce sei miei uomini non provano i sentimenti giusti verso le loro donne o la gamma universale di sentimenti per le donne in genere, o i sentimenti per le donne che agli uomini potranno andare bene nel 1995, ma insisto nel dire che c’è un fondo di verità nella mia descrizione di cosa vuoi dire per un uomo essere un Kepesh o un Portnoy o un seno».
Perché non ha mai ripreso il personaggio di Portnoy in unaltro libro come ha fatto con Kepesh e Zuckerman?
«Io ho usato Portnoy in un altro libro. Cosa bianca nostra e II grande romanzo americano sono Portnoy in un altro libro. Per me Portnoy non era un personaggio, era un’esplosione e io non avevo finito di esplodere dopo Lamento. La prima cosa che scrissi dopo Lamento di Portnoy fu un lungo racconto che venne pubblicato sulla American Review di Ted Solo taroff, s’intitolava “On the Air”. Tempo fa è venuto John Updike e una sera, quando eravamo tutti a cena, mi ha chiesto: “Com’è che non hai mai ristampato quel racconto?”. Io gli ho risposto: “È troppo brutto”. John ha riso e ha detto: “Hai ragione, è veramente un brutto racconto!”. E io: “Non so cosa mi passasse per la mente quando l’ho scritto”. E in un certo senso è vero, non volevo saperlo, l’idea era di non saperlo. Ma al tempo stesso lo sapevo. Ero andato a guardare nel mio arsenale e ci avevo trovato un altro candelotto di dinamite e avevo pensato, Accendi la miccia e stai a vedere cosa succede. In realtà stavo cercando di farmi saltare in aria. È un fenomeno noto agli studenti di letteratura che denota un cambio di stile dello scrittore. Stavo facendo saltare in aria tante vecchie fedeltà e inibizioni, letterarie e personali. Deve essere per questo che Lamento di Portnoy ha infiammato gli animi di tanti ebrei. Non che non avesse io mai sentito parlare prima di bambini che si masturbano e di liti nelle famiglie ebree. Era piuttosto il fatto che se non potevano nemmeno più controllare qualcuno come me, con tutte le mie rispettabili conoscenze e credenziali, con tutta la mia serietà di intenti, allora qualcosa doveva essere andato storto. Dopotutto io non ero Abbie Hoffman o Lenny Bruce, ero un professore universitario che aveva pubblicato su Commentary. Però pensavo anche che l’altra cosa che andava presa sul serio era proprio il non essere così maledettamente seri. Come Zuckerman ricorda ad Appel, la serietà può essere stupida come qualsiasi altra cosa».
Mentre scriveva Lamento di Portnoy non stava anche cercando lo scontro?
«L’avevo già trovato da tempo e senza cercarlo. Non è che abbiano mai fatto a gara per pubblicare Goodbye, Columbus che in alcuni ambienti veniva considerato il mio Mein Kampf. A differenza di Alexander Portnoy, la mia educazione a una moralità piccolo borghese non veniva da casa mia, ma arrivò dopo che andai a vivere da solo e cominciai a pubblicare i primi racconti. L’ambiente domestico che avevo vissuto da ragazzo si avvicinava molto di più a quello di Zuckerman che a quello di Portnoy. Aveva le sue costrizioni, per carità, ma non erano niente rispetto alla censoria ristrettezza di vedute e alla xenofobia irrisa di sensi di colpa in cui mi capitò di imbattermi con l’establishment ebraico che voleva mettermi a tacere. L’atmosfera morale di casa Portnoy, nei suoi aspetti repressivi, dipende molto dalla reazione che voci persistenti all’interno della comunità ebraica ufficiale ebbero al mio esordio. Fecero di tutto per farlo sembrare propizio».
Ha parlato delle resistenze al Lamento di Portnoy. Ma cosa mi dice dei riconoscimenti? Come ha preso I’enorme successo che le è arrivato?
«Era troppo, di una tale assurda proporzione che non sapevo nemmeno da dove cominciare, e così presi il largo. Poche settimane dopo l’uscita, andai al terminal di Port Authority, saltai su un autobus per Saratoga Springs e mi rintanai per tre mesi a Yaddo, la colonia degli scrittori. Esattamente quello che avrebbe dovuto fare Zuckerman dopo Carnovsky, ma lui ha tergiversato come un’idiota e guardi cosa gli è capitato! Yaddo gli sarebbe piaciuto più di Alvin Pepler. Però costringerlo a restare a Manhattan rese Zuckerman scatenato più divertente e a me la vita più facile, per il semplice fatto di non esserci».
Non le piace New York?
«Ci ho abitato fino al 1962, quando mi sono trasferito in campagna dopo Lamento di Portnoy, e non scambierei quegli anni per niente al mondo. In un certo senso è stata New York a darmi Lamento di Portnoy. Ai tempi in cui abitavo e insegnavo a lowa City e a Princeton non mi sono mai sentito così libero di fare il buffone sulla carta e con gli amici come quando vivevo a New York, negli anni Sessanta. C’erano le serate chiassose con gli amici newyorchesi, le mie sedute psicoanalitiche senza censura e remore di sorta, c’era l’atmosfera drammatica, teatrale della città negli anni dell’assassinio di Kennedy, tutto questo mi fece tentare una nuova voce, una quarta voce, una voce meno legata alla pagina rispetto a quella di Goodbye, Columbuse, di Lasciarsi andare e di Quando Lucy era buona. E c’era anche il movimento di opposizione alla guerra del Vietnam. C’è sempre qualcosa dietro a un libro con il quale non c’è una connessione apparente, è qualcosa di invisibile per il lettore che ha contribuito a far scattare l’impulso iniziale dello scrittore. Penso alla rabbia e alla ribellione che si respirava, ai vividi esempi di rivolta arrabbiata e di isterica contestazione che avevo intorno. Mi diedero diverse idee per la mia scrittura».
Si sentiva parte di quello che stava succedendo negli anni Sessanta?
«Sentivo il potere della vita intorno a me. Era la prima volta, dai tempi della mia infanzia, che mi capitava di provare una totale adesione verso un luogo — in quel caso verso New York. E poi la movimentata vita pubblica del paese e quello che stava succedendo in Vietnam dava a me e agli altri un incredibile lezione sulle nostre possibilità morali,politiche e culturali».
Ma lei nel 1960 pubblicò un famoso articolo uscito su Commentary dal titolo “Writing American Fiction” sul modo in cui gli intellettuali o gli americani raziocinanti si sentivano stranieri in patria, un paese, /’America, in cui non si sentivano parte della comunità.
È proprio questa la differenza fra il 1960 e il 1968. Ed essere pubblicato da Commentary è un’altra differenza. Alienati in America, estranei ai piaceri e alle preoccupazioni del paese, era così che si sentivano molti giovani come me negli anni Cinquanta. Era una posizione del tutto onorevole a mio parere, plasmata dalle nostre aspirazioni letterarie e dai nostri entusiasmi modernisti, gli animi nobili della seconda generazione di immigranti che entravano in conflitto con la prima grande esplosione di spazzatura mediatica del dopoguerra. Non ci aspettavamo certo che, una ventina di anni dopo, l’ignoranza filistea davanti alla quale avremmo voluto voltare le spalle, avrebbe infettato il paese come la peste di Camus. L’autore satirico di un romanzo futuristico che si tosse immaginato un presidente Reagan negli annidi Eisenhower, sarebbe stato accusato di commettere una bassezza grossolana, spregevole, adolescenziale e antiamericana, quando in realtà avrebbe avuto la visione profetica giusta laddove quella di Orwell si era rivelata sbagliata. Avrebbe visto che il grottesco paradosso inflitto al mondo anglofono non sarebbe stato un’estensione dell’incubo repressivo dell’Est totalitario, bensì una proliferazione della farsa occidentale della stupidità mediatica e del cinico mercantilismo — il filisteismo in stile americano impazzava. Non era il Grande Fratello che ci guardava dallo schermo, ma noi che guardavamo un leader mondiale spaventosamente potente con lo spirito di un’affabile nonnetta da teleromanzo, i valori di un rivenditore di Cadillac di Beverly Hills dotato di senso civico, e il retaggio storico e il bagaglio intellettuale di uno studente dell’ultimo anno di liceo in un musical di June Allyson».
Cosa accadde dopo, negli anni Settanta? Quello che stava avvenendo in America continuò ad avere un grosso peso per uno come lei?
«Devo ricordarmi a quale libro stavo lavorando per mettere a fuoco il momento che stavo vivendo, anche se il centro della mia vita è il mio romanzo. Nixon fu eletto e sene andò nel ’73 e mentre entrava e usciva di scena, io stavo impazzendo con La mia vita di uomo. Si può dire che stessi scrivendo quel libro a intervalli dal 1964. Continuavo a cercare la cornice giusta per la sordida scena in cui Maureen compra un campione di mina da una povera gestante di colore per far credere a Tarnapol di essere rimasta incinta. Prima l’avevo pensata per Quando Lucy era buona, ma poi era andato tutto storto per Lucy e Roy a Liberty Center. Tempo dopo pensai che poteva andare bene per Lamento di Portnoy, ma era una scena troppo malevola per quel genere di commedia. Cosi scrissi montagne e montagne di stesure diverse da quello che alla fine sai ebbe diventato La mia vita di uomo — “alla fine”, dopo aver definitivamente capito che la soluzione stava proprio nel problema che non riuscivo a risolvere, la mia incapacità di trovare la cornice giusta a quel sordido episodio, più che il sordido episodio in sé, si trovava proprio nel cuore del romanzo. Il Watergate mi rese la vita interessante quando non scrivevo, ma nel quotidiano, dalle nove del mattino alle cinque del pomeriggio, non facevo molto caso a Nixon o al Vietnam. Ero preso dal cercare di risolvere il problema del libro. E quando sembrava che non ci sarei mai riuscito,mi fermai e scrissi Cosa bianca nostra. Quando riprovai senza riuscirci ancora, mi fermai e scrissi il libro sul baseball. Poi, quando stavo finendo il libro sul baseball, mi fermai e cominciai a scrivere il seno. Era come se mi stessi aprendo un varco dentro una galleria per arrivare al romanzo che non riuscivo a scrivere. Ogni libro è un’esplosione che apre la strada al libro seguente. Tanto alla fine si scrive un unico libro. Di notte si fanno sei sogni, ma sono sei sogni? Un sogno prefigura o anticipa quello seguente, o in qualche modo conclude quello che non è ancora stato completamente sognato. Poi arriva il sogno successivo, il correttivo del precedente, il sogno alternativo, il sogno antidoto, ad ampliarlo, a riderne o a contraddirlo, o anche solo a cercare di fare in modo che il sogno venga sognato nel modo giusto. Si può andare avanti a provare per tutta la notte».
Dopo Portnoy e dopo aver lasciato New York, si trasferì in campagna. Come la vita in campagna? Naturalmente le servì come materiale per Lo scrittore fantasma.
«Non mi sarei mai interessato di uno scrittore solitario se non avessi avuto il mio primo assaggio di quei trentacinque anni di splendore rurale di E.I. Lonoff. Avevo bisogno di sentire qualcosa di solido sotto i piedi per lasciar andare la mia immaginazione. Ma a parte darmi il senso delle vite dei Lonoff, la vita di campagna non mi ha ancora ispirato un soggetto. Probabilmente non lo farà mai e dovrei andarmene di corsa, se non fosse che vivere qui mi piace, e non posso subordinare ogni scelta alle mie esigenze lavorative».
E l’Inghilterra dove trascorre parte dell’anno, è una possibile fonte di ispirazione narrativa?
«Me lo chieda fra vent’anni, più o meno il tempo che ci volle a Isaac Singer per far uscire abbastanza Polonia dal suo sistema e farci entrare abbastanza America, per cominciare, poco a poco, come scrittore, a vedere e descrivere i suoi caffè dell’Upper Broadway. Se non conosci la vita immaginaria di un paese, è difficile scriverci della narrativa che non sia una mera descrizione dell’arredo, umano e non. Piccole cose che trapelano quando guardo il paese che sogna ad alta voce, a teatro, nel corso di un’elezione, durante la crisi delle Falkland, però non so un bei niente di cosa significhi cosa per la gente di qui. È molto difficile per me capire chi sono le persone, anche quando me lo dicono, e non so nemmeno se questo dipenda da chi sono loro piuttosto che da me. Non so chi sta impersonando cosa, se sto necessariamente vedendo la realtà com’è veramente o solo come un invenzione, e non riesco nemmeno a vedere facilmente dove le due visioni si sovrappongano.Le mie percezioni sono obnubilate dal fatto che parlo la lingua. Vede, penso di sapere ciò che è stato detto anche se non lo so. La cosa peggiore è che qui non e è niente che io odi. Che sollievo non avere rancori culturali, non dover sentire il suono della propria voce che prende posizione e ha delle opinioni e dice che è tutto sbagliato! Che meraviglia! Però non è un vantaggio per la scrittura. Non c’è niente che mi faccia imbestialire qui, e uno scrittore deve essere imbestialito per vedere meglio. Uno scrittore ha bisogno dei suoi veleni e spesso l’antidoto è un libro. Ora,se dovessi vivere qui, se per qualche ragione non potessi mai più tornare in America, se la mia posizione e il mio benessere personale dovessero improvvisamente legarsi per sempre all’Inghilterra, allora, quello che prima era esasperante e significativo può cominciare a essere messo a fuoco, e sì,verso il 2005, forse il 2010, poco a poco, potrei smettere di scrivere di Newark e arrischiarmi ad ambientare un racconto al tavolo di un enoteca di Kensington Park Road. Un racconto su un vecchio scrittore in esilio che non sta leggendo il Jewish Daily Forward, ma l’Herald Tribune».
In questi ultimi tre libri — la trilogia di Zuckerman — c’è stato un rigurgito di lotta contro l’ebraicità e contro la censura ebraica. Perché pensa che questi libri tornino tanto sul passato? Perché proprio adesso?
«Nei primi anni Settanta cominciai ad andare regolarmente in Cecoslovacchia. Partivo per Praga ogni primavera e mi sottoponevo a un piccolo corso intensivo di repressione politica. La mia esperienza diretta della repressione era avvenuta sotto forme in qualche misura più benevole e velate, come la costrizione psicosessuale o la restrizione sociale. Avevo meno esperienza di repressione antisemita di quanto non conoscessi le repressioni che gli ebrei si autoinfliggevano, individualmente e vicendevolmente, come conseguenza della storia dell’antisemitismo. Portnoy come lei ricorderà, si considera un ebreo praticante proprio di quel tipo. Ad ogni modo, rimasi profondamente colpito dalle differenze fra la vita di uno scrittore nella Praga totalitaria e quella nella libera New York, e, dopo qualche titubanza iniziale, decisi di concentrarmi sulle conseguenze impreviste di una vita d’artista nel mondo che conoscevo meglio. Mi resi conto che c’erano già tanti racconti e romanzi meravigliosi, e celebri, di Henry James e Thomas Mann e James Joyce, sulla vita da artista, ma nessuno che conoscessi sui risvolti comici che una vocazione artistica può assumere negli Stati Uniti. Quando Thomas Wolfe affrontò 1 argomento, lo fece in modo alquanto rapsodico. La lotta di Zuckerman contro l’ebraicità e la censura ebraica è inquadrata nel contesto della sua carriera comica di scrittore americano, cacciato dalla sua famiglia, alienato dai suoi fan, e alla fine in guerra con le sue terminazioni nervose. La qualità ebraica di libri come il mio non sta tanto nel loro argomento. A me non interessa affatto parlare di ebraicità. Ammesso che ci sia, è una sorta di sensibilità a rendere ebrea La lezione di anatomia — il nervosismo, l’eccitabilità, il diverbio, la drammatizzazione, l’indignazione, l’ossessività, la suscettibilità, la recitazione, ma soprattutto tutto quel parlare. Parlare e gridare. Gli ebrei, sa, non smettono mai. A rendere ebreo un libro non è tanto l’argomento di cui parla, quanto il fatto di non stare mai zitto. Non ti lascia in pace, non ti molla, si prende troppa confidenza. “Senti, senti — ed è solo la metà!” Sapevo quello che stavo facendo quando spaccai la mascella a Zuckerman. Per un ebreo rompersi una mascella è una vera tragedia. È per questo che tanti di noi si sono dati all’insegnamento invece che al pugilato».
Perché Milton Appel, il buon ebreo dai nobili ideali, che nei primi anni era stato un guru per Zuckerman, diventa nella Lezione di anatomia un sacco da pugilato, una figura che Zuckerman vuole sconsacrare?
«Se io non fossi io, se qualcun altro avesse avuto il ruolo di Roth e di scrivere i suoi libri, in quest’altra incarnazione avrei potuto benissimo essere io il suo Milton Appel».
La rabbia di Zuckerman nei confronti di Milton Appel è espressione di una specie di senso di colpa che lei avverte dentro di sé?
«Colpa? Nient’affatto! Tant’è che in un’altra stesura del libro Zuckerman e la sua giovane ragazza, Diana, prendevano posizioni completamente diverse quando litigavano per Appel. In tutta la sua appassionata inesperienza, Diana chiedeva a Zuckerman: “Perché ti fai comandare a bacchetta, perché ti prendi questa merda e non dici niente?”, e Zuckerman, dall’alto dei suoi anni, le rispondeva: “Non essere ridicola, tesoro, calmati. Lui non conta niente”. Ecco una vera scena autobiografica che però mancava di vita.Fui costretto a riversare la rabbia nel personaggio principale nonostante la mia sull’argomento si fosse placata da tempo. A voler essere verosimile stavo letteralmente evitando la questione. E cosi invertii le loro posizioni e feci in modo che la studentessa ventenne dicesse a Zuckerman di crescere e passai la rabbia a Zuckerman. Molto più divertente. Non stavo andando da nessuna parte con uno Zuckerman incredibilmente saggio come me».
Dunque un suo eroe deve sempre essere arrabbiato o lamen—toso o nei guai.
«Il mio eroe deve essere in uno stato di vivace trasformazione o di radicale dislocazione. Io non sono quello che sono — io sono, semmai, quello che non sono. La tiritera attacca più o meno così».
Quanto è consapevole di passare dalla terza alla prima persona mentre scrive?
«Non ne sono ne consapevole ne inconsapevole, è un passaggio spontaneo».
Ma come ci si sente a scrivere in terza persona invece che in prima?
«Come ci si sente a guardare dentro il microscopio quando si regola il fuoco? Dipende tutto da quanto vicino si vuole portare l’oggetto nudo all’occhio nudo e viceversa. Dipende da quanto si vuole ingrandire, e fino a che punto».
Ma in qualche modo lei si libera facendo parlare Zuckerman alla terza persona?
«Mi libero più o meno allo stesso modo nel dire di Zuckerman quello che per lui sarebbe sconveniente rivelare di se stesso. In prima persona l’ironia o l’aspetto comico si perderebbero; la terza mi permette di introdurre una nota di gravità che detta da lui potrebbe suonare stridente. Il passaggio da una voce all’altra in una storia determina la prospettiva morale del lettore. E un po’ quello che vogliamo fare tutti quando utilizziamo il pronome indefinito “si” parlando di noi stessi nella conversazione di tutti i giorni. L’uso del “si” ti pone in un rapporto più sciolto con il sé che lo sta pronunciando. Vede, a volte è più efficace far parlare lui direttamente, altre volte è più efficace parlare di lui; e certe volte è più efficace una narrazione trasversale, mentre altre no. Lo scrittore fantasma è narrato in prima persona, probabilmente perché quello che viene descritto è fondamentalmente un mondo che Zuckerman ha scoperto fuori da se Stesso, il libro di un giovane esploratore. Più vecchio e segnato diventa, più introspettivo è, più allo scoperto devo uscire io. La crisi di solipsismo che lo coglie nella Lezione di anatomia si percepisce meglio con un po’ di distanza».
Quando scrive si impone di fare distinzioni fra il parlato e il narrativo?
«Io non mi “impongo” un bel niente. Io rispondo a quelle che mi sembrano le possibilità più vitali. Non è che ci sia un equilibrio necessario da raggiungere fra ciò che viene detto e ciò che viene raccontato. Vai avanti con quello che di vitale hai. Duemila pagine di storia e sei righe di dialogo possono essere il biglietto da visita di un autore,e duemila pagine di dialogo e sei righe di storia la soluzione per un altro».
Prende mai lunghi pezzi dialogati e li fa diventare narrativi o viceversa?
«Certo. L’ho fatto con la parte di Anna Frank nello Scrittore fantasma. Non è stato facile arrivarci. Quando cominciai alla terza persona stavo in qualche modo onorando il materiale, stavo assumendo un cono molto elegiaco nel raccontare la storia di Anna Frank che sopravvive e viene in America. Non sapevo dove stavo andando a parare e così cominciai facendo quello che si dovrebbe fare quando si scrive la vita di un santo. Era il tono giusto per l’agiografia.Anziché dare ad Anna Frank un nuovo significato nel contesto della mia storia, stavo tentando di attingere al prontuario delle emozioni che si presuppone tutti debbano provare per lei. È quello che fanno anche i bravi attori nelle prime settimane di prove, gravitare intorno alla forma di rappresentazione convenzionale, aggrapparsi al cliché nell’attesa spasmodica che qualcosa di autentico prenda il sopravvento. A posteriori le mie difficoltà possono sembrare alquanto strampalate perché di fatto stavo cedendo proprio a quello contro cui Zuckerman lottava, la leggenda ufficialmente autorizzata e più rassicurante. Mi creda, nessuno di quelli che poi si lamentarono del fatto che avessi abusato della memoria di Anna Frank nello Scrittore fantasma, avrebbero battuto ciglio se avessi semplicemente esternato quelle banalità, sarebbe andato benissimo; magari avrei persino ricevuto un encomio. Io però non mi sarei premiato. Le difficoltà di raccontare una storia ebrea —Come andrebbe raccontata? In quale tono? A chi andrebbe raccontata? A quale scopo? Andrebbe raccontata a tutti? — quello era il tema dello Scrittore fantasma. Ma prima di diventarlo, evidentemente, doveva essere un vero travaglio. Capita spesso, perlomeno a me, che le diatribe che generano la vita morale di un libro vengano sperimentate ingenuamente sul corpo stesso del libro nelle prime, in certe fasi della scrittura. È questo il travaglio, e finì quando presi tutta quella parte e la riscrissi in prima persona — la storia di Anna Frank raccontata da Amy Bellette. Neanche la vittima avrebbe parlato della sua terribile situazione con il tono di “The March of Time”. Non lo aveva fatto nel Diario, perché mai avrebbe dovuto farlo nella vita? Non volevo che quella parte sembrasse narrata in prima persona, ma sapevo che passandola al setaccio della prima persona, avrei avuto buone probabilità di sbarazzarmi di quel terribile tono, che non era il suo, ma il mio. E me ne sbarazzai. Le cadenze toccanti, le emozioni forzate, la dizione arcaica, iperdrammatizzata, cupa: grazie ad Amy Bellette feci piazza pulita di tutto. In modo piuttosto netto, poi riscrissi la parte alla terza persona e solo allora fui in grado di lavorarci — di scrivere anziché declamare o magnificare».
Come pensa di aver influenzato l’ambiente, la cultura come scrittore?
«In nessun modo. Se ai tempi dell’università avessi perseguito l’idea di diventare avvocato, non vedo come questo avrebbe influenzato la cultura».
Lo dice con amarezza o con gaudio?
«Con nessuno dei due, è un dato di fatto. In una gigantesca società commerciale che pretende una totale libertà di espressione, la cultura è un buco nero. Il primo romanziere americano ad aver ricevuto di recente la medaglia d’oro speciale del Congresso per il “suo contributo alla Nazione” è stato Louis L’Amour. Gli è stata consegnata alla Casa Bianca, dal Presidente in persona. L’unico altro paese al mondo nel quale un autore avrebbe ricevuto la massima onorificenza del governo è l’Unione Sovietica. Del resto, in uno stato totalitario, tutta la cultura è dettata dal regime. Fortunatamente noi in America viviamo nella Repubblica di Reagan e non in quella di Platone e, tralasciando le loro stupide medaglie, la cultura viene quasi del tutto ignorata, il che è di gran lunga preferibile. Fintante che le alte sfere continueranno a rendere omaggio a Louis L’Amour e a fregarsene di tutto il resto, andrà tutto bene. La prima volta che andai in Cecoslovacchia, mi resi conto di scrivere in una società dove tutto passa e niente conta, mentre per gli autori cechi che incontrai a Praga, niente passa e tutto conta. Non che volessi cambiare paese, non invidio certo la loro persecuzione e il modo in cui questa elevi la loro importanza sociale. E non invidio nemmeno i loro temi evidentemente più validi e più seri. La banalizzazione da parte dell’Occidente di tante questioni che a Est sono della massima importanza, costituisce un argomento a sé stante,che richiede una notevole capacità immaginativa per essere trasformato in narrativa avvincente. Scrivere un libro serio che non manifesti la sua serietà con imbeccate retoriche o con una gravita tematica tradizionalmente associata alla serietà, è un compito altrettanto degno. Rendere giustizia a una difficile condizione spirituale che non sia troppo sconvolgente e mostruosamente orribile, che non susciti la compassione generale o si verifichi nell’arco di un ampio periodo storico o sulla scala più alta della sofferenza del Novecento, beh è questo il fardello che è toccato agli autori che scrivono dove tutto passa e niente conta. Poco tempo fa ho sentito il critico George Steiner che parlava alla televisione inglese e tacciava la letteratura occidentale contemporanea di essere di gran lunga la più inutile e priva di qualità, e diceva che le grandi testimonianze dell’animo umano, i capolavori, potevano nascere soltanto da persone oppresse da regimi come quello cecoslovacco. Ma allora mi domando, perché tutti gli scrittori che conosco in Cecoslovacchia odiano il regime e desiderano ardentemente che scompaia dalla faccia della terra? Non capiscono, come ha capito Steiner, che quella è la loro grande occasione di essere grandi? A volte uno o due scrittori, con una colossale forza bruta, riescono miracolosamente a sopravvivere e a fare del sistema il loro soggetto, a ricavare arte — e anche di altissimo livello — dalla persecuzione. Ma i più che restano rinchiusi all’interno di stati totalitari finiscono annientati dal sistema. Quel sistema non produce capolavori, rovina le coronarie, fa venire l’ulcera e l’asma, porta all’alcolismo, alla depressione, all’amarezza, alla disperazione e alla pazzia. Gli scrittori sono intellettualmente deturpati, spiritualmente demoralizzati, fisicamente provati e culturalmente appiattiti. Spesso vengono messi a tacere del tutto. La stragrande maggioranza dei più meritevoli non potranno mai scrivere il proprio libro migliore per colpa del sistema. Quelli che vengono sostenuti dal sistema sono gli autori di partito. Quando un sistema del genere prevale per due o tre generazioni, logorando fino allo sfinimento una comunità di scrittori, per venti, trenta, quarant’anni, l’ossessione diventa cronica, la lingua avvizzisce, i lettori muoiono lentamente di fame e resistenza di una letteratura nazionale originale, varia, vibrante — che è assai diversa dalla bruta sopravvivenza di un’unica voce forte — diventa praticamente impossibile. Una letteratura che ha la sfortuna di restare per troppo tempo isolata nella clandestinità finirà inevitabilmente per diventare provinciale, arretrata, perfino ingenua, nonostante il fondo di buia esperienza che può ispirarla. Al contrario, la nostra scrittura non è stata privata della sua autenticità perché come scrittori non siamo stati repressi da un governo totalitario. Non conosco un solo scrittore occidentale, a parte George Steiner così smaccatamente e sentimentalmente ingannato dalla sofferenza umana e dai suoi “capolavori”, che sia tornato dalla cortina di ferro sentendosi sminuito per non aver dovuto misurarsi con un ambiente intellettuale e letterario tanto desolante. Se devo scegliere fra Louis L’Amour, la nostra libertà letteraria e la nostra vasta e viva letteratura nazionale da una parte, e Solzenicyn, quel deserto culturale e quella opprimente repressione dall’altra, scelgo L’Amour».
Ma non si sente impotente come scrittore in America?
«Scrivere romanzi non è la strada per il potere. Non credo che nella mia società i romanzi producano grandi cambiamenti su chicchessia, a parte quei pochi scrittori i cui romanzi vengono per forza di cose influenzati da quelli di altri. Non riesco a vedere niente del genere che possa capitare al lettore comune, ne me lo aspetterei».
E allora cosa fanno i romanzi?
«Al lettore comune? I romanzi offrono ai lettori qualcosa da leggere. Gli scrittori possono tuttalpiù cambiare il mod di leggere dei lettori. Questa mi sembra l’unica aspettativa realistica e mi pare già abbastanza. Leggere romanzi è un piacere profondo e particolare, un’attività umana avvincente e misteriosa che non richiede una giustificazione morale o politica maggiore del sesso».
Ma non ci sono altri effetti collaterali?
«Mi ha chiesto se la mia narrativa ha cambiato qualcosa nella cultura e la risposta è no. Certo, c’è stato qualche scandalo, ma la gente si scandalizza di continuo, è una ragione di vita. Non significa nulla. E se mi chiede se voglio che la mia narrativa cambi qualcosa nella cultura, la risposta è sempre no. Quello che io voglio è conquistare i miei lettori mentre stanno leggendo il mio libro, se possibile, conquistarli in modi diversi da quelli degli altri scrittori. E poi lasciarli ritornare, così com’erano, a un mondo nel quale tutti gli altri stanno cercando di cambiarli, di convincerli, di tentarli e di controllarli. I migliori lettori cercano la narrativa per liberarsi da tutto quel rumore, per lasciare andare dentro di sé la consapevolezza che altrimenti viene condizionata e arginata da tutto quello che non è narrativa. Qualsiasi bambino amante dei libri lo capisce al volo, per quanto l’importanza della lettura sia un’idea tutt’altro che puerile».
Ultima domanda. Come si descriverebbe? Come si vede rispetto ai suoi eroi in piena trasformazione?
«Come uno che sta cercando con tutte le proprie forze di cambiare se stesso a dispetto di sé e grazie ai suoi eroi in continua trasformazione. E soprattutto, come uno che passa l’intero giorno a scrivere».
Numero 93, 1984
Philip Roth è nato nel 1933 a Newark, New Jersey. Si è laureato alla Bucknell e all’Università of Chicago e per un breve periodo ha prestato servizio nell’esercito prima di pubblicare il suo primo libro Goodbye,Columbus, un’antologia di racconti e una novella che nel 1960 vinse il National Book Award. Roth pubblicò il suo primo romanzo Lasciarsi andare nel 1962, ma fu solo con il lamento di Portnoy del 1969 che riconquistò il successo di pubblico e di critica del suo esordio. Lo scrittore fantasma (1979) introdusse un giovane aspirante scrittore di nome Nathan Zuckerman, il protagonista del libro, che sarebbe ricomparso in altri suoi romanzi fra cui Zuckerman scatenato (1981), Lezione di anatomia (1983), Pastorale americana (1997) con cui Roth venne insignito del Pulitzer, e II fantasma esce di scena (2007). Everyman (2006) gli fece vincere per ben tre volte il PEN/Faulkner Award for Fiction, riconoscimento che aveva peraltro già ricevuto per Operazione Shylock (1993) e il romanzo di Zuckerman La macchia umana (2000). Il suo ultimo libro è Nemesi. Hermione Lee è docente d’inglese all’Università di Oxford e presidente del Wolson College di Oxford. Ha scritto le biografie di Virginia Woolfe di Edith Wharton, libri su Philip Roth, Willa Cathered ed Elizabeth Bowen, nonché una raccolta di articoli sull’autobiografia dal titolo Body Parts. È membro della British Academy e della Royal Society of Literature, e nel 2003 è stata nominata Commander of the Most Excellent Order of the British Empire.