Edoardo Boncinelli, la Lettura (Corriere della Sera) 12/05/2013, 12 maggio 2013
IL CERVELLETTO DI LOMBROSO
Sul «Wall Street Journal» è comparso qualche giorno fa un articolo a firma del neuropatologo Adrian Raine che fa il punto sullo stato attuale della cosiddetta «neurocriminologia», la moderna scienza che cerca di appurare se c’è qualcosa di evidente che non va nel cervello delle persone più propense alla delinquenza e spesso recidive. Questa è una vecchia questione, che ha le sue radici in un duplice ordine di obiettivi. Da una parte, un desiderio di prevenire — se possibile — che si commettano troppi delitti; dall’altra, la necessità di trovare attenuanti a chi ha commesso un delitto senza essere totalmente padrone di sé, cioè, come si dice spesso, non totalmente capace di intendere e di volere. Le finalità sono nobili, ma la storia della disciplina non ha affatto un andamento lineare.
È una vecchia questione, abbiamo detto. Il problema affonda le origini nella classica e veneranda fisiognomica, un tentativo abbastanza grossolano di classificare l’indole delle persone sulla base dei loro tratti somatici, soprattutto della testa e della faccia, ma non esclusivamente. Nell’Ottocento la questione fu ripresa su basi più «scientifiche», ma produsse solo osservazioni problematiche, quando non completamente false. La frenologia suddivise il cervello in una serie di aree immaginarie, ciascuna delle quali sovrintendeva a un’ipotetica funzione cerebrale. Fra queste c’era anche l’amore per la patria e l’amore per il coniuge; niente di serio purtroppo, e tutto finì solo per screditare ogni studio tendente a localizzare funzioni cerebrali. In questo clima acquisirono grande notorietà gli studi del nostro Cesare Lombroso, che con grande serietà e impegno indicò le caratteristiche fisiche che avrebbe dovuto avere il cervello di un delinquente. Molte di queste si sarebbero dovute riflettere sui tratti somatici dello stesso. Si trattava però di una serie di osservazioni corrette, ma prive di alcuna correlazione con la propensione a delinquere, o decisamente scorrette. La materia finì a poco a poco nel ridicolo, nonostante la notorietà e la fama universale del proponente.
Tutto questo non ha certo giovato alla nascita di una vera e propria scienza della criminologia, ma i tempi sono cambiati e il problema resta, anche se nessuno sa se appartenga al novero dei problemi che possono essere risolti.
Quali sono le ultime novità? Innanzitutto sembra abbastanza acclarato che molti, ma non tutti, coloro che hanno una propensione a delinquere abbiano un’amigdala di dimensioni ridotte. Questo potrebbe avere un senso. L’amigdala conserva, si dice, la nostra memoria emotiva; ci suggerisce cioè di volta in volta ciò che è pericoloso e ciò che non lo è, ma anche che cosa ci darà gioia una volta compiuto. Un problema all’amigdala quindi altera il nostro senso del pericolo e più in generale l’anticipazione del colore emotivo di un’azione. Soggetti con piccoli problemi all’amigdala possono non essere in grado neppure di riconoscere una faccia minacciosa da una che non lo è.
In un caso particolare si è osservato addirittura un ridotto sviluppo delle aree della corteccia cerebrale frontale ventrale, la quale sembra dire la sua su tutti i nostri «calcoli» di rischio comportamentale. Tutto ciò, ammesso sacrosanto, è un po’ poco per permetterci di tirare conclusioni di carattere generale, ma è chiaro che un difetto anatomico è una condizione limite: se c’è, indicherà molto probabilmente qualcosa; ma se non c’è potrebbe di per sé non significare niente. Esistono però un certo numero di osservazioni di natura statistica. La statistica è un po’ «la croce e la delizia» della scienza: moltissime volte è insostituibile, ma non sempre suggerisce cose che dimostrano poi di avere un significato. Rappresenta, insomma, un’indicazione e un suggerimento da approfondire.
Che cosa dice la statistica in questo caso? Innanzitutto che il gemello di una persona che ha una propensione al crimine ha anch’esso una propensione al crimine nel 50% dei casi, mentre per i fratelli questa correlazione è solo del 13%. C’è quindi una certa predisposizione genetica, ma non particolarmente alta; ci sono altre caratteristiche umane che hanno una correlazione ben più alta di questa nei gemelli. In mancanza di meglio però l’indicazione è incoraggiante. Nel delinquente abituale c’è una certa predisposizione genetica quindi, ma non solo. Come in tutti gli studi del genere, oltre alla costituzione genetica entrano in ballo altri fattori, detti genericamente ambientali, appartenenti cioè alla biografia di tali soggetti.
Aver subito un grave stato di denutrizione infantile, essere stato esposto ad avvelenamento da piombo, anche leggero, essere stato oggetto di maltrattamenti e abusi, sempre in età infantile, e aver frequentato ambienti culturalmente e intellettualmente degradati. Sono tutte situazioni che favoriscono la propensione al delitto, senza però che se ne possa concludere che chiunque le abbia sperimentate sarà incline al delitto. La situazione non è disperante, ma certo problematica, come succede sempre quando si procede «a tentoni». Non si tratta più di osservazioni inesatte o poco ponderate come nell’Ottocento e agli inizi del Novecento, ma la materia è ancora sufficientemente fluida. Secondo me occorre lavorare ancora molto, astenersi da tirare conclusioni troppo semplicistiche e, soprattutto, astenersi dal dedurre da tutto questo chiare indicazioni per la pratica forense.
Tutti siamo convinti che ognuno deve ricevere la pena corrispondente al proprio grado di colpa e che in certi casi questa pena può essere ridotta in ragione di certe condizioni obiettive. Ciò è giusto e umano. Quello che non è giusto è prendere per oro colato certe conclusioni ipotetiche e attribuire consistenza scientifica ad affermazioni che ancora questa consistenza non hanno. Ciò riguarda ovviamente i tribunali e la disciplina del diritto. La scienza può e deve contribuire anche a questa fondamentale funzione della società, ma solo in presenza di evidenze certe. Pena l’arbitrio e quindi l’ingiustizia, o almeno la non equità.
Edoardo Boncinelli