Giuseppe Pontiggia, Antonio Franchini, il Sole 24 Ore 12/5/2013, 12 maggio 2013
IL LETTORE DELLA CASA EDITRICE
Una mattina buia di novembre un uomo uscì da un palazzo quadrangolare e si diresse alla stazione della metropolitana. Indossava un cappotto grigio e un cappello a tese larghe. Portava occhiali scuri e reggeva con la destra una piccola valigia nera.
L’uomo sbucò alla superficie in una piazza circondata da grattacieli e da una chiesa bassa. Imboccò un viale dove la prospettiva si dissolveva in una nebbia gialla. Camminò su un marciapiede invaso dai cofani luccicanti delle automobili, finché varco la soglia di un palazzo.
La cabina dell’ascensore si illuminò appena la toccò con il piede. La porta si aprì al quinto piano. "Avanti" era scritto sopra una targa dorata. L’uomo fece qualche passo in una anticamera silenziosa. «L’editore la sta aspettando nel suo ufficio» gli disse la segretaria affacciandosi a una porta.
«Eccole i manoscritti da leggere» gli disse l’editore. Erano collocati con cura uno sopra l’altro. «Sono romanzi di autori sconosciuti» continuò. «Io credo che un’occhiata potrà bastarle. Li porti a casa solo se le interessano».
Avanzò in mezzo ai libri di una stanza: libri sul tavolo, libri negli scaffali, libri accatastati lungo le pareti, libri allineati e sporchi, libri sul calorifero e in un angolo, libri sparsi sul davanzale. Posò i manoscritti sul tavolo. Sedendosi, allineò davanti a sé una penna, una gomma e un blocco di fogli bianchi patinati. Poi prese il primo manoscritto, estraendolo da una custodia di colore rosso. Aggiustò i fogli sciolti. Cominciò a leggere.
Un molo sul lago, lui e lei nella stanza, descrizione degli oggetti, amore, descrizione dell’albergo in una panoramica dal l’alto, influsso della fotografia aerea, un albergo minuscolo su un lago immenso, si ritorna nella stanza, «lei abbassò improvvisamente gli occhi e gli disse», ancora qualche immagine, il lago che luccicava immobile, poi lui a piedi va dall’albergo in paese, lungo una strada rettilinea. Non lesse per intero gli altri capitoli. L’azione si svolgeva sempre in albergo. La relazione a due diventava a tre verso la metà, finché in ultimo si formava la nuova coppia. C’era un taglio geometrico nei capitoli e alcuni dialoghi ricorrevano identici, associandosi sempre alle stesse immagini (la magnolia che saliva fino alla finestra, l’orizzonte del lago).
Scrisse: «L’errore, come quasi sempre, è nei fini. Qui il fine e di confermare un meccanismo erotico attraverso uno narrativo e viceversa». Cancellò «fini» e lo sostituì con «modelli». Guardò verso la finestra; poi rilesse la frase e la cancellò. Scrisse: «La storia non interessa: è il solito triangolo». Ma questo non era vero: la storia interessava. Quali storie interessano se non le solite. Cominciò a scrivere: «Effetti statici, tra i film di Dreyer e i cataloghi di oggetti di Robbe-Grillet».
Le apparivano in sogno uomini con due falli e ogni volta lei indugiava a lungo nella scelta. Lo psicanalista le spiegava che il numero doppio compensava l’indifferenza del marito e che l’indugio alludeva al piacere, ma anche al rimorso per la compensazione che si stava prendendo. Era comunque evidente che queste compensazioni mentali non le bastavano e infatti a pagina 83 usciva in un viale alberato con un collega e a pagina 105 il tradimento era consumato. Adesso sognava di essere inseguita da un lupo e lo psicanalista le spiegava che era una compensazione della colpa. Questi dialoghi interrompevano l’azione e si inserivano d’improvviso nel contesto: in un viaggio in treno, durante l’amore in un bosco, in una cena estiva sotto un pergolato. L’autrice raccontava in prima persona. Il libro non aveva una conclusione, ma forse la conclusione era questo libro. Il tono era quello dimesso di una confessione.
Si intitolava Ufficio del Personale e lo schema era questo: ogni capitolo era intestato a un «impiegato in oggetto» e cominciava con il suo curriculum (luogo e data di nascita, stato civile, abitazione, grado, note di qualifica). Seguiva una parte narrativa, dell’autore, che faceva da contrappunto a quella burocratica: «L’impiegato in oggetto» si diceva nella prefazione «ridiventa così uomo». «Personalità abulica e priva di interesse» era ad esempio un giovane che aveva ambizioni letterarie e si assentava spesso in gabinetto con un libro di poesie in tasca. Mentre le «ombre nella vita privata» di un ispettore erano rischiarate dai lampioni di un viale periferico di omosessuali. Ma il tono era troppe volte in falsetto. L’autore, che probabilmente descriveva colleghi di ufficio, aveva inventato per loro cognomi grotteschi. Scrisse: «Qualche volta si preferiscono i curriculum, redatti dal punto di vista dell’azienda».
Una cosa abbastanza insolita era che i menu in trattoria venivano trascritti con i prezzi. Il protagonista, assillato dalla scarsità di denaro, rifletteva a lungo prima di scegliere, valutando il gusto, il potere calorico e la spesa: era un peccato che il fritto di scampi fosse caro e le lasagne accessibili, ma scarse, un piccolo parallelepipedo verde. Si entrava in locali saturi di vapori e di odori e se ne usciva di soppiatto, dopo avere dato una mancia minima al cameriere. Si avanzava in androni semibui, si salivano scale sudicie, l’alba filtrava in stanze ammobiliate, il collega più anziano era sarcastico e reagire alle sue battute non era facile. Né mancava la prima prostituta, avvicinata in un vicolo in una notte di pioggia, e l’incerto piacere, consumato quasi per interposta persona. Questo era detto bene, con precisione, però era un ripetere quello che si sa, era come dire l’inverno viene dopo l’autunno. L’autore sorrideva troppo di se stesso e chiedeva la complicità del lettore. Cosi diventava difficile accordargliela. Era una narrazione piana, inarrestabile, che poteva durare all’infinito. «Spettabile Casa Editrice, nell’inviare questo mio primo romanzo mi permetto di fare presente alla Commissione di Lettura: a mio parere essenziali. Primo: nessuna illazione sull’io che narra (non sono io). Secondo: Proust. Sarei grato se non si facesse questo nome, che nel mio caso è il più facile e, ne sono convinto, il più falso».
«A che punto è il nostro lettore?» chiese l’editore sulla porta. «Andiamo a bere un caffè?». Uscirono in un’aria carboniosa, filtrata da una pioggia impalpabile. «Alla fine si perde il senso delle proporzioni» disse il lettore. «Ci si abitua anche ai testi scadenti». «Ahi» disse l’editore. «Ma non tema che si diventi indulgenti. Semmai capita il contrario». Aggiunse: «Gli errori scoraggiano e in ultimo si finisce col cercarli, per concludere prima». Entrarono in un piccolo bar e si accostarono al banco. «Comunque» disse il lettore «anche dagli errori si impara. Contengono una verità fraintesa ed è questa che in fondo interessa». «Qual è l’errore più grave secondo lei?» chiese l’editore. «Forse quello di porsi un fine sbagliato». L’editore scosse latesta: «I risultati dipendono solo dai mezzi che uno ha». «Ma anche il fine è un mezzo per riuscire, non crede?». Guardando verso la porta, aggiunse: «Il problema non è solamente quello che si trova, ma quello che si cerca».
Era ritornato nella stanza. Si sedette al tavolo e aprì un altro manoscritto. Riprese a leggere. Che cosa dire a una classe che ti sta guardando. Questo era interessante. Come il fatto che il professore, all’inizio, guardasse altrove. Vedeva davanti a sé un muro da scalare e le prime parole erano suoni. Solo verso metà della lezione le parole acquistavano significato. Allora gli studenti lo guardavano e lui per la prima volta li fissava. Anche le interrogazioni diventavano un tema importante. Chiedere le divinità del mondo antico o il significato di una iscrizione funeraria e dare un voto su questo. L’autore qui non giocava né eludeva. Questa parte però finiva presto. Il seguito si limitava a essere una parodia che mirava soltanto al suo bersaglio: la scuola Vittorino da Feltre di via Farneti.
C’erano alcuni errori precisi, ad esempio l’abuso di maiuscole. Il capufficio diventava il Capo e il figlio del protagonista il Figlio. Si viveva in un mondo di funzioni e non c’era speranza di uscirne. Scrisse: «Qui non è la realtà a diventare un simbolo, ma il simbolo è l’unica realtà». Cancellò la prima frase e il «ma». Perché mai la realtà dovrebbe sempre diventare un simbolo? Lasciò scritto: «Qui il simbolo è l’unica realtà». Il Grattacielo, il Cliente, l’Interprete. Scrisse: «La vita sacrificata all’astrazione». Ma qualche volta la vita si prendeva rivincite. Come quando apparivano, con la maiuscola, il Sole e la Luna e testi scolastici di geografia affioravano come ricordi imprevedibili nelle strade della città.
«Cinque anni di guerra visti da un soldato». Ma già la parola «soldato» era un equivoco e allora le scrisse sopra la parola «uomo», poi cancellò anche questa: il narratore era soltanto un giovane che aveva cercato di sopravvivere alla guerra. E che cosa aveva visto? Il treno reclute che si allontanava dal paese in un pomeriggio di luglio senza nuvole, il cortile in pendenza della case della caserma, la nebbia che di notte alitava nella camerata da un vetro rotto, poi la luce inattesa della lampada e il volto del tenente che lo puniva. Al fronte aveva imparato solo questo: che un colpo era per lui la fine del mondo, ma il mondo continuava senza di lui. Come tutti i memorialisti di guerra, in genere non sbagliava, perché il falso non aveva tempo di attirarlo. Leggendo: «Oggi, due luglio, parto per il fronte», non si dubitava che partisse. Ma si vedeva una fotografia ingiallita ai margini, un dagherrotipo.
Un uomo camminava in una stazione, entrava nei vapori di un bagno turco, poi titoli di giornale si alternavano a comizi, a listini di Borsa, a sequenze di film psichedelici, a cortei di protesta. Solleciti di pagamento erano seguiti da intimazioni di sequestro, da interurbane di affari, da tramonti, da filari di alberi su un fiume, da una cena con l’altra nel vano di una finestra semiovale. «Ho cercato di dare un volto al nostro tempo» scriveva l’autore «e questo può spiegare il titolo, L’Alienazione». Ma il problema del narratore era più complesso: come ripudiare la moglie senza angoscia o sopprimerla senza pericoli. La moglie si sovrapponeva al Medio Oriente, alla fame nel mondo, alla rivoluzione. «Un delitto sognato», scrisse il lettore «differito per un progetto letterario».
L’ultimo manoscritto era senza titolo ed era più voluminoso degli altri. Si poteva tentare il sondaggio ad apertura di pagina. Aprì a pagina 4 e le prime righe lo interessarono: «Nella via regnava un calore soffocante. La folla, La vista dei calcinacci, dei mattoni, delle impalcature L’odore insopportabile delle osterie molto numerose in quella parte della città, e gli ubriachi che si incontravano a ogni passo, benché fosse un giorno di lavoro, finivano per dare al quadro un non so che di ributtante». Ma, subito dopo: «I lineamenti fissi del nostro eroe chioma castana e occhi di colore scuro». Sfogliò rapidamente il manoscritto. Cedimenti di tipo espressionistico («Crucifiggimi, giudice; ma, crucifiggendomi, abbi pietà di me!») si alternavano a momenti di tensione («Il cuore gli batteva con violenza. Ma la scala era completamente silenziosa»). Benché l’ambientazione slava disturbasse, era difficile liberarsi da certe immagini, intense, visionarie, della città: i crepuscoli, la folla, le strade. I sogni erano raccontati con una precisione che sembrava presa da Freud: «Ecco ora il suo sogno: egli segue con suo padre la strada che conduce al cimitero; entrambi passano davanti al cimitero». Si alzò e andò verso la finestra. Guardò fuori dai vetri la nebbia lattiginosa, poi ritornò al tavolo e si sedette. Riaprì a pagina 30: «Ho cercato la tristezza, la tristezza e le lacrime in fondo a questo bicchiere, e ve le ho trovate, le ho assaporate». Richiuse il libro.
«Niente?» chiese l’editore alzando gli occhi. «No» rispose il lettore sedendosi. Aggiunse: «Solo l’ultimo mi lasciava qualche dubbio». «In che senso?». Il lettore esitò «C’è una certa atmosfera» disse. «E anche alcune immagini che colpiscono». «Ma le sembra da pubblicare?». «No» rispose il lettore guardandolo. «Non convince. Ci sono molti errori, molta enfasi. È un autore che va tenuto d’occhio per il futuro». «Me lo faccia vedere». Il lettore gli porse il manoscritto e l’editore lo guardò sorpreso. «Ma questo non doveva giudicarlo» esclamò. «Come mai è finito in mezzo agli altri?». Il lettore aprì le braccia: «Non lo so». «Non mi dica che non si è accorto che è una traduzione». «No» rispose il lettore fissandolo. «Non l’ho capito». Aggiunse: «Questa mattina sono molto stanco». Chiese: «Di quale opera?». L’editore lo guardava incredulo: «Ma è Delitto e castigo» disse.
Giuseppe Pontiggia
LO SGUARDO DI PEPPO –
L’inconfondibile "sguardo" di Pontiggia, il suo stile di bruciante esattezza, si affinò in due luoghi, la banca e la casa editrice.
Se la banca poteva essere, come dal titolo del suo libro d’esordio, un luogo della morte – per quanto non della morte tout court, ma solo di «una delle infinite morti nella vita» –, la casa editrice non si poneva affatto, altrettanto semplicisticamente, come il tempio di una ricerca idealizzata, la sede di un’aspirazione astratta.
Le soluzioni ovvie, la semplificazione, i mondi privi di sfumature nelle opere di Pontiggia non esistono.
La contrapposizione netta esiste invece solo nel suo stile, che ama la soluzione aforismatica, la clausola brusca, potente.
In tutte le lezioni e gli interventi sulla scrittura, il suo insegnamento ruotava ossessivamente soprattutto attorno a un principio: non adottare mai scelte che, nel tentativo di sfumare, distinguere, aggiungere, ottenessero, come primo effetto, il risultato di "depotenziare" la pagina.
Come in una banca si potevano coltivare sogni, in casa editrice si doveva esercitare la concretezza. L’una non era detto che fosse sempre "terrestre", l’altra non doveva essere necessariamente "aerea".
Del tempo passato in banca Peppo conservò un approccio realistico, quasi economico, che trasferiva con naturalezza al mondo dei libri. In Prima persona scrive: «Io mi aspetto qualcosa di utile da un autore: non una prova della sua bravura, ma un frutto di cui possa appropriarmi, facendolo mio. Che l’autore superi i test della competenza è cosa buona, ma purtroppo non basta. Che un agente di Borsa sappia fare i conti è indispensabile, vorrei però fossero in attivo non solo per lui, ma per me».
E qualche pagina dopo: «Negli anni preistorici in cui lavoravo in banca un funzionario incarnava per me il lettore ideale: era esigente, impaziente, implacabile. Se volevo un riscontro attendibile, la sua inflessibilità di giudice era più preziosa che ogni indulgenza di complice. (…) Eccelleva, più che nella apertura di fidi bancari, nella chiusura di crediti alle futilità letterarie».
È possibile che una figura di lettore ideale possa trovarsi in una banca piuttosto che là dove dovrebbe albergare per definizione, in una casa editrice?
Nell’universo sghembo ma nient’affatto astruso raccontato da Pontiggia non solo è possibile, ma è quasi fatale che accada. Già nel paesaggio grigio su cui si apre Lettore di casa editrice, negli ambienti cinerei, nel l’edificio «quadrangolare», nell’aria «carboniosa», nella porta con la scritta «Avanti», nella stessa fisicità assente dell’editore, non c’è proprio nulla che stabilisca una differenza tra un istituto di credito, un qualunque ufficio burocratico e l’officina di quei libri che lui amava nel contenuto come nel corpo di carta e nella pelle di cartone e pergamena delle legature. È possibile, poi, che il "lettore" del titolo non sia in alcun modo uno sciocco, una figura ridicola votata allo sconcertante smacco finale?
Assolutamente sì. In fondo, questo lettore non sbaglia. Nella maniacalità con cui corregge i propri appunti c’è un rigore che comincia da sé prima di applicarsi agli altri, mentre nello smarrimento di un’affermazione sacrosanta come «alla fine ci si abitua anche ai testi scadenti» c’è perfino una nota di personale sconforto.
Questo lettore di casa editrice non è il caricaturale altro da sé, ma l’inquietante controfigura di un uomo che questo lavoro, con i suoi dubbi, le sue lacerazioni, le sue patetiche giustificazioni («Questa mattina sono molto stanco») l’aveva fatto per anni e continuava a farlo. Il lettore argomenta, con apparente intelligenza, ma Pontiggia non si fidava dell’intelligenza applicata alla letteratura. Il lettore professionale vive in una sospensione plumbea, con lo spettro dell’errore costantemente sulla spalla, come il teschio, monito della morte, nella cella di un asceta.
Soltanto all’editore di genio è consentita la sprezzatura, una superiore libertà, come quel Valentino Bompiani che «fulmineo quanto lungimirante nella acquisizione degli autori, era un maestro anche nelle lettere di rifiuto editoriale. Alla lode aerea («Lei vola troppo alto») contrapponeva la natura terrestre della sua casa. Ho letto una sua risposta che diceva: «Lei è già un classico. Noi pubblichiamo autori contemporanei».
Antonio Franchini