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 2013  maggio 14 Martedì calendario

IL PLURIESPULSO DALLA GERMANIA

Tutti conoscono Mehmet, anche se questo non è il suo nome. Il suo destino è diventato il simbolo, nel bene e nel male, di chi vive nell’emigrazione, tra due paesi, e due culture, non accettato né qui né lì. In realtà, si chiama Muhlis Ari, e gli diedero il soprannome Mehmet per tutelare la sua vera identità quando era minorenne.

Ora, probabilmente, nemmeno lui sa come si chiami realmente, tra un nome vero, e quello che lo ha reso famoso. Ma non amato, ovunque viva. Una storia che dovrebbe interessare anche gli italiani, divisi tra ius soli e ius sanguinis, tra dare la cittadinanza a chiunque nasca sul nostro suolo, oppure dargli il passaporto dei genitori.

Mehmet è nato a Monaco nel 1984, ma è sempre rimasto turco, come il padre e la madre, arrivati in Germania in cerca di fortuna come i quasi 3 milioni di immigrati dal golfo. Già prima di compiere i 14 anni, Mehmet era noto alla polizia bavarese: furti con scasso, borseggi, ricatti, minacce, violenze. Un bambino non può essere punito, gli agenti dovevano limitarsi a ricondurlo a casa dei genitori, con una ramanzina.

Un bambino? Mehmet era alto un metro e 80, i suoi vandalismi avevano provocato danni per 50 mila marchi, 50 milioni di lire, aveva anche devastato l’asilo infantile in cui non si era trovato a suo agio. Una sera, per qualche sigaretta, picchiò selvaggiamente un passante, lo mandò all’ospedale, con lesioni che lasciarono tracce permanenti. Così, il giorno del suo 14esimo compleanno, il 16 giugno del 1998, i poliziotti in borghese lo seguirono passo passo e, al primo reato, lo presero di peso, ora poteva rispondere come un adulto sia pure ragazzino delle sue gesta, lo condussero davanti a un giudice che lo condannò a un anno.

Il ragazzo non trascorse neanche un giorno in una prigione tedesca. Era turco, gli tolsero il permesso di soggiorno e lo rispedirono in patria, cioè in un paese che non aveva mai visto. Il primo caso di un bambino, o quasi, espulso da solo. Per la verità, i bavaresi volevano buttare fuori anche i genitori. Colpa loro se Mehmet era cresciuto male. Il padre, violento, terrorizzava la famiglia. La madre abulica sembrava un automa, annientata dalla violenza del marito. Poi rinunciarono per le proteste generali. Il ragazzo si trovò in Turchia, di cui conosceva a mala pena la lingua, mentre parlava come un suo coetaneo tedesco purosangue. Si presentò a casa dello zio che non le fece entrare. Divenne per qualche settimana un divo della Tv, poi lo dimenticarono. Sopravvisse con vari lavoretti.

Quando compì 18 anni, chiese di poter tornare «a casa sua», cioè a Monaco. Dato che i genitori vivevano in Germania da oltre 30 anni, anche se non avevano mai chiesto la cittadinanza (non la desidera l’83% dei turchi), i giudici furono obbligati a dirgli di sì, nel 2002. Tornò, prese il diploma con un voto di 1,5, che equivale a quasi un nostro 9, Mehmet era cambiato. Nel 2005, di nuovo una condanna a 18 mesi per aver minacciato e ricattato i genitori. E nuova espulsione. In un villaggio turco, Muhlis Ari, a 28 anni chiamiamolo così, gestisce una piccola ditta di trasporti. E ha chiesto ancora una volta di tornare nel paese di cui parla la lingua, anzi dopo 15 anni non ha dimenticato il dialetto bavarese: «Ma condonatemi la pena», implora, «sono cambiato, sul serio».

Il ministro degli interni della Baviera, Joachim Herrmann, risponde: «Mehmet non lo vogliamo tra noi». La Taz di Berlino, alla lontana il nostro Manifesto, lo è andato a cercare. Mehmet ha chiesto e ottenuto mille euro per raccontare la sua storia. I cattolici bavaresi non lo vogliono. E lui ha scritto al presidente della Repubblica Joachim Gauck, ex pastore protestante. Ma finora non gli ha risposto. Anche Lutero non conosce perdono? Ho sbagliato il termine, non conosce comprensione? Non è una storia che potrà avere mai un lieto fine, e non ha una morale, non è a favore dello ius soli o dello ius sanguinis. È una storia che vale mille euro.