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 2013  maggio 13 Lunedì calendario

CINA APPELLO ALL’UNESCO “PROTEGGETE IL TOFU E LO STUFATO DI CANE”

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PECHINO
Scorpioni fritti, tofu stufato e spiedini di stelle marine sulla brace. Latte di fagioli, bachi da seta marinati e cavallucci di mare croccanti. Buon appetito. Chi cammina per la Cina subisce il richiamo e sente l’orrore del cibo di strada, tradizione antica e sublime. Il profumo si disperde dai mercati: bastoncini di riso dolce e ripieno, scarafaggi e ragni scottati e piccanti, il pane al vapore imbottito di pollo all’aglio, la frutta caramellata e le patate rosse abbrustolite nella cenere. Nelle campagne si è sempre mangiato così, la povertà eletta a sapienza, e nelle metropoli le vie delle cucine all’aperto ricordano che anche la Cina un tempo è stata originale. È un patrimonio gastronomico ineguagliabile, segreto di villaggio e gloria di contea, ma queste bombe
di freschezza, di bontà e di disgusto rischiano di estinguersi sotto i colpi di fast-food, conserve e commestibilità disidratate, che hanno bisogno che anche un repellente cetriolo di mare si trasformi in uno standard «fingerfood » da comitiva. A Pechino, dove nessuno sa dire mai con esattezza cosa sta masticando, scatta così l’allarme-snack.
Un paradosso, dopo la scoperta che le polpette di manzo erano a base di volpe e che nei bocconcini d’agnello regnava la polpa del sorcio. Per salvare la bandiera però, anche un lazzo è sopportabile: prima i ravioli fritti ai tre sapori e il fiore del loto ripieno, poi la faccia. Al punto che il municipio di Pechino, muovendo la potente commissione del commercio, ha stilato l’elenco dei cento cibi di strada più antichi e popolari della capitale, per sottoporlo all’internazionale dei buongustai sedicenti intenditori. Obbiettivo: strappare all’Unesco, magari dopo un generoso brindisi con acquavite di sorgo, il riconoscimento che le meravigliose porcherie servite negli ultimi hutong dietro la Città Proibita sono intangibili cimeli da proteggere come «patrimonio culturale dell’umanità».
Agli ambulanti che cucinano smog, con le stufe montate sulla bicicletta e la griglia sul carretto, nessuno aveva mai detto che erano chef pronti ad entrare nella storia della patria. Sono migranti, poveri in fuga dai paesi rasi al suolo dalle industrie di Stato, ognuno sa fare solo il piatto che in famiglia era un’ossessione, o una medicina di lunga vita: certi pescioni di scolo annegati nelle verdure, i tagliolini saltati nella soia, le zampette croccanti dell’anatra e insomma sì, anche lo spezzatino di cane tenuto per le feste. I cuochi del Nord, tra le lanterne rosse di Wangfujing e il mercato notturno sulla Donghuamen, scoperchiano l’hotpot, i pentoloni di brodo dove qualsiasi organismo viene lessato sul momento. Prezzi stracciati, cedimento democratico, e la certezza di scordare la fame assaggiando ciò che fino ad un istante prima era solo un incubo, o un bene da tutelare: squalo, serpente, tartaruga, orecchia di mare, nido di rondine.
La Cina degli scandali alimentari e dei ristoranti tossici lowcost, aveva due possibilità: prendere le padelle bruciate nei suoi vicoli e seppellire tutto per sempre, come ha fatto con la gloria dei propri imperi, oppure vendere al resto del mondo anche l’olio più nero che sa rendere indimenticabile, per croccantezza e calorie, un pipistrello. È la nuova potenza di Pechino, lo «streetfood- power» capace di far ingoiare agli altri qualsiasi boccone. E qualunque sorso alla salute, anche del prossimo vino invecchiato tra Shaanxi e Sichuan. Ventimila ettari di vigne al posto dei boschi di bambù di cui si nutrivano gli ultimi panda giganti. Una botte rende più di una mascotte. La Cina, oltre che digeribile, oggi rende tutto intangibile e ineffabile. Patrimonio soprattutto: prego ripassare, per l’umanità.