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 2013  maggio 14 Martedì calendario

IL DILEMMA DI LONDRA: RIFORMARE L’EUROPA O AVVIARSI ALL’USCITA

(tre articoli) –
Momento peggiore per andare alla Casa Bianca forse non c’era. Convinto di volare da Obama per discutere, fra le altre cose oltre alla Siria, l’istituzione di un’area anglo-americana di libero commercio, David Cameron si è trovato nella spiacevole condizione del premier impallinato dal «fuoco amico». La questione europea per Downing Street è una mina ormai saltata.
Mentre ancora stava mettendo a punto il dossier da affrontare con Washington, in particolare le risposte da dare all’amministrazione Usa che gli chiede di non insistere sull’uscita dalla Ue e che anzi gli obietta l’intenzione di stringere un nuovo patto commerciale ma solo se Londra negozierà ma continuerà la partnership con l’Europa, il premier britannico si è visto scaraventare addosso il guanto di sfida da una fetta consistente del suo partito. Uno sgambetto violento, viste le circostanze. Un modo per metterlo con le spalle al muro e per costringerlo, come avvenuto, a presentare a stretto giro di posta (stamane) un progetto di legge sul referendum sì o no a all’Europa. Mossa che apre mille scenari.
Che le acque fossero agitate nella periferia e nelle seconde file del gruppo parlamentare oppure fra i più anziani esponenti tory ancora legati alle tradizioni e alle suggestioni thatcheriane, David Cameron lo sapeva bene. E, così pure, che all’interno del suo governo alcuni ministri fossero particolarmente «nervosi» aveva avuto modo di constatarlo di persona. Ma che due pezzi da novanta del calibro di Michael Gove che guida il dicastero dell’educazione e Philip Hammond che è a capo della difesa uscissero allo scoperto con interviste in televisione per dire che se si celebrasse oggi il referendum sull’Europa loro voterebbero no e che non c’è tempo da perdere nel convocare un referendum, Downing Street non poteva e non voleva metterlo in conto. Specie a poche ore dal vertice con Obama.
Invece la bomba politica è deflagrata dimostrando che i conservatori sono sull’orlo di una crisi non passeggera, una crisi che entra nelle stanze importanti del governo. Considerando che nell’arena non ha mancato di presentarsi pure l’eccentrico e potente sindaco di Londra, Boris Johnson, che sta giocando una partita in proprio per conquistare la leadership nazionale e che sul Daily Telegraph, con duplicità assoluta, sostiene di non ambire alla separazione dall’Europa subito, che è sbagliato ma che se questa Europa non cambia sarà bene divorziare, si delinea per David Cameron uno scenario per niente facile da gestire nel prossimo futuro.
L’assedio a Downing Street si sviluppa sia sul fronte interno che su quello internazionale. Le fughe in avanti e le frenate sull’Europa, che hanno contraddistinto la rotta di David Cameron negli ultimi mesi, si stanno ritorcendo contro di lui. Un boomerang. Così, il premier si trova con due ministri di primo piano che lo contestano e allo stesso tempo con una mozione degli oltranzisti euroscettici che sarà discussa e votata mercoledì ai Comuni (se i promotori non si fermeranno) per censurare l’assenza dal programma legislativo di quest’anno di una legge con le procedure e le date certe del referendum europeo. Lo smacco è di contenuti e di forma perché quel programma lo ha letto e illustrato la regina. E non è di certo un gesto di bon ton verso la sovrana provare a emendarlo in maniera tanto chiassosa.
Da qui la stizza di Cameron quando ieri sollecitato lungo la rotta verso Washington ha rifiutato l’idea di un partito che gli sta sfuggendo di mano. Presentarsi alla Casa Bianca con queste grane in casa non è il migliore biglietto da visita da esibire. Inevitabile la freddezza dei commenti. Cameron ha bollato le uscite dei due ministri (il loro no all’Europa) come «questioni ipotetiche, non essendoci il referendum domani» e ha ripetuto il suo mantra: con l’Europa «si trattano le riforme per renderla più flessibile, più competitiva, più aperta e per migliorarne le relazioni con il Regno Unito così da offrire ai nostri cittadini, quando avremo il referendum prima della fine del 2017, una scelta appropriata». Gettare la spugna in anticipo è controproducente, ha rimarcato Cameron dando dei perdenti a coloro che lo criticano per le cautele e gli sbandamenti.
La strategia del premier è di non usare toni ultimativi adesso, anche per non spezzare gli equilibri già fragili di coalizione con i liberaldemocratici, ma di utilizzare l’Europa come tema elettorale di fondo nelle politiche del 2015 con la convinzione di catturare i voti degli euroscettici quando più conta e con lo slogan: se vinco io, se mi rimanderete a Downing Street senza il laccio di un’alleanza, faremo il referendum. Gioco rischioso. E gioco che non sembra accontentare la fronda dei conservatori che chiede impegni e passi immediati per avviare le procedure di separazione dalla Unione.
David Cameron è al bivio: o convince i suoi amici-nemici interni a pazientare usando la tattica del mordi e fuggi fino alla consultazioni oppure rischia di ritrovarsi vittima di un’imboscata al giorno e delle fibrillazioni che la crescita del partito dell’indipendenza di Nigel Farage sta determinando. Le elezioni locali sono state molto più di un campanello d’allarme. L’Ukip, che ha nell’antieuropeismo la sua bandiera, si è affermato come la terza forza politica ma soprattutto ha eroso altissime percentuali di consenso nelle regioni tradizionalmente vicine, se non fedeli, ai conservatori. Cameron ha provato nelle ultime settimane a sterzare verso posizioni decisamente più aggressive nei confronti dell’Unione Europea ma il suo intervento è risultato tardivo e soprattutto macchiato dal sospetto dell’opportunismo elettorale. Sono in tanti a non credergli.
Il messaggio che gli euroscettici e gli eurofobici hanno recapitato a Downing Street proprio a ridosso della visita a Obama segnala che la spaccatura non è una finzione o un leggero mal di pancia. Una componente importante dei tory trascina Cameron fuori dall’Europa sull’onda dei sondaggi e degli umori popolari (la voglia di abbandonare la Ue predomina e persino fa breccia fra i laburisti). La Casa Bianca (ecco il fronte internazionale) invece lo trascina dentro: l’amministrazione americana è favorevole a un’Europa unita con Londra che tratta sulle riforme ma che ne è parte senza remore. Obama a Cameron lo ha già detto un paio di mesi fa. E lo ha ripetuto nell’incontro di ieri.
In mezzo a queste tensioni di casa e a questi colloqui e divergenze con l’alleato principale c’è il calvario di un premier ormai prigioniero delle sue ambiguità sulla questione Europa. Che sia lui stesso un euroscettico non v’è dubbio. Ma l’alleanza coi liberaldemocratici, che sono i più convinti sostenitori dell’integrazione, e le relazioni sia con Washington sia con Berlino lo hanno fino ad oggi costretto a un approccio più pragmatico mettendolo nella condizione di frenare gli oltranzisti del suo partito e dell’Ukip. Solo che ora il gioco non regge più. Non basta che Cameron prometta il referendum per il 2017. Non basta che Cameron prometta di fare dell’Europa il campo di battaglia delle prossime elezioni politiche nel 2015. A Cameron, che insiste sulle necessità di trattare e di sottoporre al giudizio delle urne il risultato dei negoziati sulle riforme europee, si chiede un atto di rottura: non la vaga e lontana intenzione di un sì o di un no ma qualcosa di più preciso, un orientamento forte ad accelerare il divorzio, sia pure amichevole, con l’Europa.
La verità è che a furia di inseguire gli estremisti dell’euroscetticismo, ogni volta andandogli dietro e alzando l’asticella dello scontro con la Ue, David Cameron si ritrova alla fine nel loro mirino, quasi costretto a obbedire ai loro ultimatum, addirittura ad arrendersi presentando ai Comuni, mentre ancora è negli Stati Uniti, il progetto di legge sul referendum. Le certezze sulla sua leadership vacillano. La resa nei conti fra i conservatori è cominciata.

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MARIA SERENA NATALE -
Uno psicodramma collettivo, che incrocia lotte intestine e interessi di partito, dinamiche di costruzione dell’identità nazionale, strategie economiche: il dibattito sulla complessa relazione con l’Unione Europea è da sempre uno specchio nel quale il Regno Unito cerca il proprio volto. «Un dibattito lasciato, negli ultimi quindici anni, al monopolio degli euroscettici» spiega al Corriere Brendan Donnelly, ex eurodeputato conservatore e dal 2003 direttore del Federal Trust, uno dei più autorevoli think tank britannici, che monitora con acume e spirito critico il funzionamento della Ue e il rapporto tra le due sponde della Manica.
L’odio-amore tra Regno e Continente è un tema sensibile che si presta a strumentalizzazioni politiche e mediatiche. Cosa c’è dietro quest’ultimo fuoco di fila su David Cameron?
«La sua accresciuta debolezza sul fronte interno. Il partito non gli ha mai perdonato di non aver ottenuto una maggioranza assoluta alle elezioni del 2010. Ora le misere condizioni economiche del Paese hanno ridato slancio all’ala più aggressiva. L’Europa è tradizionalmente il terreno prediletto per le rese dei conti interne dei conservatori, una tendenza solo attenuata nei primi due anni e mezzo della coalizione. A questo punto si sono ristabiliti i vecchi equilibri e Cameron è in piena tempesta. Che alla fine si arrivi a un referendum oppure no, l’obiettivo della componente euroscettica è tenere alta la pressione».
Il referendum è già un tema caldo della campagna elettorale. Si farà?
«È poco probabile. Malgrado lo stato di allerta, all’interno del partito non esiste una maggioranza pro referendum e i liberaldemocratici, fortemente europeisti, non lo vogliono. La partita di Cameron è soprattutto contro la paura dei conservatori di perdere seggi nel 2015, non necessariamente in favore dell’estrema destra dell’Ukip, che resta un partito concentrato sulla protesta: il pericolo viene da laburisti e lib-dem ben radicati in precise, strategiche circoscrizioni».
Uno dei principali argomenti dei teorici anti Bruxelles è che, per una grande economia con una debole base industriale come quella britannica, i costi della permanenza in un mercato comune così rigidamente regolamentato sarebbero molto maggiori di quelli di un’uscita negoziata.
«Un presupposto teorico del tutto irrazionale. Il ragionamento si basa sull’assunto che, a conti fatti, una negoziazione dell’uscita garantirebbe condizioni più vantaggiose rispetto a quelle di un’eventuale rinegoziazione della membership. Ma è irrealistico per Londra aspettarsi di ricevere un trattamento più favorevole alle proprie esigenze dopo aver lasciato il club. Stando fuori, il governo non potrebbe più dire la sua in sede decisionale e contribuire alla formulazione di regole, in materia di economia o ambiente, con le quali dovrebbe comunque confrontarsi».
L’approfondimento dell’integrazione europea implica un ridimensionamento del ruolo della City come cuore finanziario dell’Unione. Vede nelle pulsioni euroscettiche la paura di essere progressivamente spinti ai margini?
«I britannici sono stati a lungo preoccupati per una possibile marginalizzazione, il problema è che non lo sono più. Contrariamente a una percezione diffusa all’estero, nel sottofondo di questo psicodramma collettivo c’è sempre stata la convinzione che avessimo bisogno del Continente. Difficile immaginare un percorso di evoluzione ed emancipazione come quello che abbiamo attraversato negli ultimi decenni senza la partecipazione al progetto europeo».
Ora in quest’autorappresentazione è subentrato un senso di autosufficienza?
«L’idea che possiamo farcela da soli, alimentata soprattutto da due convinzioni: che i meccanismi di decisione comunitari siano fondamentalmente antidemocratici e irrazionali; che una volta sganciata dal carrozzone europeo la Gran Bretagna potrebbe avviare una radicale de-regolamentazione, molto più in linea con la sua anima neo-liberale. Quest’ultima considerazione non tiene però conto di un dato imprescindibile: deregolamentazione totale significherebbe meno solidarietà, intollerabile per la mentalità britannica».
Solidarietà come valore anche nei rapporti tra Stati?
«Senza dubbio».
Un approccio «mediterraneo» che non ci si aspetterebbe dal Paese che con Margaret Thatcher premier strappò lo «sconto britannico».
«Non ne faccio una questione morale ma meramente tecnica. Bisogna trovare il modo di far funzionare la moneta unica e rafforzare il mercato, per raggiungere l’obiettivo è impensabile che i più forti si disinteressino dei problemi dei più deboli. La crisi poteva essere l’occasione per potenziare un approccio basato sulla solidarietà, finora non è stato così ma sono fiducioso. Quanto alla Gran Bretagna, credo che nel suo futuro debba esserci l’adozione dell’euro, l’unico modo per rientrare a pieno titolo nel progetto di integrazione».
Progetto che perderebbe forza se Londra uscisse?
«Londra è un mercato importante e porta un’esperienza di governo che ha dato un contributo fondamentale alla legislazione comune, in termini di pragmatismo e coerenza. Europa e Gran Bretagna hanno bisogno l’una dell’altra».

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DINO MESSINA -
L’isolazionismo sta alla Gran Bretagna come la grandeur alla Francia, l’individualismo, il senso preminente del «particulare», all’Italia. È un tratto distintivo del carattere nazionale, ricorrente nelle varie fasi storiche. Provate a chiedere a uno studioso dell’età moderna un giudizio sull’atteggiamento inglese nel lungo periodo verso l’Europa e vi sentirete rispondere come fa Eugenio Di Rienzo, docente alla Sapienza di Roma, che la costante di Londra, già dal Seicento e dal Settecento è stata quella del non intervento, amano che non ci fossero in campo interessi davvero vitali. La prima eccezione all’isolazionismo si chiama Guerra dei Sette anni (1756-1763) quando la Francia allestì un’inedita alleanza con l’Austria e la Russia e l’Inghilterra scelse come partner la moderna Prussia di Federico II. Come scrisse Winston Churchill la Guerra dei Sette Anni fu il vero primo conflitto mondiale, perché le potenze avversarie si confrontarono non solo in Europa, ma dall’India alle Antille. Gli interessi in capo non erano dinastici ma soprattutto commerciali.
La seconda grande eccezione si ebbe con Napoleone I avvertito come una minaccia non solo per la madre patria ma soprattutto per i territori coloniali. A cosa mirava Bonaparte con la spedizione in Egitto se non arrivare in India? Quando il pericolo napoleonico cessò e Metternich disegnò con il congresso di Vienna del 1815 il nuovo sonnacchioso ordine europeo la Gran Bretagna tornò nel suo «splendido isolamento» che gli consentiva di occuparsi del resto del mondo, compresi i problemi coloniali, come il great mutining indiano del 1857. Con un certo distacco si era sempre attenti a sorvegliare che nel Vecchio Continente non sorgessero problemi troppo spinosi.
A volte le terre d’oltremare assorbivano tutte le energie, sicché Napoleone III potè approfittare della distrazione britannica per giostrare a piacimento nelle cose del Risorgimento italiano. Fino a un certo punto però. Perché quando propose agli inglesi un blocco navale comune per impedire a Garibaldi lo sbarco in Sicilia, si sentì rispondere picche. Sicché il primo ministro Palmerston poté vantarsi con Cavour che senza l’intervento inglese la nuova Italia mai avrebbe avuto il Regno delle Due Sicilie. Queste storie si possono leggere nel volume che Di Rienzo ha dedicato al «Regno delle Due Sicilie e le Potenze Europee» e nella sua bella biografia su Napoleone III.
Contare nel gioco europeo dando a vedere di esserne distaccati è il senso anche della frase pronunciata da un altro grande politico inglese, William Gladstone, quattro volte primo ministro tra il 1868 e il 1894: «Noi non vogliamo alleanze stringenti». Una frase impegnativa che si riferiva alla triplice alleanza stipulata nel 1882 tra Germania, Austria-Ungheria e Italia. La dichiarazione di un disimpegno che fu il preludio tuttavia non a una neutralità assoluta nelle due guerre mondiali che avrebbero sconvolto il nuovo secolo, ma a una partecipazione attiva e determinante della Gran Bretagna.
Ufficialmente, gli inglesi intervennero nella Grande Guerra per difendere il Belgio, nazione che era nata sotto gli auspici inglesi. Nella Seconda guerra mondiale gli inglesi difesero la Polonia e la democrazia, ma soprattutto, nota un comparatista come Paolo Pombeni, storico dei sistemi politici europei all’Università di Bologna e autore per il Mulino del recente «La ragione e la passione - Le forme della politica nell’Europa contemporanea», vollero impedire a Hitler di realizzare il disegno egemonico europeo, così come avevano fatto con Napoleone.
Non è un caso che una ragazza che aveva visto adolescente piovere le bombe naziste sul suo Paese, Margaret Thatcher, fu la più acerrima avversaria dell’unificazione tedesca. In nome della vecchia diffidenza ma soprattutto per non voler vedere sorgere in Europa una vera potenza con cui dover fare i conti. La Lady di ferro dovette cedere, ricorda Di Rienzo, soltanto dietro le insistenze dei suoi ministri.
L’idea di non essere un pezzo dell’Europa — che ha suscitato l’irritata reazione di più di un leader, a partire da Charles De Gaulle — e di essere legati non solo commercialmente ad altre e più lontane parti del mondo è rimasta radicata anche dopo il 1947, quando l’India è diventata una nazione indipendente, e quando la Gran Bretagna, alle prese con un ridimensionamento drastico dovette rispecchiarsi nel saggio di Shanke, «La società stagnante», che ritraeva la Gran Bretagna in affanno non solo rispetto ai ritmi tedeschi ma persino rispetto a quelli italiani. Un vero shock. Erano gli anni del governo diretto da sir Harold Macmillan, convinto assertore che il Regno Unito con le colonie non avesse perso il primato, ma che potesse ancora svolgere un ruolo di leadership culturale nonostante la nazione leader del campo occidentale fosse da tempio gli Stati Uniti. Macmillan, il cui governo cadde nel 1963 per lo scandalo Profumo, amava paragonare l’Inghilterra all’antica Grecia e la sua citazione preferita era una frase del poeta lucano Orazio: «Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio» (la Grecia conquistata conquistò il feroce vincitore e introdusse le arti nel Lazio agreste).
Secondo Pombeni, il cosiddetto isolazionismo inglese («in realtà loro credono che l’Europa sia isolata dalla Gran Bretagna») va di pari passo con la convinzione di una egemonia culturale ancora oggi perseguita attraverso la promozione della lingua e di un sistema educativo che è un punto di riferimento per la formazione di una consistente parte dell’élite internazionale. «Anche la battaglia per la difesa della sterlina — osserva Pombeni —, benché in parte svantaggiosa, fa parte di questa sindrome da grande potenza che non è mai venuta meno. Anche se del glorioso passato resta un simulacro pressoché vuoto come il Commonwealth»