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 2013  maggio 13 Lunedì calendario

Chi si aspettava un taglio netto col passato, una cura da cavallo al corpaccione agonizzante del Pd, capace di rianimarlo e di rimetterlo in corsa, non poteva che rimanere deluso, via via che scorreva lo spartito degli interventi, tutti rigorosamente sottotono, in una gara ad apparire modesti, monocordi, elusivi sui clamorosi fallimenti del gruppo dirigente dimissionario, appassionanti come la lettura del codice civile alla fine dei matrimoni

Chi si aspettava un taglio netto col passato, una cura da cavallo al corpaccione agonizzante del Pd, capace di rianimarlo e di rimetterlo in corsa, non poteva che rimanere deluso, via via che scorreva lo spartito degli interventi, tutti rigorosamente sottotono, in una gara ad apparire modesti, monocordi, elusivi sui clamorosi fallimenti del gruppo dirigente dimissionario, appassionanti come la lettura del codice civile alla fine dei matrimoni. Con l’eccezione, va riconosciuto, del candidato in pectore Gianni Cuperlo, decisamente fuori standard per chiarezza e profondità, l’unico ad aver pronunciato la parola «sconfitta». Tra gli indizi visibili al pubblico ci sono i calorosi abbracci, di consolazione e incoraggiamento, tra Bersani, Franceschini, Letta ed Epifani. A conferma che quest’ultimo potrebbe non essere il traghettatore verso un nuovo inizio (che si tratti di far girare la ruota lungo il viale delle rimembranze già solcato da Bersani o di imporre un’agenda alternativa con il metodo Renzi) ma, tutto al contrario, il garante dello status quo. Il rappresentante del «patto di sindacato» che controlla il Pd dal 2010 (Bersani, Letta, Franceschini). E dunque dell’accordo di governo Pd-Pdl, l’ultima spiaggia a cui questo gruppo dirigente è approdato dopo una sconclusionata navigazione a vista. Le parti si sono invertite rispetto ai piani fatti alla vigilia delle elezioni: la «non vittoria» di Bersani ha portato i post-Dc in prima fila; e con quello che ieri era il nemico pubblico numero 1 (Berlusconi) si è oggi dovuta stringere una «alleanza organica» (si sarebbe detto nella Prima Repubblica). Ma il «patto di sindacato» regge. Viene prima di tutto. Anche se per tenerlo in piedi e rimanere a galla si devono fare salti mortali sul piano logico che pochi comuni mortali riescono a seguire. Non è facile spiegare come Epifani, che da segretario della Cgil fu un combattente tenace contro il governo Berlusconi, ora sia il principale sostenitore dell’accordo con il nemico. Ce lo ricordiamo nell’ottobre del 2010, alla manifestazione Fiom a Roma, mentre urlava e infiammava la piazza, in un crescendo di bordate contro il Caimano, al centro del palco tra due tostissimi come Landini e Cremaschi che ascoltavano annuendo. «Una politica di destra che ha umiliato il Paese, che ha tagliato scuola e ricerca e ha mandato a casa i precari. Che ha usato la crisi per colpire i diritti dei lavoratori». Il leader che ha spinto la Cgil sulla via delle intese separate, dicendo no alla riforma del modello contrattuale del 2008, il primo degli strappi da Cisl e Uil sino a Pomigliano. Ora è lui la stampella su cui si regge il governissimo con Berlusconi, con il problema giustizia grande come una casa. Ma se questa è la base di partenza, il Congresso Pd potrebbe rivelare sorprese. Il discrimine potrebbe diventare, per l’appunto, quello che separa i difensori dello status quo (patto di sindacato interno, larghe intese) e chi ritiene che vada superato (sotto tutti e due i punti di vista). Che poi vuole anche dire, chi scommette sulla durata dell’attuale governo per più di dieci mesi e su Enrico Letta come bandiera elettorale del Pd anche nelle prossime elezioni, e chi pensa che la nuova bandiera non potrà che essere Renzi, il prima possibile. "twitter@gualminielisa"