Eugenio Occorsio, Affari&Finanza, la Repubblica 13/5/2013, 13 maggio 2013
GABRIELE CERRONE IL CIOCIARO DI NEW YORK CHE VUOLE RILANCIARE IL BIOTECH ITALIANO
Non bisogna lasciarsi ingannare dallo sguardo di autentico godimento che riserva agli spaghetti alla matriciana di Cesaretto, la storica trattoria romana in via della Croce («a New York non riesco mai a mangiare niente di simile »). Gabriele Cerrone, finanziere italoamericano di 40 anni, è un uomo d’affari concreto nei contenuti e sobrio nei modi, nato a Sora in provincia di Frosinone e trasferitosi a New York alla fine del liceo. «I miei volevano che facessi il medico, l’avvocato, il notaio, insomma una di quelle professioni rassicuranti per i genitori. Io ho scelto una via di mezzo e mi sono iscritto a biologia alla New York University. Ma subito dopo ho preso il master in business administration sempre alla Nyu (alla Stern Business School di Nouriel Roubini, ndr), perché intanto avevo capito che volevo lanciarmi nel mondo degli affari». Il settore scelto è stato una via di mezzo fra le sue due specializzazioni: le biotecnologie. Non prima di essersi fatto le ossa come broker in una banca d’investimenti di Manhattan, la Oppenheimer & Co., dove è arrivato al ruolo di senior vice president. «Nel 2000 ho fondato Biovitas Capital, il mio incubator di start-up nonché società di investimenti. Da allora, quando ricevo una proposta di start-up, la prima selezione la faccio io personalmente. Poi, una volta adottato un singolo progetto, di volta in volta mi faccio affiancare da qualcuno degli esperti e professori che fanno parte del team di Biovitas. Portiamo avanti le idee
innovative, insegniamo come trasformarle in aziende, le accompagniamo, le finanziamo nel difficile cammino non solo iniziale ». Sono seguiti 13 anni rutilanti di rischi calcolati e in diversi casi di grosse ricompense. Sempre nel settore delle biotecnologie. Finora Biovitas ha investito in sei società, le ha fatte crescere e ne quotate cinque al Nasdaq. La sesta, la GenSignia che rappresenta lo sbarco in Italia, sarà quotata in ottobre. La maggiore, Synergy Pharmaceuticals, di cui Cerrone è tuttora presidente oltre che socio di minoranza, capitalizza oggi 500 milioni di dollari: ne capitalizzava 30 nel 2008, un incremento che ha reso Cerrone uno dei protagonisti del Biotech Showcase di San Francisco nello scorso gennaio. Da pochi mesi Cerrone, pur senza abbandonare New York, ha fatto il viaggio di ritorno. «Ho aperto un ufficio a Milano, in via Spiga, in cui cerco di venire una volta ogni otto-nove giorni. Ho creato Biovitas Italia e ho cominciato a investire per la prima volta nel mio Paese. Per quest’iniziativa mi sono auto-attribuito un fondo di dotazione di 50 milioni di euro e un orizzonte temporale di tre anni. Il mio sogno è un grande gruppo di ricerca comune con sedi sia in Italia che negli Stati Uniti». Intanto sono partiti due progetti, e diversi altri sono in pipeline. La prima start-up è appunto GenSignia, nata da un accordo con l’Istituto dei Tumori di Milano, che sta lavorando su un brevetto per individuare il tumore al polmone con un semplice test del sangue. Il progetto più recente è Arna Therapeutics, una società appena creata in partnership con due ricercatori di Perugia, che sta sviluppando un farmaco biotech contro la leucemia acuta. Nei prossimi diciotto mesi verranno realizzati i test preclinici sugli animali per arrivare e testare il farmaco sugli umani, si spera, entro due anni». C’è stato un episodio che ha rappresentato un punto di svolta per Cerrone. «All’inizio di quest’anno, Citigroup e Credit Suisse mi hanno cercato perché volevano investire in Synergy. Insieme a me, le due branchnell’investment bankinghanno coordinato un aumento di capitale da 103 milioni di dollari. Sono soldi che permettono a Synergy di affrontare l’ultima fase di prove cliniche di fronte alla Fda. Ma per me la cosa più importante è che due delle più importanti banche del mondo abbiano creduto nella mia società e nella mia capacità di farla crescere». E hanno anche rafforzato la consapevolezza in Cerrone di essere in grado di allargarsi sui mercati globali. Ma perché ha scelto proprio l’Italia, che sarà anche il suo Paese avito però non è il primo a cui un finanziere internazionale oggi pensa, e lei non sembra uno che sceglie col cuore? «Beh, il passaporto italiano l’ho sempre tenuto. E andare a trovare i miei genitori non mi dispiace. Ma ha ragione lei, non è stata una scelta sentimentale, è stata una precisa e ponderata opzione di business. Il fatto è che nel biotechci sono in Italia degli straordinari centri di ricerca. Molti dei miei partner nelle varie società americane sono ricercatori italiani che insegnano nelle università o lavorano nelle industrie degli Stati Uniti. In Italia c’è però una sorprendente scarsezza di società biotecnologiche, e quindi paradossalmente c’è molta minore concorrenza che non in America per le buone idee. Sarà che il modello di sviluppo delle start-up finora è stato sbagliato, e sto seguendo con grandissima attenzione i cambiamenti in corso, sarà la troppa burocrazia, lo scarso spirito imprenditoriale, le difficoltà brevettuali, le alte tasse, insomma sta di fatto che tanti brevetti in Italia restano nel cassetto». Uno dei problemi, riflette Cerrone, è che i ricercatori che inventano non hanno il potere di decidere chi sarà il loro sponsor finanziario, mentre nel mondo anglosassone sono i ricercatori stessi ad avere in mano la partita. «In Italia, curiosamente, le migliori esperienze le ho avute con i centri pubblici, dove chi ha avuto l’idea alla fine riesce ad avere un po’ di voce in capitolo. Ma è raro. È un peccato inaccettabile che queste idee, dalle quali potrebbero nascere non solo società redditizie che creano occupazione ma soprattutto nuovi farmaci addirittura salvavita, vadano invece sciupate. E le idee non valgono a lungo: il brevetto, sempre che venga conseguito, dura vent’anni, ma in realtà le intuizioni perdono interesse anno dopo anno». Intanto Cerrone continua a seguire le sue società americane. Synergy deve la fortuna a un farmaco biotecnologico contro la stitichezza. La già ricordata TrovaGene è una compagnia californiana di diagnostica molecolare non invasiva (significa per esempio che i marker per le analisi possono essere applicati alle urine senza bisogno di prelievi di sangue) che è arrivata ad un test innovativo per la leucemia. Su un’altra società del suo portfolio quotata al Nasdaq, la Siga Technologies - attiva nei farmaci biotech contro virus letali quali vaiolo, Ebola, Dengue, Lassa - Cerrone è intervenuto soprattutto come ristrutturatore coordinando un aumento di capitale da 30 milioni di dollari e guadagnandosi la gratitudine del governo americano che è il primo cliente del gruppo, specialmente per i farmaci destinati ai militari impegnati in missioni in aree difficili del globo ma anche per la salute in patria. L’appalto con l’amministrazione Obama da 2,7 miliardi di dollari per il farmaco antivaiolo della Siga è il maggior accordo firmato dall’America nella sua lotta al bioterrorismo. C’è poi un’altra azienda cofondata e “allevata” da Cerrone che si chiama FermaVir (detiene una serie di brevetti per farmaci biotech attivi su malattie virali quali la mononucleosi, l’herpes, la varicella) alla quale è legato il “colpo grosso”. Cerrone sei anni fa ha fuso FermaVir con Inhibitex, un’altra società del suo parco, che operava in un settore analogo, la sperimentazione su un farmaco contro l’epatite C. Bene, l’intera Inhibitex è stata rilevata nel gennaio 2012 da Bristol-Myers per 2,5 miliardi di dollari. Oggetto del desiderio, i farmaci antivirali complementari alla pipeline del colosso americano concentrata sulle malattie infettive. Il mercato mondiale dei farmaci anti-epatite C, calcolano i centri studi specializzati interpellati dal Wall Street Journal al momento dell’acquisizione, schizzerà a 16 miliardi di dollari nel 2015 contro gli 1,7 del 2010. Di qui un’importanza strategica sul lungo termine: fattore non secondario dell’intera partita è la caccia aperta alle piccole società biotech da parte delle multinazionali alle prese con la scadenza dei brevetti. Cerrone non si ferma. La settimana scorsa, in vista della quotazione al Nasdaq di GenSignia, ha “chiuso” un aumento di capitale da 20 milioni di dollari, tutto coperto da investitori privati senza l’ausilio delle banche. Una nuova testimonianza di fiducia da parte degli ambienti finanziari.