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 2013  maggio 12 Domenica calendario

PARIGI 1863, BENVENUTI NELLA MODERNITA’

Nuda. Bianchissima. Sfrontata mentre guarda negli occhi lo spettatore. Che cosa vuol dirci con quel sorriso ambiguo? E perché i due gentiluomini distinti che siedono con lei sul prato sembrano indifferenti alla sua nudità? Vi sono forse colpevolmente avvezzi? E poi quel volto ricorda una famosa signora parigina: è forse lei quella che si vede ogni sabato in quel locale alla moda, insieme ad altre donne, che sorseggia il tè?
Ecco: se nel 1863 la giuria del Salon di Parigi (l’esposizione ufficiale di pittura che faceva capo all’Académie des Beaux- Arts) decise di non ammettere Le déjeuner sur l’herbe di Édouard Manet, non fu per la dama senza veli (il nudo era una costante sulla tela sin dal Seicento) e neppure tanto per i colori crudi, nonostante fossero lontani dalle sfumature oniriche con cui, in genere, si rappresentavano scene erotiche. Forse la verità è più semplice e profonda: quel quadro poneva troppe domande. Sollevava dubbi. Interrogativi scabrosi sul suo senso «nascosto», che potevano turbare l’elegante borghesia cittadina in visita alla mostra. Per motivi quasi analoghi venne rifiutato Symphony in White, No. 1 di James Whistler: perché quella ragazza dai capelli rossi somiglia così tanto a una chiacchieratissima modella? È forse lei? E come mai calpesta la pelle di un orso?
Così, centocinquant’anni fa, il primo Salon des Refusés, l’esposizione voluta da Napoleone III per accogliere le opere rifiutate dall’accademia, nacque nel segno di una paura: e se ci fosse un’altra realtà, magari più scomoda, oltre a quella che vediamo con gli occhi?
Era il 15 maggio 1863 e «stava nascendo la modernità, ma non tutti se ne accorgevano, nonostante i moniti, i segnali, gli avvertimenti», commenta Adriano Altamira, artista e storico che al periodo a cavallo tra Otto e Novecento ha dedicato il saggio Miti romantici: simboli e inconscio dell’era industriale. Con la mostra degli esclusi (che comprendeva anche pittori come Degas, Pissarro e Monet) nasceva un mondo nuovo, in cui la realtà si presentava non solo nella sua forma comunemente accettata, ma anche nelle «corrispondenze» emotive messe in poesia da Baudelaire. Un mondo in cui i canoni classici dell’accademia venivano sparigliati in virtù di una visione che andava oltre le apparenze. Per esempio, quando Manet dipinse Le balcon (1868), rappresentò la borghesia in un modo inusuale: ricche dame appoggiate a una ringhiera, inequivocabile simbolo, questa, di ambiente popolare. La critica ufficiale lo derise (scrissero che faceva «concorrenza agli imbianchini» per lo sforzo accuratissimo nel riprodurre la vernice), testando l’arma più potente contro la nuova sensibilità europea. «Al Salon des Refusés — conferma Altamira — ci si andava soprattutto per deridere gli artisti, per prenderli in giro come fossero dei burloni destinati a durare poco».
Ma ci si sbagliava. Perché un pertugio di quello squarcio sul mondo «altro», in realtà, era stato aperto da parecchio tempo. Con il realismo di Courbet, che vent’anni prima decise di autorappresentarsi nei panni di un giovane scarmigliato (Le désespéré), in primo piano, sguardo spiritato come se stesse supplicando «Aprite gli occhi!». Con il naturalismo di Jean-François Millet, che scelse di mettere sulla tela la fatica sudata dei contadini al lavoro. Con le paure irrazionali di Gordon Pym, nel quale Edgar Allan Poe, nel 1838, aveva trasposto lo spirito (modernissimo) dell’uomo d’oggi, solo davanti ai suoi fantasmi, indipendenti dalla situazione reale. Una lenta, inesorabile corrosione dello spirito borghese modello «ragione e sentimento», che culminerà con lo scandalo di Manet, il quale dimostra, come annota Massimo Donà in Arte e filosofia, «che l’idea non vive se non nel mondo che l’esperienza ci offre, secondo una mutevolezza e una fuggevolezza che non possiamo decifrare ,ma che l’artista può catturare».

Non a caso, a cogliere questo cambiamento non fu l’Accademia, ma l’imperatore Napoleone III, ossia il potere. Per smagnetizzare la carica rivoluzionaria della nuova pittura, scelse di incorniciarla, di metterla in mostra (di normalizzarla?). Il potere capiva che l’ordine precostituito stava, ancora una volta, per essere messo in discussione.
Nello stesso anno, dall’altra parte del mondo, Abraham Lincoln firmava il provvedimento di emancipazione dei neri, avvio del processo che porterà all’abolizione della schiavitù. Pochi anni prima, Baudelaire aveva dichiarato di non voler votare spiegando: «Non esistono più idee generali». Ovvero, non c’è più la possibilità di una visione unica del mondo, ma la modernità (come scriverà nel saggio dedicato a Costantin Guys, sempre nel 1863) è cogliere un barlume di eternità in ciò che muta e accettare l’instabile, il precario, l’altro da sé come parte integrante di un disegno complessivo. «Io è un altro!» griderà Rimbaud anni dopo, nella sua Stagione all’inferno. E i grandi antieroi del Novecento, dall’agrimensore K. a Zeno Cosini, si porteranno dentro questo urlo.
Ci vorrà tempo per metabolizzare la novità del Salon des Refusés. L’eccentricità, poco alla volta, diventerà corrente. L’Impressionismo, per come lo conosciamo, arriverà dopo, «dal 1874, con la mostra degli artisti indipendenti nello studio di Félix Nadar», conclude Altamira. Ma alcuni di essi, come lo stesso Manet, prenderanno le distanze dalle etichette. Forse perché ogni messaggio era troppo personale, intimo, per poterne fondere i contorni con altri. Forse perché ogni rivoluzione non vede mai il proprio tramonto. O forse perché si faceva fatica a dare un nome alle cose, specie dopo che Rimbaud (ancora lui) aveva esclamato: «Io non so più parlare!». Una dislessia che ancora oggi è parte del nostro alfabeto.
Roberta Scorranese