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 2013  maggio 12 Domenica calendario

LA POLITICA CHE SCHIACCIA LE POLITICHE

Enrico Letta si è messo nei guai. Per tante ragioni, tutte ben visibili. Una, che egli stesso ha voluto sottolineare, dà però l’idea delle difficoltà che dice di volere superare. «Ho imparato da Nino Andreatta — ha spiegato durante il discorso di presentazione del governo alla Camera — la fondamentale distinzione tra politica, intesa come dialettica tra diverse fazioni, e politiche, intese come soluzioni concrete ai problemi comuni». È una distinzione che nella lingua inglese è automatica, che sta nella differenza tra Politics e policy. In italiano, i concetti sono più confusi e dunque la lingua si è adattata alla realtà, non separa l’una cosa dall’altra. Ma è necessario farlo, ha detto il presidente del Consiglio: «Se in questo momento ci concentriamo sulla politica, le nostre differenze ci immobilizzeranno, se invece ci concentriamo sulle politiche, allora potremo svolgere un servizio per il Paese».
Buona fortuna. Farlo sarà difficile. C’è un abisso di consuetudine e di cultura da colmare. Le più recenti occasioni per rivisitare la storia politica degli ultimi decenni sono state le morti di Margaret Thatcher e di Giulio Andreotti, a un mese di distanza l’una dall’altra: sono due finestre spalancate su policy e Politics. I tanti ricordi della Lady di Ferro e soprattutto i commenti sulla sua eredità si sono in gran parte focalizzati sulle privatizzazioni, sulle liberalizzazioni, sull’opposizione lineare al comunismo, sulla ridefinizione del rapporto tra Stato e mercato. Sulle politiche pubbliche, insomma. Non che Mrs. Thatcher non facesse politica nel senso che non si occupasse del potere, soprattutto di vincere le elezioni: lo faceva e come tutti i leader sapeva usare una dose di opportunismo quando la situazione lo richiedeva. Ma anche l’evento giudicato dai critici il suo capolavoro di cinismo — la guerra delle Falkland, grazie al successo nella quale si assicurò la seconda vittoria alle urne — fu un misto di princìpi irrinunciabili e di abilità politica.
Le commemorazioni di Andreotti sono state soprattutto la ricostruzione della sua abilità nel raggiungere e gestire il potere. Non che il politico italiano non avesse princìpi. È che non aveva politiche: più precisamente, le sue politiche di presidente del Consiglio e di ministro degli Esteri, della Difesa, delle Partecipazioni statali e via dicendo erano subordinate (e dunque «flessibili») al gioco della politica intesa come rapporti di forza. Al potere. Le policies venivano dopo. Semplificando, nel caso della Iron Lady le politiche servono a conquistare il potere, che poi va usato per realizzarle. Nel caso di Andreotti prima si conquista il potere e poi si piegano le politiche per conquistare altro potere. Due schemi opposti: politiche-potere-politiche il primo, potere-politiche-potere il secondo. La differenza non è solo ampia, va anche in profondità: per stare sull’esempio Falkland, qualcuno pensa che, nei panni di Lady T, il leader italiano avrebbe preso il rischio di un intervento?
In questione, naturalmente, non sono Margaret Thatcher e Giulio Andreotti. Il problema è che una è stata la maggiore leader politica britannica del dopoguerra, il secondo è stato il maggiore leader politico italiano del dopoguerra. Prodotti e continuatori di due modi diversi — l’anglosassone e il latino — di trattare la sfera pubblica, lo Stato. Se Letta vorrà davvero mettere la policy al primo posto e subordinare a essa la Politics, dovrà costringere a un salto culturale non solo i partiti italiani, ma anche gran parte della società, cresciuta con l’idea che la politica sia solo questione di potere — da inseguire oppure da odiare, poco cambia.
Naturalmente, la Politica non è necessariamente brutta. La politikè epistéme, la scienza politica di Aristotele, consiste nel dare ai cittadini leggi, costumi, istituzioni duraturi nel tempo e che abbiano la possibilità di essere migliorati a seconda delle esigenze. Questa concezione della Politica contiene in sé la necessità di essere riempita di quelle che oggi chiameremmo politiche pubbliche, cioè azioni di lungo periodo finalizzate al benessere dei cittadini e a lasciarli liberi di cercare la felicità: policies. È la teoria della Politica introdotta da Machiavelli a dare però il segno di come si pone il problema nei tempi moderni, quelli dei prìncipi e poi degli Stati nazionali. Comunque si voglia leggere l’opera del segretario fiorentino, in Italia matura via via, anche attraverso il Risorgimento, l’idea di Politica come guerra di posizione, di conquista gramsciana delle casematte del potere, di marcia su Roma, di permanenza strategica nei gangli dello Stato durante la Prima Repubblica. Le politiche vengono dopo, subordinate alla conquista e al mantenimento del potere. Il «primato della politica», in fondo, in Italia non è una faccenda della sola sinistra comunista e spesso è stato interpretato come autonomia del politico, come preminenza sul privato, ma anche sulle politiche pubbliche.
Il pragmatismo americano, che rappresenta il modello opposto, mette al centro dell’azione la policy. Ciò nobilita la stessa Politics, che i cittadini vedono dunque meno autonoma, meno slegata dal mondo, non fine a se stessa e interessata solo al potere. Un’elezione presidenziale a Washington, una contesa per il governatorato della California, una sfida per fare il sindaco a Chicago sono certamente eventi che mettono in gioco il potere degli e negli Stati Uniti. Ma sono condotte discutendo di policy, di cose da fare, riforme da introdurre. Cioè dei famosi «contenuti»: dei quali in Italia si lamenta la mancanza, ma che rimangono nel cassetto durante le campagne elettorali come nella gestione dello Stato. È che da noi il confronto non è sulle politiche, ma è tutto nella sfera politica, che così svuotata diventa brutta, non amata, affare di pochi (si fa per dire) eletti.
Con l’effetto collaterale, ma grave, dell’annullamento, nella via italiana alla politica, di tutto ciò che è bipartisan e, ancora peggio, con il frequente svilimento dell’attività legislativa. Fare politiche pubbliche, infatti, significa sì fare leggi, ma anche seguirne l’applicazione, farne conseguire atti di governo e di gestione, misurarne gli esiti sul lungo termine. Ma se ogni iniziativa che dovrebbe essere di policy è finalizzata a guadagni di potere immediati, ne dipende che quel che conta non è tanto il suo successo, ma il successo politico della parte che l’ha voluta. Non solo: quando cambiano gli equilibri politici o il quadro istituzionale, vengono annullate le decisioni prese dal partito avverso. Condivisioni di politiche non-partisan che fanno il bene comune sono, a differenza che in molti altri Paesi, piuttosto rare in Italia. Molte leggi finiscono con l’essere un fiasco perché non sono policies: non sono linee da portare avanti nel tempo, ma sono alla mercé della volubilità politica e delle burocrazie, che facilmente possono far fallire un provvedimento legislativo, ma faticherebbero a rispondere della mancata attuazione di politiche chiare e misurabili.
In sostanza, in Europa e in Giappone prevale il confronto/scontro tra partiti. Nei Paesi anglosassoni, soprattutto in America, il confronto di policies, spesso ispirate e discusse fuori dalle organizzazioni politiche ufficiali. Nel primo caso, le lobby sono per lo più interne ai partiti, nel secondo sono esterne. Due mondi. Non basterà che Enrico Letta cambi i termini del linguaggio. Potrà però aiutare.
Danilo Taino