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 2013  maggio 14 Martedì calendario

MITRA, VIOLINO E PENNELLO QUANTE VITE PER IL «SOLISTA»

Lo chiamavano «il solista del mitra», e quell’appel­lativo, naturalmente, lo faceva inorgoglire. Ultimo ban­dito romantico (solo Vallanza­sca, dopo di lui, se fosse rima­sto quello degli inizi, avrebbe potuto essergli apparentato) Luciano era un buono. Una di quelle facce toste che, viste poi al cinema, suscitano simpatia, desiderio di emulazione, maga­ri un filino di invidia. Riprova­zione, mai. Da buono, addirittura da buo­nissimo Luciano Lutring è mor­to, l’altra notte, a 76 anni. Ne ha dato notizia la figlia, alla quale Luciano, in obbligo alla leggen­da, ha dato un nome che evoca una raffica: Katiusha. Solista del mitra il padre, katiusha la figlia (Natasha l’altra): un crepitare continuo, in famiglia. Ma così, giusto per fare un po’ di scena, senza far male a nessuno. Come sempre.
Bandito, e poi scrittore e pitto­re di qualche nome, Lutring era un uomo che sarebbe piaciuto a un Manzoni o a un Dostoe­vskij, nel suo personaggio e nel­le sue gesta essendovi tutto quello di cui c’era bisogno per confezionarci uno di quei ro­manzi di genere: il male e il bene, la caduta e il riscatto.
«Solista del mitra» diventò per il vezzo che aveva di nascon­dere il mitra -quello con cui compiva le sue leggendarie ra­pine, negli anni Sessanta- in una custodia di violino. Alber­ghi a quattro stelle (quelli a cin­que ancora non esistevano) bel­le femmine, champagne, auto vistose erano il suo mondo: quello dei gangster americani, quei «bravi ragazzi» che erano stati il suo mito, la sua fonte d’ispirazione, il suo modello. Era il re della «ligera», la mala milanese, ma aveva la vocazio­ne del gentiluomo. E fu forse questa sua specificità, oltre al lusinghiero percorso di riabilita­zione seguito dopo gli anni de­gli eccessi, a fare di lui un perso­naggio amato per lunghe stagio­ni dal pubblico dei rotocalchi.
La scelta di quella custodia di violino, da parte del «solista», non era stata casuale. Violinista era la carriera che i suoi genitori avevano prefigurato per Lucia­no, ma la «musica» che a quel ra­gazzo milanese piaceva era un’altra. Cominciò così. «Un giorno mia zia mi chiese di anda­re a pagare una bolletta alle po­ste - raccontò in un libro - Io an­dai. Ma l’impiegato era lento e detti un pugno sul bancone. Nel movimento si vide la pistola che portavo sotto la cintura. L’impie­ga­to credette che fosse una rapi­na e mi consegnò i soldi. Io pen­sai: Be’,se è così facile….E me ne andai col bottino». Quella pisto­la era una Smith & Wesson della polizia canadese, un vecchio ar­nese di cui Luciano non aveva neppure il munizionamento. La portava così, per darsi un tono, come un Dillinger in sedicesi­mo, un Al Pacino ante litteram .
A quel primo colpo ne seguiro­no centinaia. Così tanti che alla fine, stando a una stima dello stesso Lutring, a mettere quelle banconote una sull’altra si sa­rebbe arrivati a contare 30 miliardi di lire, qualcosa come una quindicina di milioni di euro. Soldi che consentirono a Lutring di vivere come un Onassis, muovendosi tra Milano e Parigi. Fu qui, a Parigi, che lo beccaro­no il primo settembre 1965. Uno scontro a fuoco, e una pallottola che ferma per sempre l’ascesa del «nemico pubblico numero 1», come allora veniva chiamato in Italia e in Francia. In carcere però Lutring rimase solo 12 dei 22 anni di reclusione che gli avevano affibbiato. In prigione Lu­ciano lo spaccone era diventato un altro. Leggeva, dipingeva, non dava noia a nessuno. E scri­veva. Una volta mandò una lette­ra­ all’allora presidente della Camera Pertini. Questi gli rispose, e insomma ne nacque una corri­spondenza che gli valse (la sim­patia di Pertini, non la corrispon­denza) la grazia del presidente della Repubblica francese, Pom­pidou. E qualche tempo dopo, fatto più unico che raro, quella del presidente italiano Giovan­ni Leone.
È di quegli anni il film Lo zinga­ro, ricavato dalla sua autobiogra­fia. Protagonista Alain Delon, bello e dannato, nonché amatis­simo dal pubblico femminile.
Ricco, macho, gentleman, ge­neroso (coi soldi degli altri), il fascino tenebroso e perverso di un Fred Buscaglione della ma­la. Ovvio che le belle femmine cadessero ai suoi piedi. Tra queste, indimenticata fu però solo la Elsa Candida Pasini, una mo­della valtellinese che usava il nome d’arte di Yvonne Candy. La incontrò a Cesenatico e le ra­pinò le valigie, ma affascinato dalla sua bellezza finse poi di avergliele ritrovate, il grandissi­mo facciatosta, solo per cono­scerla. Fu il grande amore della sua vita. Negli ultimi tempi, ha raccontato il suo biografo An­drea Villani, Luciano andava al­la stazione di Stresa (lui abitava vicino Verbania) e si figurava di vedere scendere Yvonne da un treno… Perché il «solista del mi­tra», come si è detto, era un gran romantico…