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 2013  maggio 15 Mercoledì calendario

I bancomat funzionano, non vedi nessuna coda da panico alle banche, e tra i multicolori palazzi Jugendstil o art déco della via Miklosiceva devi guardare i possenti taxi Bmw o i postmoderni camioncini sudcoreani che lustrano ogni strada e marciapiede meglio che a Vienna, per capire che non sei più nel tempo in cui Robert Musil e Stefan Zweig narrravano con uomini senza qualità e mondi di ieri il sereno ingannevole del tramonto degli Asburgo

I bancomat funzionano, non vedi nessuna coda da panico alle banche, e tra i multicolori palazzi Jugendstil o art déco della via Miklosiceva devi guardare i possenti taxi Bmw o i postmoderni camioncini sudcoreani che lustrano ogni strada e marciapiede meglio che a Vienna, per capire che non sei più nel tempo in cui Robert Musil e Stefan Zweig narrravano con uomini senza qualità e mondi di ieri il sereno ingannevole del tramonto degli Asburgo. E i dolci ristoranti in stile anni Venti segnalati da Gault et Millau, tutti pieni, non ti fanno ancora sentire né a Cipro né ad Atene, né a Madrid né nel nostro Sud. Solo scrutando attento i volti, cogli accenti di apprensione, ma celata e composta. Slovenia, primavera 2013: il piccolo, civilissimo paese del rischio eurocrisi alle porte di casa nostra, non vuole e non sa inquietarti. Devi passare un giorno in città con la “piccola Merkel locale” chiamata a salvarlo, la dura 42enne tecnocrate madre di tre figli appena scelta come nuova premier, per capire che la sfida è dura, e ormai siamo quasi tutti indifesi. «Siamo e vogliamo restare un paese di punta in Europa, ma alcuni errori in passato sono stati fatti, adesso non c’è tempo per recuperare gli anni sprecati, quel che è perduto è perduto», mi dice la premier Alenka Bratusek scendendo senza scorta dall’austera e vecchiotta Renault blindata, blazer rosso gonna nera e scarpe stile Louboutin, mise perfetta, davanti al piccolo palazzo del governo a un passo da caffè letterari e discoteche. «Vogliamo farcela da soli, senza consigli o imposizioni di qualche trojka o di altre istituzioni del genere, e siamo convinti che l’austerità è necessaria ma da sola non basta. Tra Nord e Sud dell’eurozona occorrono compromessi, il Nord deve capire che noi qui a Sud abbiamo bisogno di un po’ di tempo in più, per sistemarci da soli senza pesar su di loro e tornare alla crescita». Gli errori del passato pesano come macigni, mi fa notare Miha Jenko, columnist di Delo, passeggiando per il bel centro, lo ascolto ammirando i palazzi asburgici con i bow-window. Esci da Lubiana e lo vedi: a Maribor città industriale del passato comune jugoslavo, oggi in declino come Detroit. O a Koper, l’antica Capodistria, con un porto perfetto che però Bmw, Audi, o i big dell’export norditaliano non ce la fanno a utilizzare appieno: la ferrovia a tratti è a binario unico, come ai tempi in cui si gridava “Bratstvo i Jedinstvo”, fratellanza e unità, in nome di Tito, senza crederci. «Qui non abbiamo avuto Solidarnosc come intellettuale collettivo gramsciano per svoltare dopo l’89, e nemmeno la “rivoluzione di velluto” di Havel», ti ricordano altri amici giornalisti camminando tra una chocolaterie viennoise e un negozio di Tod’s. Secessione morbida da Belgrado, trasformismo da gattopardi al potere. Privatizzazioni giocate tra amici tra i big della politica e dell’economia di Stato, banche pubbliche indebitate per salvare imprese pubbliche decotte, sento dire da fonti d’un importante paese Nato, e col passato troppa poca resa dei conti. Solo Giorgio Napolitano, nel 2010, insieme ai presidenti sloveno e croato chiese rispetto di Storia e dolori comuni, dal fascismo alle foibe. L’unico eroe nazionale del momento, mi dicono i ragazzi dell’università libera dei Punk, cricca di contestatori, è Goran Klemencic, reduce da Harvard, responsabile delle inchieste sui politici corrotti. «Ho fretta, per il paese, non per me», mi dice Alenka Bratusek. M’incontra arrivando di corsa dall’ultimo discorso di sacrifici sudore e lacrime in Parlamento. «A Bruxelles ho spedito due documenti fondamentali, perché capiscano che facciamo sul serio: il programma di consolidamento dei conti pubblici, e quello di rilancio dell’economia». Scommessa difficile, «perché noi come piccolo paese industriale votato all’export soffriamo subito del minimo rallentamento o recessione dei nostri primi partner, da voi italiani alla Germania». Addio all’ultimo “Mondo di ieri”, crescita del Pil fino al 7 per cento annuo, debito disavanzo e disoccupazione a livelli svizzeri. La finanza allegra tra banche e industrie parastatali oggi pesa con un buco oltre i 7 miliardi, più o meno il 20 per cento del Prodotto interno lordo. Troppe privatizzazioni apparen-dal troppe mani che lavano l’altra tra banche pubbliche ad aziende decotte. E il conto si paga, dicono i dossier sul tavolo della giovane premier che ostenta calma. Disavanzo volato dall’1,9 per cento del Pil del 2008 al 7,8 per cento stimato per quest’anno. Debito pubblico triplicato dal 2008 all’anno scorso, Pil passato da una crescita quasi cinese al crollo (-7,8) del 2009 e al -2,3 dell’anno scorso. Disoccupazione più che raddoppiata in 4 anni. «Non c’è scelta, dobbiamo muoverci in corsa», ammette la premier, «meno uscite e più entrate». Col rischio di prolungare la recessione, di svuotare il centro di Lubiana o trasformarlo in un deserto di saldi e saracinesche abbassate? Per gli sloveni quelle immagini viste nell’Italia della porta accanto diventano scenario possibile. «Dobbiamo ricapitalizzare le banche e organizzare una bad bank per salvare solo le aziende valide, non le decotte, costerà 900 milioni di euro ma forse invece la metà se le privatizzazioni avranno successo», promette Alenka, blindandosi d’ottimismo. «Ma attenzione a non puntare al consolidamento e basta, guai a lasciare la crescita per strada». I dossier si accumulano sul suo tavolo mentre la saluto, arriva una delegazione francese. Privatizzazioni in corsa, dalla seconda banca del paese alla compagnia aerea, «e oggi per fortuna ho colto il sì dei potenti sindacati del pubblico impiego a tagli retributivi, vogliamo farcela da soli, mi creda», sorride. Accenna appena al fastidio verso Moody’s spietata che ha declassato la Slovenia a livello junk proprio mentre l’ultima asta internazionale, poi alla fine andata benino, era in corso. La suspence del futuro incerto scende sulla bella Lubiana con la luce del tramonto, mentre dalle Ribarnica, le pescherie-trattorie di pesce lungo il fiume, salgono profumi di semplici grigliate, e nella valle tra le Alpi e il modernissimo microaeroporto da paesino delle fiabe il decollo per Francoforte dell’ultimo dei soli dodici jet civili sloveni rompe appena il silenzio su masi e casolari. La scommessa di Alenka è dura, ammettono gli economisti, «e il rischio è una reazione antieuropea, se Bruxelles risponderà con severità di stile antigreco, se ci affiderà a una trojka o a qualsiasi altro commissario », ammoniscono alla direzione di Delo. Lasci incrociando le dita questo paese con cui oltre 480 aziende italiane hanno un interscambio di 6,7 miliardi, molto manifatturiero ed eccellenze, più che con ogni altro Stato ex jugoslavo. E un timore sussurrato dal team femminile al potere ti resta in mente — «ogni crisi economica può risvegliare dèmoni in Europa, uniamoci contro gli estremismi» — mentre a sera apprendi dalla Bbc delle ultime urla nazionaliste di Orbàn a Budapest, e vedi in centro i beffardi della Università Punk riscoprire T-shirt rosse col volto di Marx e la scritta «non abbiamo da perdere null’altro che le nostre catene». PAOLO RUMIZ PAOLO RUMIZ TRIESTE Ventidue anni fa la secessione venne gestita a meraviglia, con un accordo sottobanco con Belgrado che scongiurò ecatombi bosniache e consentì una guerricciola più mediatica che reale. Ma il distacco di Lubiana fu soprattutto una scaltra operazione bancaria: col mito della “Svizzera dei Balcani”, alla vigilia del disastro, la Slovenia aveva monetizzato la crescente insicurezza della Jugoslavia attirando risparmi dalle altre repubbliche — Serbia, Croazia eccetera — per poi chiudere i propri caveau nei giorni caldi dell’indipendenza. Il paradosso è che oggi quelle stesse banche sono l’epicentro della crisi. Va detto subito che il Paese resta ordinato e ogni paragone con Cipro è fuori luogo. Il paesaggio è ancor quello agreste della vecchia Austria asburgica, il turismo è di qualità, le scuole funzionano bene, quasi tutti parlano un buon inglese e gli asili sono aperti tutto l’anno dalle cinque e mezza del mattino. La burocrazia consente l’apertura di una partita Iva in poche ore, gli ospedali sono ottimi e le poste funzionano talmente bene che a Trieste e Gorizia c’è chi va a imbucare oltre frontiera le lettere per il resto d’Italia, con la certezza di un recapito più veloce. Persino nell’uso dei fondi europei la Slovenia sembra muoversi meglio del suo vicino sull’Isonzo. Ma dopo il 2007, anno dell’entrata in Schengen, un’arietta liberista priva di regole sembra aver contagiato il Paese. Si ruba con molta più disinvoltura e chi denuncia tangenti, evasione o lavoro nero viene dichiarato “comunista” con leggerezza berlusconiana, a partire dall’ex premier Jansa (peraltro cacciato a furor di popolo). L’anima agricola, mercantile e sparagnina degli Sloveni si è fatta così più sprecona, portando il Paese a vivere al di sopra delle sue possibilità. Macchine di lusso, doppie case, mutui “allegri”, euforia nell’acquisto dell’effimero. E’ una crisi di identità, prima che economica. I giornali si chiedono cosa sia diventato il Paese, passano dal pessimismo nero all’appello pati, triottico per la rinascita, temono che la stessa Unione Europea diventi prigione di popoli come la federazione jugoslava. Si invoca la libertà di mercato ma contemporaneamente si celebrano i valori del welfare socialista. Si santifica l’indipendenza da Belgrado e si lamenta che con la vecchia “Jugo” si stava forse meglio, perché tutti si sentivano più garantiti. E il tutto si trasforma in una guerra tra “bianchi” e “rossi” — cattolici e socialisti — secondo schemi antiquati che non aiutano a risolvere il problema. E così, mentre da Maribor a Lubiana pattuglie di “indignados” di ogni colore politico gridano “al ladro”, la maggioranza silenziosa tace, esattamente come in Italia, per coprire i suoi privati spazi di illegalità: lavoro nero, contributi non pagati, favoritismi, cubature edilizie non dichiarate. Un censimento aggiornato degli immobili non esiste, e la maggioranza degli sloveni teme che l’introduzione di una tassa simile all’Imu — probabilmente necessaria per fronteggiare la crisi — possa portare in luce questa comoda fetta di sommerso. Ma il peggio è la fuga dei giovani qualificati e la scarsità dei capitali stranieri. Nonostante il lavoro costi meno che in Italia, le grosse aziende non cercano più la Slovenia per un intollerabile eccesso di vincoli sindacali, ereditati questi dalla Jugoslavia. Sono questi i nodi che il governo di Lubiana dovrà affrontare con urgenza sotto l’occhio severo di Berlino e di Bruxelles. D’altra parte perché affrettarsi, pensano in tanti. Quasi tutti, qui, hanno il loro pezzo ben curato di campagna, e si arrangiano per campare. Uova, frutta, patate, miele sono spalmate su tutto il territorio e generano una forte economia parallela. Gran parte della popolazione impiegatizia smette di lavorare già il primo pomeriggio del venerdì e si mette in coda per disperdersi in un finimondo di linde casette rurali, dalle falde del Tricorno fino ai confini della Croazia e dell’Ungheria. Ecco dunque la fotografia di un Paese ingessato, che teme di aprirsi e rinvia all’infinito la soluzione dei problemi. Lilliput, insomma, non ha ancora deciso cosa vuol fare da grande.