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 2013  maggio 12 Domenica calendario

EPIFANI SEGRETARIO, I DEMOCRATICI E LA RICOSTRUZIONE “ENTUSIASMO ZERO”

Come sto? Abbastanza male. Come del resto tutto il Partito democratico”. Il tono di Matteo Orfini è ironico, la considerazione tristemente veritiera. Alla Fiera di Roma un Pd ai minimi termini elegge il segretario che deve condurlo al congresso. Nei suoi turbolenti anni di vita mai il clima è stato più sfilacciato. Più piatto. D’altra parte lo dicono i numeri: Guglielmo Epifani, il nome uscito dall’estenuante trattativa tra le correnti, viene eletto con 458 voti, su 593 votanti, 59 gli astenuti, 76 le schede bianche. La direzione si affretta a dare le percentuali: l’85,8%. In realtà, l’assemblea contava, in origine, un migliaio di delegati. “Grazie della fiducia. Cercherò di mettercela tutta per fare bene. So quanto è difficile”, commenta il neoeletto, sorriso smagliante, cravatta rossa. A vedere le espressioni dei delegati che escono a elezione compiuta sembra quasi impossibile. Soddisfazione nelle dichiarazioni ufficiali, facce più cupe che mai. La giornata si trascina. L’epilogo è dato per scontato, ma con qualche timore. Bersani fa il discorso dell’amarezza: “Si vince insieme e si perde da soli. Bisogna dirlo ai giovani che c’è sempre un dispiacere su questa strada qua”. Un insegnamento ai posteri: così è la politica. Epifani l’ha voluto lui, ed è accanto a lui che sta seduto. L’applaudono tutti, in piedi. Ma sembra un gesto doveroso, più che sentito. L’applausometro della giornata non registra né punte, né contestazioni. Matteo Renzi, al primo intervento in un organo ufficiale del Pd, viene accolto con blando entusiasmo. Inizio a effetto: i tre episodi che più l’hanno colpito nel 2013? “Aver visto due Papi in Vaticano”, il fatto che “la Samsung investe tre volte la Apple” e “l’autorottamazione di sir Alex Ferguson” (ex ct del Manchester United). Qualche provocazione: “Mi hanno criticato per aver chiesto i voti del Pdl, ora ci siamo presi i ministri”. Chiarisce: “Non dobbiamo subire il governo, ma guidarlo”. Poi, la formula: “Più che un occupyPd serve un open Pd”. L’hashtag scala le classifiche di Twitter. Un vecchio dirigente: “La leggerezza di Renzi fa bene”. Leggerezza che si appesantisce immediatamente al contatto col Pd. Poi, si torna all’attività preferita dei Democratici: l’autocoscienza. Fassina: “Il governo è di compromesso, non un inciucio”. Nel frattempo, arriva la notizia che Alfano, ministro dell’Interno, va a manifestare a Brescia: “È una cosa che va condannata senza se e senza ma”. E quindi? “Non c’è un e quindi”. La Bindi, nella sua posizione di dimissionaria combattente, ci va giù un po’ più dura: “Posso fare lo sforzo di sostenere il governo Letta ma non mi si può imporre la retorica pacificazione”. Fassino informa la platea che gli avevano chiesto di candidarsi, ma lui ha declinato. Prende la parola Cuperlo. È già in corsa per il congresso. “Non ha senso stare al governo con un piede sì e uno no, bensì dobbiamo starci con il nostro senso critico”. Si rivolge a Renzi: “I voti del centrodestra non li conquisti offuscando la radicalità delle tue idee, ma ridando alle persone una ragione di riscatto”. Brevi applausi. Sembra che nessuno ci creda.
PARLA Epifani. Ritmo lento, senza acuti. Tutti aspettano che dica qualcosa sulle sue regole d’ingaggio: è pronto a non ricandidarsi a ottobre? Non tocca l’argomento. La sensazione generale è che stia ipotecando il ruolo pure per il futuro. “Non ho cercato l’incarico, ma non potevo sottrarmi”. Poi al Pd: “Un grande e serio partito non deve avere paura del congresso. Ma le discussioni siano esplicite”. E al governo: “Letta può contare sul nostro appoggio”. Applaudito meno di Renzi. Nei corridoi gli uomini ponte del sindaco di Firenze e Franceschini, Lotti e Giacomelli parlano di assetti futuri. Si aspetta la costituzione della segreteria e il cambio dello Statuto tra premier e reggente. “Più che una segreteria, sarà una gestione collegiale”, dice Orfini. Tutto rimandato ad altre sedi, è già tanto se il partito a sera esce con un segretario. D’Alema e Veltroni ci sono, ma non si vedono. Pure i ribelli sono in tono minore. Gozi, Puppato, Zampa annunciano la loro astensione. Pippo Civati, che aveva parlato di epifania di candidature, non presenta né la sua, né quella di qualcun altro. Anche lui (come Cuperlo e Gianni Pittella) combatterà in autunno. Alla fine, Epifani è candidato unico. Un vero fremito d’emozione lo dà Linda, delegata, maestra elementare: “La mattina in cui si era deciso di votare Prodi mi sono sentita in Paradiso. E poi sono precipitata”, dice piangendo. L’uccisione del padre, la ferita finale che aleggia sul partito moribondo. L’unico che prova a infondere un po’ d’entusiasmo è il premier Letta. “Il governo non è il mio ideale, ho lottato per averne un altro. E se posso dirlo, non lo è neanche il premier”. La platea si lascia scappare una mezza risata. Lui rivendica la scelta di “Cécile” a ministro dell’Integrazione. Cita Mina e il motto del Liverpool: “You’ll never walk alone”. Chiarisce che “Guglielmo è un segretario senza aggettivi”. Il suo profilo riformista è una garanzia. E lunedì il neosegretario nell’ultima tradizione democratica va da Napolitano. Puntualizza Letta: “Difenderemo la magistratura qualsiasi cosa accada”. Intanto Alfano è sulla via di Brescia. Si alza in piedi mezza sala alla fine. Tocca alla Sereni. “Aspettando i risultati non so che fare. Potrei mettermi a cantare, ma in questo Pier Luigi, eri più bravo tu”.

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PD, IL FUNERALE FRETTOLOSO DI UN PARTITO IMPLOSO -
L’inumazione del Pd si è svolta ieri alla fiera di Roma. È stato un rito breve e senza lacrime, come succede per quelle zie lontane e sconosciute che si conducono al cimitero alla svelta perchè domani c’è da andare al lavoro e i figli premono per tornare in città. La sala semivuota garantisce libertà di passeggio nel capannone 10 della fiera di Roma, lato nord. Alle undici del mattino incontro Marco Follini già ai cancelli di uscita: “Tutto deciso ieri”. Bene così, tutto fatto e già visto, perchè perdere tempo per esempio ad ascoltare Roberto Speranza, il capogruppo con i piedi saldamente in aria? In effetti non ha tutti i torti Follini. Speranza dal palco: “Dobbiamo essere autonomi. L’autonomia significa riformismo”. In realtà quella frase non significa niente e infatti ogni cosa va per il verso giusto: lui parla e gli ascoltatori – nella cifra va compresa la quota dei congiurati - sbadigliano, o leggono i giornali o barattano la presenza per qualche photo-opportunity.
RICHIESTISSIMA Alessandra Moretti, la vice sindaco di Vicenza, che a sua insaputa è divenuta volto noto e ossessivo del Pd. Nessun pensiero e molti forse in testa. Ottima per gli intervistatori. Un clic in posa, sulle scale d’emergenza. Un clic in posa, ai piedi della scala, appoggiata al muro, a braccia conserte, a braccia allungate. Grazie molte. Performance appena più modesta quella di Matteo Orfini, il terzo dei giovani turchi, l’unico non accasato. I due compagni, Andrea Orlando e Stefano Fassina, si sono rifugiati al governo. Lui è rimasto a spasso, attorniato dai fotografi. Ancora a braccia conserte, poi a braccia allungate, foto intera di tre quarti, sorridi un po’ diamine. Grazie Orfini.
Sembra una scampagnata fuori porta, un pic-nic tra amici. Spensieratissimo Latorre, oggi sembra vestito da tronista, scarpe lucide e intonate all’abbigliamento ganzo. Sorride, ne ha viste tante e tanto peggio per i delusi, questo partito è così. E giù scappellotti a Michele Emiliano, il sindaco di Bari. Scappellotti tiepidi e felici, come chi ritrova un amico a una festa. “Non mi fanno parlare, ma che ci faccio qui? Questo partito non lo sopporto più”, dice Emiliano contrito. I democratici non si sopportano se sono in più di cinque, bisogna dirlo. E infatti si riuniscono per clan separati. I lucani di Pittella, gli aquilani col sindaco Cialente, i veneti. Ciascuno padrone a casa sua. Per esempio Vincenzo De Luca, sindaco fasciocomunista di Salerno. Ha il tono del padrone e parla ai suoi compagni sputandogli in faccia: “Bisognerebbe vergognarsi”. Lo applaudono, senza sapere che lui a questo partito non ha mai creduto, l’ha svillaneggiato e chiuso nel recinto della sua segreteria. Parla Renato Soru, l’imprenditore illuminato e nei corridoi si volantina contro Soru. I giornalisti dell’Unità non gli perdonano di averli messi nei guai. Tutti i torti non hanno. All’ingresso resistono cento disgraziati con la maglietta bianca che recita la scritta: siamo più dei 101. Poco di più, sì.
La spedizione dei cento. Roma, che sta per votare il sindaco (e sta correndo il rischio di vedere rivincere Gianni Alemanno) neanche se ne accorge che il suo Pd è riunito ai massimi vertici per processare la sua classe dirigente, indicare gli errori commessi, le irresponsabilità. Infatti del gruppetto dei civilissimi contestatori, che non hanno naturalmente ingresso in sala, la delegazione più nutrita (venticinque) è quella calabrese. I romani (e i milanesi, i genovesi, i livornesi) non avevano tutti i torti ad annullare l’incontro ravvicinato: quale processo? Quale sconfitta? Pierluigi Bersani ha risolto in un rapido tiro di sigaro la sua disgraziata conduzione e ha concluso con una frase da nobel del superfluo: “Le vittorie hanno tanti padri, le sconfitte nessuno”. Si è preso la croce e se l’è portata via a gambe levate. Colpiscono i volti, sono volti bugiardi, persone che non sentono il dramma, non si accorgono che il partito sta schiattando sotto le loro poltrone. Osservatori esterni, ospiti di se stessi: “Mi sembra che il partito si stia sciogliendo”, dice il salernitano Valiante. Lo spiega con quella approssimazione del turista per caso.
ECCO LÌ CESARE Damiano, sempre elegante, concede la sua interpretazione alle tv. E Civati, gonfio di carte e di appelli unitili, è un perdente di successo e infatti si fa la fila da lui. Dicono che ci sia Veltroni e pure D’Alema. Si rivede l’antico Alfredo Reichlin, uno dei pochi comunisti in sala, e ha il volto contrito. In lui almeno emerge la consapevolezza del naufragio, gli altri si godono in mare la giornata di sole. Non hanno croci da portare, sanno che anche questa volta l’hanno avuta vinta: lo stipendio corre in alto, qualche auto blu è disponibile nel parcheggio, un passaggio a Porta a Porta sarà ineluttabile. “Impossibile ripartire senza riconoscere una fine”, dice Arturo Parisi. Ma a chi lo dice?