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 2013  maggio 11 Sabato calendario

COLOMBO, L’ULTIMO COSTITUENTE “STATE ATTENTI ALL’UOMO FORTE”

ROMA — Era e rimane un convinto proporzionalista, ma oggi ritiene che la governabilità esiga il premio di maggioranza. Difende la Repubblica parlamentare, però pensa che sia arrivato il momento di discutere senza remore di un modello presidenzialista, una discussione che sarebbe più semplice — dice — se su questa prospettiva non incombesse l’ombra di Berlusconi, al quale contesta “il culto della personalità” e un uso spregiudicato del “potere personale”. Dopo la morte di Giulio Andreotti, Emilio Colombo è rimasto l’ultimo dei padri costituenti a sedere in Parlamento. E oggi, a 93 anni, nel suo studio al primo piano di Palazzo Giustiniani riflette con una invidiabile lucidità sui dilemmi della democrazia italiana, 65 anni dopo l’entrata in vigore di quella Costituzione che lui discusse e votò quando era un deputato appena ventiseienne. «Quella — ricorda — fu una fase molto difficile. Al governo coabitavano i partiti che avevano fatto parte dei Comitati di liberazione nazionale, compresi i comunisti, ma nel frattempo la situazione nell’Est europeo stava cambiando rapidamente. Togliatti però sapeva quello che c’era scritto nel trattato di pace. Sapeva cioè che il mondo era stato diviso in due, e che oltre certi limiti non si poteva andare».
Allora c’era De Gasperi, oggi c’è Enrico Letta. Qualcuno ha detto: un altro democristiano.
«Non è un male. Quando vedo oggi questa damnatio memoriae verso la Democrazia Cristiana trovo che è una delle cose più ingiuste che possano essere fatte. Perché ognuno porta con sé i propri errori, nessuno arriva illibato alla meta, però bisognerebbe dare atto con onestà di quello che la Dc ha fatto per questo Paese. Un grande partito, con molte anime, unite dal legame per la libertà».
Anche Berlusconi ha fatto della libertà la bandiera del suo partito…
«Bisogna stabilire qualche differenza. Non c’è libertà quando si vuole imporre il culto della personalità. Che è poi il potere personale».
Oggi c’è sul tavolo la proposta di introdurre il semipresidenzialismo, per esempio sul modello francese. Lei è favorevole o contrario?
«Io ho sempre parlato contro il presidenzialismo. Ma su ogni cosa bisogna riflettere. Con una premessa: se il presidenzialismo deve essere il veicolo su cui passa il potere personale, allora resto contrario».
Eppure qualcosa va cambiata.
L’Italia rischia sempre di più di avvitarsi nella crisi di governabilità che segnò la fine della repubblica di Weimar. Berlusconi sostiene che l’unico potere di chi sta a Palazzo Chigi è quello di compilare l’ordine del giorno delle riunioni del Consiglio dei ministri. E infatti si chiama presidente del Consiglio, non capo del governo.
«Non è che uno conta di più perché si chiama capo. Conta se lo è, un capo. Ma non deve esserlo troppo. Vede, quando disegnammo l’impianto della seconda parte della Costituzione, quella sui poteri dello Stato, la debolezza dell’esecutivo fu voluta, perché si riteneva che un governo forte potesse dar vita a una forma di fascismo. Ecco perché il cuore della Costituzione è il Parlamento».
Ma non crede che sia venuto il momento di abbandonare la paura dell’uomo forte?
«Se oggi ci fossero ancora le grandi forze politiche che fecero la Costituzione, naturalmente con il rapporto che allora avevano con il loro elettorato, io non comincerei nemmeno a discutere di una repubblica presidenziale. Ma in questa società di oggi, con questa povertà di ideali e questa debolezza dei partiti, può anche ragionarsi con molta prudenza di una forma semipresidenziale. Attenzione, però: il sì non può coincidere con l’avallo o addirittura con la spinta a qualsiasi forma di potere personale»
Se non ci fosse Berlusconi, se ne potrebbe parlare. E’ così?
«Non voglio fare personalismi.
Ma certo, senza un personaggio con le caratteristiche di Berlusconi, le cose sarebbero diverse».
Secondo il presidente del Senato, Grasso, si potrebbe anche fare a meno dei senatori a vita. Lei è uno di questi: a cosa servono, oggi, i senatori a vita?
«A eleggere il presidente del Senato, qualche volta. Battute a parte, io dico che la democrazia vive anche di simboli, di memoria».
Lei che è stato a Palazzo Chigi quarant’anni prima di lui, quali consigli darebbe a Enrico Letta?
«Gli direi che su ogni cosa deve prevalere l’esigenza della governabilità. E poi di cambiare subito la legge elettorale, in modo che in qualunque momento il Paese sia pronto ad andare alle elezioni senza temere che si riproponga lo scenario di oggi».
Cambiarla come?
«Io sono un nostalgico della proporzionale e un sostenitore del voto di preferenza. Ma i collegi uninominali possono essere una buona soluzione».
Premio di maggioranza o proporzionale pura?
«Vista la situazione, credo che il premio di maggioranza sia una cosa auspicabile anche per il futuro. La governabilità prima di tutto».
I saggi nominati dal Quirinale hanno proposto di differenziare i ruoli delle due Camere, togliendo al Senato il potere di votare la fiducia al governo.
«E’ una buona soluzione, del resto è quello che accade in Germania dove il Cancelliere viene votato solo dal Bundestag e non dal Bundesrat».
Lei ha visto nascere e cadere tutti i governi della Repubblica. Quale destino prevede per il governo Letta?
«Spero che duri. Non c’è alternativa. Ognuna delle forze politiche presenti nell’esecutivo deve avere il senso di responsabilità di non far precipitare il Paese nell’ingovernabilità.
Non pensa che i processi di Berlusconi siano una perenne spada di Damocle sul governo?
«Questo è un elemento di debolezza, certo. Ma non consiglierei a nessuno di utilizzarlo a proprio vantaggio, strumentalizzandolo. Serve la prudenza necessaria per la convivenza».
Ma al tempo della Costituente era pensabile che un condannato, anche solo in primo grado, restasse sulla scena politica?
«Manco per sogno! E devo dirle che è la situazione attuale, che conosciamo tutti, a obbligarci a queste cautele. Le dirò una cosa: allora io non sarei stato così buono come lo sono adesso, in questa intervista».