Paolo Poli, la Repubblica 12/5/2013, 12 maggio 2013
Sono cresciuto tra un King Kong e due giarrettiere - Quand’ero piccolo mangiavamo le robe dei poveri
Sono cresciuto tra un King Kong e due giarrettiere - Quand’ero piccolo mangiavamo le robe dei poveri. I carciofi non c’erano mai. Abitavamo in periferia, Firenze non si vedeva. Eravamo vicino alla stazione, la seconda, quella di Rifredi, ogni fabbrica aveva un attacco. Si sentivano le mucche piangere, muggivano perché non volevano andare a farsi ammazzare, anche i maiali piangevano. Le bestie le macellavano il venerdì. I rossi e la milizia Noi per mangiare compravamo le cose che costavano meno. Sono cresciuto a forza di polmone, lo cucinavamo con le patate e il pomodoro: quello che ora si dà ai gatti allora era bontà. La nostra casa si trovava in via di Santo Stefano in Pane. Dalla finestra vedevo uomini picchiati coi bastoni. «Perché li trattano così?» chiedevo alla nonna. «Perché sono rossi» mi rispondeva. Sono questi i miei primi ricordi. Oltre alla polizia ferroviaria c’era la milizia. Ogni tanto un poliziotto mi prendeva in braccio e mi faceva vedere l’uomo che metteva il carbone per far andare il treno. «Dov’è la mia milizia oggi?» domandavo quando non c’era nessuno. Le gambe di mamma La sera ero sempre al binario, aspettavo la mamma che tornava con la vaporiera da Prato. Faceva la maestra. Mi ricordo bene i polpacci, i piedi dentro le scarpe, rivedo i lacci, il tacco a rocchetto. Ero piccolo e le gambe della mamma mi ve- nivano incontro. Mi sembravano altissime. Appena arrivata a casa, si toglieva le scarpe, poi le calze e le giarrettiere. Quegli elastici mi incantavano. Esisteva solo a quell’ora per me la mamma. La mattina usciva di casa troppo presto, io restavo con la nonna Maria. Il mio zio tassinaro raccontava sempre di quando andava a prendere le donne dalle case di tolleranza per fare le comparse. Una signora per bene non poteva lavorare al cinematografo. Ero io suor Camilla Sono nato nel 1929, mentre l’America cadeva, l’Italia si rialzava e pensava al Concordato. La mamma era del 1897, il babbo del 1894. Era buono mio padre, figlio di certa gente nata in cima a una montagna, elegante, alto un metro e ottanta. Un giorno arrivarono degli inglesi e lo presero come cameriere. Lo portarono in Inghilterra, dove credo abbia avuto esperienze sia con donne che con uomini. In un cassetto teneva i ricordi: c’era una scarpina di femmina e una cinghia di maschio. Si chiamava Basilio. Nome importante, Basileus. Aveva idee di socialista. Non gli dava noia la mia effeminatezza, anzi: mi chiamava suor Camilla. Mi chiedeva: «Paolo, oggi alla ginnastica hai saltato la baionetta?». «No babbo, non l’ho fatto, avevo paura!» . Mi faceva esonerare, non mi sgridava mai. La barba ai morti Il lungo mese di vacanza noi lo facevamo in campagna, a Lamporecchio, da dove proveniva la mamma. Su quelle montagne pistoiesi ci sono le suore di santa Brigida, famose per i brigidini, ostie di acqua e farina, con uovo, anice o finocchio. Finocchio, capisci! Fra quelle montagne ho avuto un amore. Una capra. Io non digerivo il latte di mucca e la nonna ebbe un colpo di genio: mi portò una capretta. Era pulitissima, la baciavo, la abbracciavo, la mungevo, bevevo il suo latte senza bollirlo. Avevamo anche una gallina, non altrettanto pulita. Quando faceva l’uovo bevevo anche quello, ma prima dovevo appoggiarlo sugli occhi. Non ho mai capito il perché. Aveva strane usanze e strane teorie la nonna, specialmente sul latte. Di sei figli, tre erano morti con la spagnola, la terribile influenza. Erano rimasti la mia mamma maestra, la zia ragioniera e un maschio «duro, duro che non impara nulla, e sai perché?» diceva. «Perché non ha bevuto il mio latte ma quello della mucca. Io son dovuta andare in Germania a fare da balia al duca Massari». Non aveva studiato, tutto quello che sapeva lo aveva imparato da sola. È stata lei a spiegarmi che le cose sono sempre semplici, che non si deve mai avere paura di nulla. «Vai in Germania, leggi Brot e quello è pane!». Per farmi addormentare mi raccontava la storia delle cento pecore d’oro. Iniziava a contarle, alla quinta già russava. Era stanca. Lavorava tutto il giorno. Andava anche a fare la barba ai morti e a lavarli. Una volta tornò dicendo: «Povero ragionier tizio, se n’è andato che era ancora vergine, ho visto il pisello chiuso». La scimmia pelosa Amori veri mai avuti. Mi garbava uno che vedevo sul tram «...le rose che non colsi». Sono come il poeta di Torino. Amavo quelli con i quali non avevo mai parlato. Sempre avuto due condizioni separate: il sesso e il sentimento. Sesso praticato, sentimento meno. Non mi piace l’affetto. La mamma non ci faceva carezze, non aveva tempo. La mia zia buona, la ragioniera, era stata sposata malamente con uno che portava donne nel letto per fare il mucchio. Lei non voleva, non le piaceva. Un giorno scappò dalle suore e ottenne la separazione. Quasi un miracolo. A quei tempi non si credeva alle mogli. Una donna che si staccava dal marito era una troia. Fu questa zia a portarmi al cinema a vedere King Kong. Quando lo vidi arrampicato sull’Empire State Building con la sua bambolina in mano e gli aeroplani cattivi che gli sparavano, ho iniziato a urlare e dallo spavento mi sono pisciato addosso. La zia mi ha portato al cesso, mi ha tolto le mutande e le ha buttate, mi ha asciugato con delle cartacce sudicie, mi ha rimesso i pantaloni, mi ha allacciato i bottoncini e trascinato fuori. Siamo entrati in un negozio dove, per consolarmi, ha comprato una bambola: una scimmia pelosa. La sera ci sono andato a letto. È stato il mio primo amore sensuale. (tratto da Sempre fiori mai un fioraio” Rizzoli 2013)