Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  maggio 12 Domenica calendario

QUANDO ANDREOTTI DISSE: IO POSTUMO DI ME STESSO

Esce domani il libro: «Sono postumo di me stesso. Potere, Vaticano, Donne, Inferno e Paradiso negli aforismi di Giulio Andreotti», a cura di Massimo Franco, edito da Mondadori. Pubblichiamo una sintesi dell’introduzione.
S ottile, insidioso, perfino fastidioso, si percepisce un larvato rimpianto per l’Italia di Giulio Andreotti. Come se di fronte ad un presente incerto, il passato si presentasse con la faccia levigata e atemporale dell’ultranovantenne senatore a vita… La tentazione di rivalutarlo attraverso uno strano «lifting» della nostra memoria che ne cancella le rughe scavate dal potere e dagli scandali, è palpabile. Così, rileggere la sua filosofia di vita oggi è un po’ come ritrovare in un cassetto pillole di saggezza e di cinismo che il potere ha prescritto all’Italia in mezzo secolo di Prima Repubblica; e che ora si è tentati di riassaporare, sebbene abbiano un retrogusto amaro.
Centinaia di post-it, ai quali di colpo si è tentati di dare una sbirciata. Ma i post-it andreottiani non sono come «Baci Perugina», dentro i quali come si sa, si trovano striscioline di carta con parole d’amore. Lì non c’è dolcezza. Ci sono invece tutte le stimmate del potere: cultura, intelligenza, perfidia, veleni curiali, ironia, cinismo, a volte disperazione… Di una lunga fase del Novecento Andreotti, con i suoi aforismi, è stato l’uomo-simbolo, nel bene e nel male. E lo ha segnato non solo nella politica, ma riflettendo la mentalità di un’Italia media moderata, cattolica e papalina, legata all’Occidente e scettica nei confronti di qualunque cambiamento; e con uno spiccatissimo senso della relatività della morale.
Quest’uomo non ha mai teorizzato il potere: lo ha praticato… E ai discorsi solenni ha preferito sempre il motto fulmineo. I primi hanno lasciato una traccia molto più labile del suo «vademecum» nazionalpopolare. Eppure, a guardar bene questo minimalismo è stato una sorta di autobiografia della nazione; o almeno di una nazione postbellica. Andreotti ha impregnato di sé l’amministrazione dello Stato e i governi almeno quanto la società. Ha accompagnato i successi dell’Italia nella ricostruzione postfascista, quando rispondeva a chi gli chiedeva che avrebbe fatto se avesse avuto tutto il potere: «Sicuramente qualche sciocchezza». E ne ha fotografato anni dopo l’involuzione gerontocratica filosofeggiando sul «potere che logora chi non ce l’ha»: un’affermazione fallace, in democrazia, come ha potuto constatare a sue spese quando si è ritrovato sotto processo per mafia e omicidio.
Il suo universo mentale fissa un Paese che non esiste più. Ma appare eterno nella presenza a Roma del Vaticano e dei Papi. Andreotti coglie con un paradosso la complessità di un’Italia difficile da spiegare all’estero: «Perché da noi i treni più lenti si chiamano accelerati e il Corriere della Sera esce al mattino». Per lui ogni valore, ogni rapporto è mediato dalla professione di uomo di potere. «Governare», ha detto con amara lucidità, «è distribuire equanimemente lo scontento». E potere significa non avere un capoufficio. Andreotti è stato l’incarnazione di un’Italia terrorizzata da nuove avventure. E aggrappata a lungo a quelle istituzioni che le hanno garantito il benessere e la normalità nella cornice della guerra fredda. Ma gli aspetti più sorprendenti della sua personalità emergono dalla visione della vita e della morte.
Lui, cattolico papalino, è goloso della vita e dei suoi piccoli piaceri. Con un’ammissione che, visto il contesto in cui venne fatta, può apparire ai limiti della follia, una volta ha confessato: «Quando Aldo Moro era nelle mani delle Brigate rosse feci un fioretto: se lo avessero liberato non avrei più mangiato gelati». A guardar bene, la grandezza e la miseria andreottiane sono il frutto di una lunga lotta per la sopravvivenza. «La morte è il frutto del peccato, e perciò i buoni la detestano…». Fissato questo confine, per lui tutto è relativo: la virtù, i vizi, la verità. «Chi non vuole fare sapere una cosa in fondo non deve confidarla neanche a se stesso», teorizza. Alla domanda se si possa fare politica senza bugie, replica, con un pessimismo cosmico: «Forse non si può neppure vivere senza dirle».
La sua vita è finita, politicamente, con la scomparsa della Dc. Quando ho scritto la sua biografia, mi ha confessato: «Capisco che ci si possa occupare di me: in fondo, io sono postumo di me stesso». Era una civetteria, e insieme un presagio del tramonto dell’epoca nella quale era vissuto da dominatore. Del passato parla con malcelata nostalgia. Pio XII gli appare un santo. E ricorda che «quando gli riferivano di un sacerdote in crisi, Pio XI domandava come si chiamasse la signora». Rileggere questo grande divulgatore del potere, significa ricalcare il paradosso di un’Italia che si sta risvegliando dall’illusione di prolungare la «dolce vita» raccontata da Federico Fellini. Ed è un risveglio doloroso. Alcune delle sue «pillole» fanno ancora sorridere. Altre fanno rabbrividire, pensando al ruolo che il senatore a vita ha avuto. Altre, infine, hanno il sapore del fiele, perché appaiono una premonizione dei difetti quasi congeniti che l’Italia sta pagando.
Massimo Franco