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 2013  maggio 14 Martedì calendario

PADRI E FIGLI NELLO STESSO REPARTO COSÌ NASCE IL MIRACOLO DELLA TOD’S

CASETTE D’ETE (FERMO) — Le pelli le controlla Toni una per una. Le tocca, le annusa, le stropiccia, le distende. Verifica il colore, misura lo spessore, accerta le striature venose, elimina i pellami venuti male. Toni Ripari ha 67 anni, ha fatto solo le scuole elementari, lavora da quando ne aveva 11. Sa tutto delle pelli di vitello, toro, cobra, pitone, coccodrillo. Potrebbe quasi ricostruire la vita e l’alimentazione dell’animale. Ogni pelle ha una sua storia, diventerà una borsa o un paio di scarpe. Le pelli arrivano da diverse concerie sparse nel mondo, Europa, Americhe, Asia. Racconta Toni: «Quando Diego mi diede la responsabilità di questo reparto, mi disse: “Toni, ti affido una banca. Mi raccomando”». La pelle qui è la materia prima. Sono passati più di 25 anni. La banca è diventata una superbanca. Toni è ancora qui. Diego è Della Valle, Mr.Tod’s, che viaggia nel mondo con il suo jet privato e atterra in elicottero, qui a Casette d’Ete nel quadrilatero marchigiano degli scarpari, Montegranaro, Monte Urano, Porto Sant’Elpidio, Civitanova.
Il marchio della sua Tod’s è conosciuto in tutto il globo, un brand made in Italy. Ma questo è soprattutto un successo di un’intera comunità. «I nostri parenti stanno qui, non ad Hollywood», dice Della Valle, presidente e amministratore delegato del gruppo che continua a fare utili (145,5 milioni nell’ultimo bilancio, +7,8%) a dispetto della nuova Depressione.
Qui lavorano 910 persone. Più donne che uomini, età media intorno ai 35 anni. Erano solo in 200 all’inizio. Ed è come se la comunità fosse entrata in azienda, e viceversa. Un tutt’uno che spiega molto di questo successo. Senza ritmi frenetici. Anzi: si fa qualità, una scarpa alla volta. Con le mani e poche macchine. Fabbrica a misura d’uomo.
Nel 1998, quando venne tirato su quest’impianto bianco a forma di H in mezzo al verde di Brancadoro e pieno di vetrate, si decise di prevedere anche un asilo. Il primo aziendale in Italia. L’esempio è stato poi copiato. Oggi lo frequentano 30 bambini, tra i due e i 5 anni. Poco più in là c’è la palestra. Vicino alla mensa, c’è la mediateca, libri, film, giornali, Internet. Sussidiarietà che si trasforma in un fattore di competitività. «Il nostro gruppo – dice Della Valle – vive di persone. Senza di loro non c’è niente».
In produzione (a Casette si fanno solo le scarpe da donna con marchio Tod’s) lavorano in 250 su due turni. Dal montaggio dei rinforzi sulla tomaia alla confezione della scarpa nella scatola ci sono circa 25 passaggi. Si lavora con i chiodini tra i denti, il martello in mano, la colla, insomma la vecchia cassetta degli attrezzi. Le
macchine sostengono il lavoro degli operai, ma non lo sostituiscono. In ogni postazione c’è un calzolaio. Le macchine, dicono qui, sono come i robot per un chirurgo: alla fine serve sempre una gran mano. Per formarne un bravo calzolaio sono necessari dai 4 ai 5 anni. «C’è una scuola invisibile lungo la catena, è il passaggio di competenze e di mestiere, tra il lavoratore più anziano e il giovane», spiega Della Valle. Il colore del camice cambia a seconda del ruolo: bianco per gli specialisti, bordò per gli operai in produzione, blu per i giovani apprendisti. Capita che ci siano due o addirittura tre generazioni di una stessa famiglia in attività. Una comunità, appunto.
Prima della produzione c’è la parte creativa. Senza uscire dai binari della scarpa Tod’s, nascono qui i nuovi prodotti, almeno cento ogni anno. Si testano in modelleria, dove la scarpa si scompone in quasi ottanta pezzi. All’ingresso della prototipia c’è il piccolo banchetto di lavoro del secolo scorso di nonno Bernardo, detto “Filippo il calzolaio” (l’inizio della dinastia proseguita con Dorino, che assunse Toni, e poi Diego e il fratello Andrea), appese alla parete le forme per le scarpe di tanti vip. Antico e moderno. Il prototipo si cuce tutto a mano, la forma la fanno i giovani falegnami con i vecchi strumenti, raspa, seghetto, scalpello.
Ma è la comunità la trama di questa vicenda industriale. Perché non è un caso che Tod’s non abbia fabbriche in Cina o in altri Paesi dell’estremo oriente. Lì tutto questo non si sarebbe potuto realizzare. Non è con la riduzione dei costi, soprattutto del lavoro, che si fa la qualità di un prodotto. «Questa – sostiene Della Valle – è un’azienda che un finanziere non potrebbe costruire». E’ la rivincita dell’economia reale. E del ruolo sociale dell’imprenditore. «Oggi le imprese hanno il dovere, anzi l’obbligo, di esporsi socialmente con la faccia dei propri azionisti». Il welfare aziendale si è così allargato: un bonus annuale di 1.400 euro, una polizza sanitaria, estesa a tutti i famigliari, nei casi di gravi malattie, il pagamento dei libri scolastici fino all’università per i figli dei dipendenti. E poi, ancora la proposta (già adottata dal cda di Tod’s) avanzata ai colleghi imprenditori (innanzitutto a quelli che fanno parte del Mib 40) di destinare l’1% dell’utile netto a progetti di solidarietà per il proprio territorio. Paternalismo? «Capisco i sindacati quando lo dicono. Anch’io se fossi nei lori panni considererei questa una “azienda a rischio”. Così gli si toglie il nemico. Non vogliamo sostituirci a loro, ma nemmeno possono impedirci di avere delle idee e di metterle in pratica». E la politica? «Con le dovute eccezioni, la politica per quello che ha fatto a questo Paese non va nemmeno ascoltata».