Diego Gabutti, ItaliaOggi 11/5/2013, 11 maggio 2013
A 30 ANNI PROUST NON CONOSCEVA DOSTOEVSKIJ NÉ DICKENS
Pare impossibile, ma nel 1897, quando ormai s’avviava verso la trentina, Proust non sapeva chi mai fosse l’autore dei Fratelli Karamazov e ne chiedeva lumi a Lucien Daudet, figlio dell’autore dei Tartarini, uno scrittore del quale sapeva, al contrario, presumibilmente tutto. C’è da sobbalzare leggendo questa notizia nell’epistolario proustiano uscito anni fa nei Meridiani Mondadori (Le lettere e i giorni, grande libro, da rileggere nei giorni neri).
Proust, benchè sia tra i padri della narrativa modernista, non è esattamente un romanziere. È piuttosto l’onnipotente creatore d’un mondo — immaginario ma ispirato alla realtà: l’età che precede la Grande guerra, la palude storica in cui l’umanità sprofonda, come in un abisso, senza riuscire più a uscirne. Di Proust non passa giorno che non si pubblichi o ripubblichi qualcosa. Da Mimesis, per esempio, è appena uscita l’ennesima riedizione, consigliatissima, di Contro Saint-Beuve (pp. 146, 16,00 euro). Gran letterato com’è, non consiglio la sua opera letteraria ma, torno a dire, il suo epistolario. Dopo aver letto, sobbalzando, di Proust e Dostoevskij, c’è ancor più da sobbalzare, qualche riga più sotto, in data «23 o 24 agosto 1897», leggendo che Proust chiede qual è, secondo Daudet, «il più bel libro di Dickens» e poi aggiunge, tra due straordinarie parentesi, di non conoscere «nulla di lui». Non basta ancora: Proust vuole che Daudet, con l’occasione, gli consigli anche «dei bei Balzac». Bei. Balzac.
Passi per Dickens, passi per Dostoevskij, anzi non passi nemmeno per loro, ma che nel 1897 Marcel Proust (lo scrittore più balzachiano d’ogni tempo, ancora più balzachiano dello stesso Balzac, la cui opera sarebbe stata riscoperta e portata, per così dire, a definitiva espressione proprio nell’iperspazio e attraverso i buchi neri attraversati dall’astronave superluce della Recherche) abbia bisogno d’essere scortato e tenuto per mano nei labirinti della Commedia umana, che cioé a ventisei anni suonati non sappia ancora quali sono i «bei Balzac», è cosa da restarci secchi e basiti, anzi impietriti come madeleines fossili.
Ci sono infiniti o almeno svariati e talvolta persino estremi modi di leggere Proust. Cè chi lo ha letto e studiato nel Gulag, per segnalare qui un episodio quasi impensabile, sotto il tallone di ferro dei pitbull stalinisti, provandone conforto e piacere, come racconta Joseph Czapsky nel suo La morte indifferente. Proust nel Gulag (L’ancora del mediterraneo 2005). Io, per dire, l’ho sempre letto come un grande umorista — praticamente un Berto Wooster circondato da Jeeves sadomaso. Ma uno di questi modi, e tra i più fondati, se non il più fondato in assoluto, è leggere Proust come il massimo continuatore e commentatore di Balzac su questa terra: del Balzac accumulatore primitivo di storie, del Balzac narratore di vertiginose avventure interne alla psicologia dei suoi personaggi, di voyages extraordinaires nelle culture del suo tempo, ma soprattutto del Balzac che evocò dalle profondità dello snobismo sociale quella particolare, rarefatta e inquietante idea di aristocrazia, che non si dava in natura ma che derivò per volontà e rappresentazione proprio dai suoi libri (esattamente il mondo di cui Proust non solo sarebbe stato in seguito il cantore, ma che già lo teneva sotto incantesimo).
Proust, che avrebbe fatto del suo Barone di Charlus una sorta di bibliografia balzachiana vivente, Proust che avrebbe citato Balzac una pagina sì e una pagina no, nel 1897 aveva letto poco o niente di lui e chiedeva consigli agli amici di penna. Chissà la sorpresa quando s’accorse che il mondo che l’aveva affatturato, il bel mondo dei principi e delle duchesse, non era il mondo reale ma era il mondo di Balzac, cioè una di quelle particolari aree della realtà — realtà seconde, realtà di contrabbando — che di tanto in tanto la letteratura riesce a suscitare dal nulla, modellando la realtà come pongo. Altri mondi erano stati suscitati da Charles Dickens e Fëdor Dostoevskij. Uno dei più singolari l’avrebbe suscitato (col tempo e gli attacchi d’asma) lo stesso Proust.