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 2013  maggio 14 Martedì calendario

EXPO, I SEMI DELLA SPERANZA (4

articoli) -
Bastano pochi secondi per attraversare il Brasile, il Guatemala, il Congo e l’Italia. L’Argentina si oltrepassa con un balzo e superare le montagne albanesi è facile con un colpo d’anca. Sì, perché per entrare alla mostra «Pianeta Expo 2015. Conoscere, gustare, divertirsi», alla Triennale di Milano, bisogna guadare (fisicamente) un fitto sipario di bandiere verticali che rappresentano i 130 Paesi partecipanti alla prossima Esposizione universale. «Toccarli con mano, sentire i vessilli come vicinanza emotiva» commenta Felice Limosani, curatore della mostra realizzata in collaborazione con Expo 2015. Una rassegna che vuole essere una guida ragionata ai temi della manifestazione. Ma, prima di entrare, una pausa.
Davanti a un cubo diviso a metà che riflette immagini profondamente diverse le une dalle altre, come un monito: la crisi (nel senso di frattura) tra le economie del pianeta resiste, a dispetto dei tentativi di armonizzare le differenze. Così da una parte scorrono le vite di chi produce, possiede e guadagna mentre dall’altra ecco quelli che dipendono dal resto del mondo per sopravvivere. «Quella dell’Expo — dice Limosani, videoartista e creativo multidisciplinare — è un’occasione unica per riflettere sì, ma anche per cambiare radicalmente l’assetto politico-sociale. Il nostro compito, come quello dei curatori dell’esposizione, non sarà solo mostrare, ma far vivere le cose. Far toccare con mano allo spettatore, per esempio, che cos’è un seme di cotone, visto che in genere siamo abituati a vederlo già sotto forma di tessuto».
Questa mostra, dunque, è un viaggio dantesco verso le origini delle cose, il cibo prima di tutto, ma non solo. Dantesco perché mano a mano che si risale alle radici, alle fave di cacao o ai batuffoli lanuginosi da cui nasce il vestito che indossiamo, «è inevitabile un velo di inquietudine, un senso di colpa se si pensa allo sfruttamento delle risorse», dice il curatore. Così, dopo aver attraversato una parete ad arco, in finta roccia, dove la storia del cibo viene disegnata partendo dalla memoria (le prime produzioni di vino con gli Egizi e il chicco di grano, all’alba della civiltà) si sbuca davanti a piccole montagne bianche, brune, dorate: sono fatte di grano, orzo, fave di cacao e alimenti che costituiscono il primo anello della catena produttiva.
«Abbiamo riprodotto lo schema dei cluster — dice Limosani — che caratterizzerà l’Expo, dove ogni Paese verrà chiamato a sviluppare argomenti legati ad uno o più alimenti. In modi diversi». Per esempio la Svizzera pensa ad un enorme contenitore pieno di sementi dal quale chiunque potrà attingere: solo così si avrà la netta percezione che le sementi, così come tutte le cose, finiscono se ognuno se ne serve in maniera indiscriminata. Più avanti, ecco un planisfero sul pavimento, sul quale, in corrispondenza delle zone d’origine, svettano cilindri contenenti caffè, spezie, semi vari. Si potrà così scoprire che, accanto al primo produttore mondiale di caffè Arabica, il Brasile, spunta il Benin, la repubblica africana che, a fronte di potenzialità produttive, non riesce a decollare a causa dei sistemi agricoli arretrati. Si scoprirà anche che ogni pianta adulta può produrre centinaia di semi necessari non solo alla sopravvivenza della specie a cui appartengono, ma anche per quella di altre specie. Ed ecco la vera opera d’arte: la natura è un gigantesco, prezioso mosaico dove tutto è connesso. E l’arte deve esplorarlo, con i suoi linguaggi: Joseph Beuys, nell’82, piantò settemila alberi a Kassel (Germania), mentre Richard Long andava oltre, attraversando la natura, lasciando tracce, fino a farne parte.
Infine, prima di arrivare alla proiezione di «Last Supper», l’opera di Vik Muniz, c’è il Children Park per i bambini: una video installazione all’interno di un grosso rocchetto che richiama il girotondo. «Concludiamo insomma con il futuro — dice Limosani — sperando che sia il vero punto di partenza».
Roberta Scorranese

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«PIU’ CHE DI OGGETTI, DA SEMPRE VETRINA DELLE IDEE» -
Expo, vetrina di oggetti, manufatti, creazioni dell’ingegno, ma anche veicolo di idee, proposte, valori di un’epoca. Dalla prima rassegna, a Londra nel 1851, all’ultima, di Shanghai nel 2010, alla prossima ventura, fra due anni a Milano, è un doppio binario quello lungo cui si sono sempre mosse queste grandi manifestazioni internazionali.
«Si può guardare alle Esposizioni universali e vedere riflessa la storia mondiale» commenta lo storico Paolo Colombo. «Quando all’Esposizione di Parigi del 1867 venne in visita Guglielmo di Prussia ed entrò come privato cittadino — prosegue lo storico Colombo —, fu considerato un gesto di distensione tra le due nazioni e di disponibilità a intraprendere colloqui amichevoli».
Come oggetto da esporre fu inviato il più grande cannone che i prussiani riuscirono a produrre. Così negli anni della Guerra Fredda: «nei padiglioni degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica si ritrovavano contrapposti due modelli di vita: da una parte l’american way of life fatto di jazz, gelati, piscine; dall’altra, il socialismo reale con una gigantesca statua di Lenin e lo Sputnik». Un altro riflesso dei tempi è l’edizione dopo la crisi del ’29 che vide fronteggiarsi le case automobilistiche Ford e Chrysler. «La prima inizialmente non voleva prenderne parte, poi, invece, aderì con un progetto faraonico: un colossale murales che ne raccontava la storia, usando un mestiere d’arte nuovo quale era allora la fotografia». Nelle edizioni più recenti di Expo, in una situazione geopolitica profondamente diversa, tornano protagonisti i grandi temi ideali come accadeva in origine: «se nell’Ottocento l’Expo rappresentava un incontro tra culture, ora si affrontano tematiche importanti e trasversali». Come la tecnologia (Hannover 2000) o la qualità della vita nelle città; argomenti spesso legati ai luoghi che le ospitano, come «La saggezza della natura» in Giappone (Aichi, 2005) o a ricorrenze «L’età delle scoperte», a Siviglia nel 1992, nel quinto centenario della scoperta dell’America.
In questa direzione va anche il tema milanese di Expo 2015, «Nutrire il pianeta, energia per la vita», che si colloca nella prospettiva di fornire — «in senso ampio e allargato», auspica Colombo — un’idea di bellezza ed eccellenza italiana.
La storia delle Esposizioni universali racconta che raramente nel bilancio di un successo o di un insuccesso conta il tema. «Vale di più che queste manifestazioni — spiega lo storico — si trasformino in casse di risonanza». Luoghi dove mettere in comune idee e saperi. «Dare spazio e voce a giovani, innovazione e creatività: negli anni è stato quasi sempre questo il portato delle Expo».
Usando questi come valori discriminanti, le occasioni più riuscite sono, a parere di Colombo, le Esposizioni che si sono svolte a cavallo tra il XIX e il XX secolo. «Chicago e Parigi ma anche Milano nel 1906 oltre ad offrire meraviglie e stupore ai visitatori seppero cogliere al meglio lo spirito del loro tempo, mostrando ad esempio quello che l’elettricità o l’impiego del ferro nelle costruzioni potevano fare». Edizione memorabile per l’avanguardia delle idee proposte fu, tra le due guerre, quella di Parigi del ’25: «Le Corbusier realizzò un padiglione intorno a un albero i cui rami spuntavano dall’ingresso e dal tetto; la commissione dell’Esposizione però non gradì e fece mettere una recinzione per nascondere al pubblico la vista della casa-albero». Pensando, invece, a Osaka 1970 i temi erano progresso e armonia ma quello che viene in mente è in primis l’idea originale delle capsule del tempo, piene di oggetti da affidare ai posteri; «certo a distanza di quarant’anni molto è cambiato, per noi oggi gli oggetti non sarebbero più Walkman e Polaroid...».
Infine, a chi sostiene che la formula delle Grandi Esposizioni oggi, nella nostra società, sia superata, lo storico Paolo Colombo replica: «le Expo sono grandi contenitori, il problema è quello che ci metti dentro».
Severino Colombo

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ALL’ULTIMA CENA DELLE BEFFE -
Fin da quando fu dipinta, alla fine del Quattrocento, l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci è l’opera più riprodotta, reinventata e parodiata della storia dell’arte. Era inevitabile, dunque, che ci si dedicasse anche Vik Muniz, classe 1961, artista brasiliano specialista nei d’après realizzati ricalcando con vari materiali, dalla spazzatura allo sciroppo di cioccolato, la riproduzione del capolavoro scelto. Muniz fotografa poi dall’alto il suo lavoro e infine stampa il negativo così che l’opera finale è di fatto la riproduzione di una riproduzione. Un procedimento complicato che serve a rendere immortale ciò che è deperibile, il cibo, e non potrebbe aspirare all’eternità dell’arte. L’artista bypassa così l’ostacolo sfidando ironicamente il modello con una specie di beffardo parassitismo della fama.
E da una beffa era nata anche, agli inizi degli anni Sessanta del Novecento, l’idea di Daniel Spoerri di trasformare i resti di una cena parigina fra amici in un «quadro trappola», un’opera d’arte dove tutto ciò che era rimasto sulla tavola veniva intrappolato per sempre, incollato e appeso al muro come un dipinto medievale su tavola. Solo che Spoerri, nato nel 1930 in Romania, è stato ancora più audace di Muniz. Avanzi di cibo, piatti, bicchieri, pane, vino, cicche di sigarette, tovaglioli: tutto è vero e deperibile, non semplicemente fotografato. Forse perché, prima di diventare uno dei padri del Nouveau Réalisme, il movimento che dopo l’astrattismo è ripartito dagli oggetti della vita quotidiana, Spoerri aveva fatto anche il cuoco.
Tuttavia persino le sue tavole non erano una novità assoluta. Uno dei quadri seicenteschi più belli e misteriosi, perché ancora non se ne conosce l’autore sebbene molti insistano sul nome di Caravaggio, è il cosiddetto Pospasto conservato alla National Gallery of Art di Washington, una natura morta di avanzi di frutta abbandonata sulla tavola a fine pasto. È nel Seicento, del resto, che i pittori cominciarono a dedicare al cibo quadri autonomi immortalando pesci, carne, biscotti, verdure e frutta. Ma ancora prima, alla fine del Cinquecento, l’utilizzo più originale e bizzarro del cibo nell’arte si deve a Giuseppe Arcimboldi, milanese che con fiori, frutta e verdura fece addirittura il ritratto di Rodolfo II. L’imperatore in effetti era noto per essere un tipo molto eccentrico, ma oggi in molti lo potrebbero superare in stravaganza. Lady Gaga, per esempio, sfoggiando una giacca di carne fresca, non ha fatto che copiare un lavoro di Jana Sterbak, artista canadese, classe 1955, la quale si era fatta un intero abito di fettine di manzo. Tutto sommato un impegno della carne moderato rispetto all’intera carcassa di capra indossata da Tania Bruguera, nata all’Havana nel 1968, per la sua opera The burden of guilt, il peso della colpa. Un’altra body artista, Marina Abramovic, passando sei giorni a spellare ossa di animali, ha addirittura vinto il Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 1997.
In effetti, la carne incontra un particolare favore fra gli artisti contemporanei e fra gli utilizzatori si possono citare anche Robert Gligorov, classe 1960, macedone che vive a Milano, il quale con la carne voleva ricoprire un’intera parete del Padiglione d’arte contemporanea di Milano, 15 metri per 5 di bistecche di manzo e vitellone intitolati Il muro del pianto, progetto impedito dal Comune per questioni d’igiene; e Wim Delvoye, il quale non solo tatua la pelle dei maiali che verrà consegnata al collezionista solo alla fine della vita del suino, ma con fette di prosciutto, mortadella e insaccati vari realizza pavimenti intarsiati come marmi policromi.
E poi c’è l’altro versante, quello che combatte dai fornelli: il sempre più fitto plotone di cuochi che trasformano i piatti in opere d’arte. Per i suoi dolci, la chef californiana Caitlin Freeman si ispira all’arte moderna come nel caso del plum cake in stile Mondrian fotografato per la copertina del suo libro: «Modern art desserts». In effetti, ci si può legittimamente chiedere: qual è la differenza fra i suoi dolci e il Cenacolo di cioccolato di Vik Muniz? Oppure come il maestro dell’avanguardia culinaria, lo spagnolo Ferran Adrià, invitato all’ultima Documenta di Kassel, il conclave dell’arte contemporanea. E proprio in questi giorni al Mart, il museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, è in corso la mostra happening «Progetto cibo. La forma del gusto», cui partecipano designer, architetti e cuochi. Anzi, come si chiamano ora, «food architects», architetti del cibo.

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IL BISOGNO DI SPIEGARE I TEMI E UNA EREDITA’ ANCORA DA TROVARE -
Mancano meno di due anni, 700 e qualcosa giorni. Gli operai stanno correndo per superare i ritardi accumulati fin qui, i Paesi hanno prenotato i padiglioni più grandi e stanno pensando ai loro progetti, la politica ha risposto all’appello nominando un commissario unico e il premier Enrico Letta si è occupato dell’evento fin dal discorso del suo insediamento. Ma non basta. Milano e l’Italia si erano aggiudicati, nel 2008, l’esposizione del 2015 scegliendo un tema di grande impatto e di grande attualità che aveva conquistato la maggioranza dei delegati del Bureau International des Expositions: «Nutrire il Pianeta, energia per la vita». Che significa occuparsi di alimentazione, certo, ma anche di fame nel mondo, di aiuto ai Paesi in via di sviluppo e poi di stili di vita, di benessere, di come e cosa mangeremo fra vent’anni. Tante sfaccettature ancora tutte da esplorare, anche per trovare un punto che renda questa esposizione memorabile e individuare una legacy, un’eredità da lasciare al mondo.
Era stato detto fin da subito che, vuoi per la crisi, vuoi per limiti economici oggettivi, nel 2015 non avremmo ritrovato gli allestimenti faraonici visti a Shanghai: «Non faremo una prova muscolare, ma punteremo sui contenuti». Appunto. Ed è su questo, oltre che sui cantieri, che adesso bisogna correre. Expo sta, poco a poco, conquistando la fiducia di chi spera di trovare in questo 2015 un’occasione di rilancio per l’occupazione, il terziario, per il turismo. Ma per trasformare l’evento in un successo bisogna cominciare a spiegarlo, questo contenuto. E allora, ben vengano gli eventi, gli Expo-days, le mostre, il marchio che comincia a girare e si vede perfino in tivù. Purché non ci si fermi lì e si abbia chiaro quale messaggio verrà portato dall’Expo 2015. L’Expo milanese del 1906 ci aveva regalato l’Acquario civico e aveva consacrato la Fiera campionaria e l’area del Sempione: questa edizione, per cosa si ricorderà?
Elisabetta Soglio