Antonio D’Orrico, Corriere della Sera 12/05/2013, 12 maggio 2013
LA STORIA A COLORI DI UNA VITA BIANCONERA TRA SOGNI, REALTA’ E PREMONIZIONI
Antonio Conte, il mister bicampione d’Italia, ha dieci anni quando la maestra assegna il tema «Raccontate la vostra vacanza ideale». Antonio è figlio di una famiglia non ricca. Il padre, Cosimo, noleggia auto (l’ammiraglia della flotta è una Fiat 131) e, nel tempo libero, è presidente, allenatore, osservatore, magazziniere, massaggiatore, ufficio stampa e vivandiere di una piccola squadra che si chiama (guarda un po’ il destino dove annida i suoi segni, e i suoi sogni) Juventina. Insomma, Cosimo Conte era una specie di sir Alex Ferguson di Lecce, un manager all’inglese, di quelli che danno una spazzata per terra agli spogliatoi prima di comunicare formazione e schema ai giocatori. La mamma Ada è sarta, di abiti da sposa. Quelle stesse zite che poi saranno portate all’altare a bordo della 131 di Cosimo. Servizio nuziale completo: dal vestito alla limousine.
I Conte non ci sono mai stati in crociera. Antonio perciò scrive nel tema che la sua vacanza ideale sarebbe starsene spaparanzato nelle poltrone «comodose» di una nave da crociera. La maestra non perdona il «comodose» e dà un votaccio ad Antonio. Siate comprensivi, le maestre non sono tenute a leggere nel destino, non possono sapere che «comodose» è un segno del fato. Comodosa, neologismo inventato da Giorgio Forattini, era nella pubblicità la Fiat Uno. E la Fiat oltre che Fabbrica Italiana Automobili Torino era (ed è ancora) la fabbrica italiana della squadra di calcio Juventus, dove lo scolaro incompreso Antonio Conte avrebbe militato come calciatore, capitano e allenatore (un mister molto simile, per la dedizione assoluta che ci mette, all’esempio fergusoniano fornitogli dal padre Cosimo).
Antonio Conte, lo si capisce dall’autobiografia che ha scritto con Antonio Di Rosa («Testa, cuore e gambe», Rizzoli), non è un tipo da crociera ma da nave corsara (sarà anche per questioni genetiche, dato che le coste del suo Salento furono alla mercé per secoli dei contropiedi saraceni). E non gli conviene rilassarsi mai a Conte, non è nel suo karma, perché l’unica volta che l’ha fatto nella sua esistenza (quando, dopo la conquista del primo titolo da mister, si rifugiò in una spa da mille e una notte per un weekend da fidanzati, a telefoni spenti, con la moglie Elisabetta) non ebbe quasi il tempo di tuffarsi nel calidarium con la sposa (per una cerimonia privata dove non era contemplato un vestito griffato Mamma Ada) che fu accusato di «associazione a delinquere finalizzata all’alterazione di partite».
Quando si legge la vita di qualcuno ci si accorge (il famoso senno, e senso, di poi) che il suo futuro era già scritto nelle pieghe del suo passato. Tipo che la prima squadra di Conte si chiamasse Juventina, oppure che per comporre un tema di italiano si ispirasse ai copywriter della réclame Fiat e non ad Alessandro Manzoni, o, ancora, che quando per un breve periodo allenò l’Atalanta facesse quasi a cazzotti con Cristiano Doni, campione irrisolto e infelice, in seguito eroe nero del calcio truccato. Coincidenze. Presagi.
Il grande scrittore Achille Campanile inventò i drammi in due battute. Ce n’è uno, addirittura in una battuta, nell’autobiografia di Conte. Avvenne quando, ventiduenne, appena preso dalla Juve, fu ricevuto da Gianni Agnelli che gli domandò: «Scusi, Conte, ma lei quanti gol ha fatto quest’anno?». Apriti cielo! Il ragazzo si imparpagliò, bofonchiò qualcosa e temette uno scambio di persona, perché lui aveva uno score stagionale di zero gol, come avrebbe detto Mourinho (a cui un po’, per teatralità, temperamento e forza di nervi, Conte somiglia; è mourinhoso, insomma, certo più di Stramaccioni e lo dico con la morte nel cuore pensando alla mia Beneamata).
Visto che siamo finiti sulle note personali, chiudo da ex juventino (ma juventino vero, come canterebbe Toto Cutugno, bianconero per parte di padre, una cui foto, accanto a Boniperti, è custodita gelosamente nell’album di famiglia, e disco di John Charles, in veste di crooner, suonato ad allietare le domeniche mattina, preludio rituale alla partita pomeridiana), complimentandomi con il mister che ha fatto tornare la Juve a essere l’ammiraglia del calcio italiano. (P.S. Però, mister, Del Piero non era più forte del grande Baggio).
Antonio D’Orrico