Antonio Gnoli, la Repubblica 12/5/2013, 12 maggio 2013
DE RITA GIUSEPPE
Osservando Giuseppe De Rita dietro una scrivania affollata di oggetti (tra l’altro due testi di Lévinas sul Talmud e un crocifisso) si nota la compostezza elegante di un uomo che non dimostra ottant’anni. Chiede se può fumarsi il toscano che da un po’ si rigira tra le mani. E quando parla, argomenta con la voce sottile e penetrante che a me fa venire in mente l’ago delle vecchie macchine da cucire. Si avverte, ogni tanto, l’inflessione delle sue origini romane. E l’impressione che se ne ricava è che i sodi e puntuti ragionamenti non abbiano del tutto rinunciato a un leggero scetticismo, a quell’averne viste troppe perché davvero non si debba tener conto della natura italiana, così prodigiosa un tempo e oggi così inconcludente. De Rita non è un uomo di potere. Non lo è nel senso in cui abitualmente pensiamo a questa categoria. E tuttavia, egli ha fatto della sua creatura — il Censis che a novembre compirà quarantanove anni — un luogo effettivo di potere intellettuale. Grazie al quale ha spiegato, continuando a farlo, cos’è questo Paese, insieme paradossale e unico.
Vedo sulla scrivania L’italiano di Giulio Bollati. Chi siamo veramente?
«C’è un pensiero di Giulio, del quale sono stato molto amico, che ho fatto mio. L’Italia si compone di due popoli: il primo, la maggioranza, che spende la propria vita nel lavoro quotidiano; e un secondo popolo che pensa il sentimento del primo e per questo ritiene di essere il legittimo sovrano. Nessuno meglio di Bollati ha descritto la nostra élite».
Anche le sue velleità?
«Certamente. Scaturite dall’essere una realtà astratta e privilegiata. Ma soprattutto inconcludente. Non conosco élite italiana, tranne forse quella risorgimentale, che abbia dato prova di coraggio, di lucidità, di efficienza».
Lei fa parte di una élite.
«Parlo principalmente di élite politica. Il mio compito è stato quello di interpretare fenomeni sociali ed economici».
Ho appreso di una sua laurea in giurisprudenza.
«Sì, ma non mi interessava la carriera in quella direzione. Tanto è vero che alla metà degli anni Cinquanta fui assunto alla Svimez».
Si occupava di sviluppo del Mezzogiorno. Che giudizio ne dà?
«Positivo, se penso sia alla gente di qualità che ci ha lavorato, sia al grande sforzo di quegli anni di programmare un intervento così vasto e articolato. Il limite fu di aver sottovalutato le specificità locali, quell’incognita antropologica che il Sud ancora rappresentava».
A capo della Svimez c’era Pasquale Saraceno. Che personaggio è stato?
«Sembrava un contadino vestito a festa. Con un suo tratto di imprevedibilità. Ma la sua cultura meridionalistica gli derivava dai vari Caglioti, Cenzato, Menichella. Gente che era stata, come lui, nell’Iri. Io fui assunto da Giorgio Sebregondi, una straordinaria personalità intellettuale che sarebbe interessante riscoprire. Fu lui a creare alla Svimez la sezione di sociologia».
Personaggi quasi tutti nati dal fascismo.
«Non nel caso di Sebregondi che attraverso Felice Balbo entrò in contatto con i cattolici comunisti. Quanto agli altri è vero, ma non ebbero nessuna empatia con la cultura fascista. Il loro ruolo, ai diversi livelli, si avvalse dell’importante direzione di Alberto Beneduce».
C’era anche Enrico Cuccia nel gruppo?
«Con noi non c’entrava, anche se ci capitava di incontrarlo. Aveva intrapreso un’altra strada. Dall’Iri — grazie anche all’appoggio del suocero Beneduce — passò alla Comit di Raffaele Mattioli. Noi, allora ragazzi, vedevamo con ammirazione questi personaggi che lavoravano alla ricostruzione del Paese. E proprio Mattioli secondo me era il più autorevole. Si era preso una passione sincera per Claudio Napoleoni, anche lui alla Svimez in qualità di economista. A volte Mattioli se lo portava al “Buco”, un ristorante romano dove ogni tanto capitava che li raggiungesse Piero Sraffa».
Lei vi partecipò mai?
«No, io non ero un economista».
Ha conosciuto Sraffa?
«Tutto quello che so di lui l’ho appreso, in larga parte, dal mio amico Napoleoni. Claudio era il vero intellettuale del gruppo, ma anche l’uomo più pigro che io abbia mai conosciuto. Per tornare a Sraffa non ho mai capito il successo del suo Produzione di merci a mezzo di merci,
un libro che sospetto nessuno abbia capito. Io almeno lo trovai indecifrabile. E mi viene il dubbio che quest’uomo, amico di Wittgenstein e di Gramsci, che dialogava alla pari con Togliatti, fosse diventato il punto di riferimento della sinistra snob».
La sinistra, nel suo complesso, ha avuto diversi economisti come punto di riferimento. Tra questi, oltre Napoleoni, Paolo Sylos Labini e Federico Caffè. Le cito questi nomi, perché sono quelli che hanno gravitato sulla Svimez e poi sul Censis. Non le sembra che in loro pesasse una visione ideologica?
«Direi di no, anche se in modi diversi hanno tenuto conto della lezione di Marx. Erano dei tecnici con uno sguardo rivolto al sociale. Mescolavano la cultura del sapere con quella del fare. Ad esempio molti allievi di Caffè si rivelarono bravissimi nella collaborazione con noi al Censis».
«Era un cattedratico, semplice fino alla freddezza. Non aveva passioni. O forse le riversava interamente nei suoi mitici scritti. Era però un formatore. Teneva tantissimo a questo ruolo maieutico».
«Ci sono oramai molte leggende. Personalmente non credo che sia sparito per suicidarsi. Ha voluto allontanarsi da questo mondo con il quale non si riconosceva più. Mi fermerei a questo».
A proposito del Censis come nacque questa avventura?
«Saraceno ci licenziò dalla Svimez e ci trovammo di punto in bianco senza lavoro. Un gruppo di noi decise, con la liquidazione e qualche altro capitale prestato, di dar vita a questo piccolo istituto di ricerca. Ci dovevamo misurare con il mercato. Ricordo che Tommaso Morlino mi disse: dimentica quello che hai appreso alla Svimez, la programmazione, l’approccio sistemico, fai fenomenologia, occupati dei fenomeni che accadono nel Paese. Ed è quello che l’istituto ha fatto nel corso dei suoi cinquant’anni».
Tra le ragioni del vostro successo c’è stata l’invenzione di un lessico: “economia sommersa”, “localismo industriale”, “cetomedizzazione”. Come nascevano queste espressioni?
«L’esigenza era di dare un nome alle cose. Venimmo accusati di fare, con i nostri rapporti, folclore economico. In realtà cercavamo di interpretare le pulsioni profonde del Paese. E spesso ci riuscivamo. Non accadde con la parola “cetomedizzazione”, Pasolini disse che l’Italia si era semplicemente imborghesita e forse aveva ragione».
«Erano seducenti. Non tutto quello che ha scritto è condivisibile. Ma certamente mi affascinava la sua natura proteiforme. Uno stile analogo l’aveva Davide Maria Turoldo. Le sue poesie e l’afflato religioso coglievano splendidamente la natura polimorfa del mondo. Davide mi ha insegnato che cosa è il vigore intellettuale. Prima che morisse andai più volte a trovarlo. Aveva un tumore, e lui gli urlava contro, lo sfidava. Questo fu padre Turoldo».
«Ho studiato con i gesuiti al “Massimo” di Roma. Sono stato segnato dalla loro cultura, dalla fedeltà all’oggetto».
L’hanno soprannominata “il monaco delle cose”.
«È vero, in seguito, però, ho avuto una frequentazione con i padri rosminiani, che sono gli eredi del cattolicesimo liberale e perfino con una scuola laica di ispirazione quacchera. Dai gesuiti ho appreso la determinazione, dai rosminiani l’apertura, dai quaccheri il minimalismo».
«A Roma, anche se i miei erano di Pontecorvo, nel basso Lazio. La mia infanzia si è svolta praticamente sotto la guerra. Ero un bambino allegro. Abitavamo vicino alla basilica di San Giovanni e facevo parte del gruppo dell’“Alberata”, la piazza dove oggi si tengono i comizi e i concerti. Con i miei amici avevamo sviluppato un senso quotidiano e plebeo della vita di strada che credo di aver conservato».
«Nulla. Ho avuto una vita bellissima: una moglie straordinaria, otto figli, quattordici nipoti, un lavoro faticoso ma appassionante. Non ho nostalgie né rancori
«Non sono un fatalista, ma un creaturale. Il Signore mi ha messo al mondo e lui mi verrà a prendere».
Per alcuni la vita è una decisione personale. Cosa pensa del suicidio assistito?
«Non lo condivido. Ma non sono un guelfo fottuto. Rispetto le scelte altrui che nascono da sensibilità diverse. Accadde, tempo fa, che si suicidò un giovane amico. E il parroco di Fiesole volle tenere i funerali in chiesa. A molti sembrò una bestemmia. Lui mi disse una cosa alla quale ripenso spesso: Dio arriva tra la staffa e il terreno. Dio arriva nel momento in cui cadi. E non importa come cadi. Martin Buber traduceva la parola Dio non con “Io sono colui che sono”, ma “Io sarò là per voi”. C’è una bella differenza».
«E cosa dovrebbe fare altrimenti? Le dico una cosa che mi costa fatica raccontare. Ho un fratello che sta morendo e non posso non pensare alla fragilità dell’esistenza, a ciò che di significativo lui ha realizzato per la famiglia, per noi. E quanto ci mancheranno i suoi gesti, la sua vita. Ma al tempo stesso, sento crescere intorno a lui la serenità dei figli e dei nipoti. Il dramma della morte e la paura della sofferenza sfumano in questa presenza che ai miei occhi è la forza del divino, quel giungere tra la staffa e il terreno, prima che si cada del «Non vorrei fare la figura del predicatore. È semplicemente ciò in cui ho fede. Anche se, dopotutto, resto un sociologo. Un sociologo romano, come amo dire. La sera spesso leggo qualche pagina del Belli e ci ritrovo quella saggezza un po’ plebea che è attenzione per le cose che vengono dal basso. Abbiamo dimenticato ciò che accade sotto di noi. E a proposito di luce penso che per troppo tempo la nostra politica è stata rancorosamente buia, perdendo l’orientamento e il senso delle cose. Ecco, anche lì ci vorrebbe un po’ più di rischiaramento».