Walter Fuochi, la Repubblica 13/5/2013, 13 maggio 2013
BELINELLI MADE IN BOLOGNA
«MI marca LeBron James e io, in difesa, devo star dietro a Wade: il lavoro non mi manca, in questi giorni». Sono botte, sudore e lacrime, d’accordo, ma poi si stivano pure dollari, soddisfazioni e gloria, dentro la maglia rossa di Marco Belinelli, 27 anni, primo italiano a superare il primo turno di un play-off Nba. Anzi, già andato oltre: perché la sta pure giocando da protagonista,
la saga sporca e cattiva fra Chicago Bulls e Miami Heat.
Dei tre tenorini italiani che cantano in America nei teatri del basket, Belinelli doveva esser quello col nome più piccolo in locandina. Invece, ridotti ormai a una mezza dozzina di superstiti, lui e i suoi Bulls reggono nel loro Fort Alamo l’assedio dei poderosi Heat. Da giocare stasera gara 4, gli uomini di LeBron il terribile guidano la serie 2-1, dopo il 104-94 maturato solo nel finale venerdì in Michigan. “Beli”, in campo 43 minuti su 48, ne aveva levato 16 punti e un dito “abbottato”. «Sono i play-off: vietato lamentarsi, si bada solo a giocare». Posata quest’orma pesante nella storia, il “cinno” di San Giovanni in Persiceto, paesone alle porte di Bologna, ha così preceduto colleghi più riveriti. Prima scelta assoluta al draft 2006, Andrea Bargnani va ormai declinando, toccati i 28 anni, nella riserva delle speranze inesplose. Debole la squadra di Toronto, di cui doveva esser faro, o incapace di accenderla lui, seguirà dibattito, se sia stato il Mago a far intristire i Raptors, o i Raptors il Mago. Danilo Gallinari è invece fermo ai box dal 5 aprile, con un crociato del ginocchio stracciato e mezzo mondo collegato via twitter: salterà la Nazionale e spererà, la prossima stagione, di ripartire da dov’era arrivato, stellina a Denver, e non più a New York, che lo scelse nel 2008 col numero 6 e l’ha poi ripudiato sul mercato.
Belinelli invece, pare aver finalmente trovato il posto giusto. Da sei anni in America, a sbattersi fra campo e panchina in club di seconda fila (Warriors, Raptors, Hornets), può ora cavalcare forza e prestigio dei Bulls: dapprima attore non protagonista, ha infilato ora le sliding doors della grande occasione. Il caso ha fatto una carezza al merito. «Sì, non lo nego, le assenze di Hinrich e Deng mi hanno creato spazi, ma qualcosa sarebbe venuto lo stesso, in una serie così dura. L’importante è farsi trovare pronti. E adesso vorrei pure giocarmela con loro due, che i medici seguono giorno per giorno e noi aspettiamo in campo, questa serie tremenda con Miami. Perché vogliamo andare avanti, la squadra c’è, la volontà e il cuore pure. Siamo carichi, non abbiamo paura e siamo qui per vincere. Ai Bulls non ci si può accontentare della bella figura».
Pure il ruolo restringe i varchi. Di guardie con fisico e tiro la Nba ne conta millanta. Poi, paga la mentalità. E Belinelli, giocatore che pare senza memoria, ne fa una virtù, non un peccato: sbaglia un’azione, o una partita, cancella, rimuove, riparte, e quella dopo sforna una prodezza. Avviata la serie contro i Nets ammuffendo in panchina, la moria di titolari gli ha spalancato il quintetto. Ha segnato, vinto, e s’è pure preso lo sfizio di pagare 15mila dollari di multa per un gesto da “tamarro” più usuale su un campetto di Milano Marittima che in un’arena Nba. «C’ho due palle così», mimò con le mani l’abnorme sfericità (già in rete come “Belinelli Big Ball Dance”), la sera che i suoi tiri eliminarono Brooklyn. Poi ha segnato punti di piombo vincendo la prima a Miami, contro LeBron («fisicamente mostruoso, il più forte del mondo, anche se io gli affianco, a pari merito, Kobe Bryant»). A 27 anni c’è di che stappare, perché la vita a
downtown Chicago gli piace, due milioni di dollari a stagione sono una bella paga e restare, ora che a giugno scade il contratto, sarebbe il massimo, «nell’ambiente giusto, con buoni compagni e un coach che crede in me. E una squadra che gioca per il titolo. Perché i soldi contano, ma contano anche gli obiettivi e questo è il posto dove sono stato meglio della Nba, anche se ovunque sono andato non sono stato male».
Buona famiglia borghese, babbo Daniele urologo nell’ospedale locale, mamma Iole casalinga, fratelli Umberto ed Enrico tutti per lui, il più piccolo, San Giovanni in Persiceto resta un sereno ombelico del mondo, dove andare ancora a sparare triple sotto il solleone, fra il campo delle medie Mameli, quello in cui a 13 anni stava alla pari con quelli di 16, e quello nuovo del centro sportivo, che inaugurò su invito del sindaco. Fu da lì, e da Bologna, che partì tutto: prima nel vivaio della Virtus, poi, quando questa finì in pezzi, campione d’Italia con la Fortitudo 2005: scudetto a 19 anni. E l’America nel 2007, scelto al primo giro, col numero 18, da Golden State, dopo essere stato notato, ai Mondiali 2006 in Giappone, per 25 punti infilati alla nazionale Usa. Parlò coach Krzyzewski, alla fine. «Se è pronto per la Nba? Sì, certo. Anzi, io lo prenderei pure a Duke, il mio college. Ho due generi di origine italiana, ma non ho più figlie. Se Marco vuole, a casa mia un posto lo troviamo».
Già, e la Nazionale? «Valuteremo con Pianigiani, già ne abbiamo parlato e deciso di risentirci a fine stagione, su come sto fisicamente e a che punto sarà il mio futuro. Lui sa già tutto».