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 2013  maggio 12 Domenica calendario

L’ULTIMO VIAGGIO CON FELLINI

Festivo Recanati. Si legge come capolinea degli autobus.
Passano e ripassano, a Villa Borghese. Ci sarà qualche Sabato del Villaggio? «Panzoncello scherzoso...» si scherzava con certi amici, a Via Veneto.
Possibile che Fellini sia morto già da vent’anni?
Una volta si andava a Via Veneto, effettivamente. E ci si sedeva ai tavolini di Rosati, con Pannunzio, Patti e De Feo, Franca Valeri e Nora Ricci, qualche volta Saragat, mentre Gian Gaspare Napolitano sorvegliava gli andazzi dal bar, presso una statua romana d’aspetto antico, il guardiamacchine «Pronti!» sistemava i parcheggi.
Fellini, con Flaiano, aveva fatto ricostruire quel marciapiede a Cinecittà, tale e quale. E spesso si veniva pregati da un suo direttore, Guidarino Guidi, a «interpretare noi stessi» nel film che sarebbe poi diventato La dolce vita. Non vi si andò mai, naturalmente, così come poi non vennero i Longhi e i Bianchi e i Bertolucci e Carrà a far da sfondo a una scena della Bella di Lodi, al Forte dei Marmi. E si persero così occasioni di fondali memorabili.
Si andò invece molto volentieri a un’anteprima di quel film. Con un grande entusiasmo per le voci degli interpreti e gli ordini del regista e le musiche di Kurt Weill: tutto poi perso nei montaggi e doppiaggi.
Anni e anni dopo, Fellini non lavorava più. I produttori non erano interessati ai suoi progetti, e lui passava le mattinate sotto casa, tra la libreria Feltrinelli al Babuino e i tavolini del Canova, in piazza del Popolo. Lì ci si tratteneva a volte per un caffè, rievocando «le alcove del Canova», quei saloni e divani interni con bei dipinti di paesaggi, dove «Francalancia e Trombadori, davano udienza ai pittori minori, che facevano grandi viavai, intorno alla mostra di Mario Mafai». (Che era passato a un suo astrattismo).
L’ultima volta fu in autostrada. Faceva molto caldo, quindi si era deciso di viaggiare la notte. Ci fermiamo a cenare presso il casello di Chiusi e Chianciano, in una residenza; e lì, con una loro nipote, ecco Fellini molto disordinato e la Masina invece molto in ordine. Lui appariva agitato e preoccupato, non voleva lasciarci andar via. Noi volevamo dormire a Milano, glielo si è spiegato, per poi arrivare a St. Moritz. Pareva ansioso per motivi suoi.
Poco tempo dopo, è mancato.
***
Il serraglio di pietra è il poetico titolo di un gran libro di Alvar Gonzàlez-Palacios sulla Sala degli Animali nei Musei Vaticani.
Naturalmente illustratissimo (pagine 314, 75). E lì, un gusto squisito per l’Antico si mescola al marmo giallo antico di Numidia e all’alabastro fiorito di leoni o pantere secondo i mirabili Marmora romana di Raniero Gnoli; o magari ai Centauri in marmo bigio morato ai Musei Capitolini, con o senza giocondi Eroti sulla groppa.
E naturalmente ammicchi barocchi monumentali al Nilo e al Tevere coi vari bambocci affluenti, alle Quattro Fontane e in Piazza Navona, con generosi zampilli e vasche. E magari sfingi di porfido accucciate nell’ombra delle scalee.
Ecco allora oche e giovenche e pavoni e tritoni e chimere in marmo bianco o rosso antico o bigio morato o pavonazzetto, su basi e mensole analoghe o contrastanti, però sempre marmoree. E con pittoresche didascalie anticheggianti: caprio, lepretto, vaccarella, toretto, falchetto, leoparda, leoncino, tigroni.
I personaggi umani — Ercole, Commodo, Bacco, Meleagro, satiri o nereidi — appaiono qui subordinati: in funzione dei cavalli o leoni o tori o cinghiali che li accompagnano, nelle frequenti lotte. In epoche di scavi frequenti e succulenti, alla fine del Settecento, grande importanza per gli antiquari e commentatori e mediatori: Giuseppe e Francesco Antonio Franzoni, Gianbattista ed Ennio Quirino Visconti, Vincenzo Pacetti, Bartolomeo Cavaceppi, Gavin Hamilton. Qui, nell’introduzione, Gonzàlez-Palacios svolge una vera grandiosa «carrellata» sui visitatori che nel corso del Grand Tour esaminavano questa Sala degli Animali, e soprattutto ne scrivevano. Fino a Emilio Cecchi: «Una dorata promiscuità, una principesca opulenza, una geologia di culture sovrapposte e stratificate»...
Torna in mente il grande direttore, Carlo Pietrangeli. Durante i restauri alla volta della Sistina, si saliva sulle impalcature per osservare i dettagli da vicino. E lo ricordo quando mostrava i dettagli invisibili dal basso: l’attaccatura dei capelli di Adamo, più giù o più su o finalmente mediana, seguendo le prove di Michelangelo, ben discernibili da vicino. E ripulite con batuffoli delicatissimi.
Compiuta la detersione, vi fu un solenne ricevimento offerto dagli sponsor giapponesi nella Sala Regia. Con un buffet indiano o indonesiano oltre il grandioso drappeggio del Bernini. Vedendo la quantità di inchinetti giapponesi reciproci, chiesi a un loro diplomatico in che misura li effettuavano. E mi fu risposto: «Loro lo sanno». Ma ricordo soprattutto l’orrore di quando ci si accorse di stare entrando nella Cappella Paolina con i bicchieri in mano. Qui, oltre a mirare gli affreschi molto impalliditi di Michelangelo su San Pietro e San Paolo, si commentò soprattutto la moquette grigia da cinema installata da un arredatore di Paolo VI sopra i pavimenti cosmateschi.
Raccontava un illustre governatore vaticano che girando per le sale aveva notato una coppia americana molto anziana e molto dabbene, che poi gli domandò come arrivare alla Sistina. Dando l’indicazione, lui fece notare che in quel momento si trovavano nelle Stanze di Raffaello. E la signora: «Non vogliamo Raffaello oggi, oggi vogliamo Maichelangelo».
Lo stesso gentiluomo spiegava che nel suo palazzo aveva fatto rimuovere un pavimento di marmo degli anni Trenta, avendo trovato delle mattonelle antiche, «perché bisogna camminare su piastrelle umili, guardando in su verso la Gloria dei Cieli». Ma a Palazzo Altemps non si dava pace per il soffitto con stemmi a croci, inconcepibili nella nobiltà romana, finché un direttore non chiarì che erano le insegne del vescovato di Costanza.
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Tanti grandi e squisiti poeti latini… E nessuno mai — neanche nella decadenza — pensò di comporre versi tipo «Roma non far la stupida stasera». Nonché, fra protomi e paraste, magari «quer grillo che fa cricri…».
Alberto Arbasino