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 2013  maggio 12 Domenica calendario

PRIMO ARTICOLO

S aremo più alti, con un cervello più potente, ma senza denti perché ci ciberemo solo di pillole e pappine? Oppure saremo grassi, con i muscoli atrofizzati e un cervello minuscolo? Difficile prevedere come saranno l’uomo e la donna fra migliaia di anni: la fantascienza ci si è applicata con zelo, proponendo versioni più o meno fantasiose, e pure la scienza ha provato ad azzardare qualche ipotesi. Lo ha fatto di recente anche la rivista New Scientist, commentando alcuni studi sull’evoluzione a poco più di 150 anni dalla pubblicazione de «L’origine della specie» di Charles Darwin.
Non sappiamo se Darwin avesse una teoria sull’uomo del futuro, ma Maurizio Casiraghi, presidente della Società italiana di Biologia evoluzionistica, specifica: «Darwin parlava di discendenza con modificazioni e non di evoluzione, perché in questo termine è implicita l’idea che la specie tenda verso un miglioramento. Non è detto che sia così, perché chi è "premiato" dal processo di selezione naturale non è il migliore, ma quello che se la cava meglio: l’evoluzione non è innovazione, ma è, piuttosto, arte di arrangiarsi». Morale, non dobbiamo aspettarci che l’uomo del domani sia per forza un super-uomo, anzi.
Plausibile pensare che sarà alto, visto che in meno di un paio di secoli l’altezza media delle popolazioni occidentali è aumentata di 10 centimetri. «Non necessariamente continuerà a "crescere", perché l’incremento di statura registrato non sottintende un cambiamento genetico, che è ciò che ci vuole per parlare di evoluzione — obietta Antonio Torroni, docente di genetica al Dipartimento di Biologia e Biotecnologie dell’Università di Pavia —. L’altezza maggiore è più che altro il frutto di un ambiente diverso: vaccini, cure migliori, alimentazione più ricca ci stanno consentendo di esprimere al meglio il potenziale della specie, ma i geni non sono cambiati».
Difficile poi dire se diventeremo più grassi, anche se qualche avvisaglia sembra ci sia: stiamo diventando accumulatori di grasso, a giudicare da quanto ha denunciato una ricerca sull’International Journal of Obesity: i bambini di oggi rispetto a quelli di 30 anni fa, a parità di peso e altezza hanno un 23% di massa grassa in più e il 3% di massa magra in meno. Colpa del cibo spazzatura, che forse alla lunga potrebbe paradossalmente avere perfino effetti positivi, perché se ci adattassimo a tollerarlo, dicono gli studiosi, potremmo diventare «resistenti» a diabete e malattie cardiovascolari. Alcune teorie, d’altro canto, indicano come probabile una maggiore dipendenza dalla tecnologia medica, perché il nostro sistema immunitario, sempre più «impigrito» da vaccini e antibiotici, ci renderà più fragili.
Certe caratteristiche umane peraltro sembra stiano realmente cambiando: oggi il 90% dei bambini ha bisogno dell’apparecchio per i denti perché ossa e muscoli di mascella e mandibola sono più deboli rispetto al passato. I denti stanno diventando più piccoli e quelli del giudizio sarebbero già in via di estinzione: il 35% di noi nasce già senza, molti altri ne possiedono 1 o 2 al massimo perché gli ultimi molari con la dieta attuale non servono più. L’evoluzione infatti tende a eliminare tratti inutili, attraverso la cosiddetta selezione rilassata: la scomparsa è più o meno lenta a seconda della spesa necessaria a mantenere in funzione una determinata caratteristica e del numero di geni coinvolti, stando a studi del National Evolutionary Synthesis Center statunitense. Perciò, secondo molti, in futuro saremo glabri, visto che non abbiamo più necessità di peli che ci aiutino nella termoregolazione, e più deboli, perché perderemo gran parte della muscolatura, resa superflua dallo scarso uso della forza fisica per la maggioranza di noi. C’è chi si spinge a supporre che non avremo alcune dita dei piedi, perché non sono più indispensabili per aggrapparci agli alberi (ma l’equilibrio ne risentirebbe e forse per questo non abbiamo ancora perso i mignoli) e pare probabile che, in un mondo multiculturale e con un numero sempre più esiguo di popolazioni isolate, l’uomo del futuro possa essere un meticcio con caratteristiche intermedie alle diverse etnie.
Tutte congetture, ovviamente. «L’evoluzione è imprevedibile: possiamo solo ipotizzare tendenze, valutando quel che è successo in passato — precisa Casiraghi —. Per di più, l’uomo è una specie con appena 200 mila anni di vita, un soffio nell’esistenza della Terra, 8 mila generazioni appena. Il nostro genoma non è cambiato molto dal progenitore comune con gli scimpanzé, tanto che la differenza con i nostri "parenti" primati è solo del 2%: non è però questa manciata di geni che ci rende diversi da uno scimpanzé, ma il fatto che il nostro genoma "lavora" in altro modo, perché gli stessi geni possono comportarsi in modo differente in contesti evolutivi diversi. Se perciò un gene si modifica è molto difficile capire come questo influenzerà lo sviluppo globale di un organismo; quindi, è praticamente impossibile fare previsioni sensate».
«Inoltre, oggi la popolazione è molto numerosa e facciamo mediamente pochi figli — aggiunge Torroni —. Un carattere, qualsiasi esso sia, viene diluito nell’intera specie e non è più pensabile un "effetto fondatore" che porti a tramandare un gene a tantissime persone influenzando l’evoluzione, come è successo, ad esempio, in Asia con la discendenza di Gengis Khan: lui e i suoi innumerevoli figli ebbero una progenie vastissima, così tuttora se ne riconosce il "segno" sul 2-3% dei cromosomi maschili Y delle genti asiatiche».
Lo scarso effetto del singolo sul destino dell’evoluzione umana può avere risvolti utili. Oggi persone con malattie genetiche un tempo incurabili possono avere figli, tramandando però così il loro difetto: questo ha portato alcuni a supporre che la specie umana si stia «indebolendo». Commenta Casiraghi: «Certamente si perpetua la presenza di geni che pian piano sarebbero scomparsi, ma questo non mette in pericolo la specie né la modificherà: l’effetto a livello globale è trascurabile».
«Lo stesso può dirsi di caratteristiche teoricamente vantaggiose — aggiunge Torroni —. Poniamo che in una società tecnologica come la nostra sia conveniente avere un super pollice per schiacciare i tasti di telefonini e computer: non sarebbe comunque detto che fra mille generazioni l’uomo avrebbe un dito più sviluppato. Tale tratto, infatti, non dà un vantaggio evolutivo: chi ce l’avesse non farà più figli per questo».
La selezione premia infatti chi si riproduce di più, effetti macroscopici li potremmo vedere solo in piccole popolazioni segregate e in presenza di «super-riproduttori» che abbiano decine di discendenti. Una situazione sempre meno probabile oggi, per cui secondo gli esperti non serve far volare troppo la fantasia: siamo avviati verso un’evoluzione «tranquilla», e forse avremo un aspetto simile a quello attuale ancora a lungo.

SECONDO ARTICOLO
E se ci stessimo sbagliando? Se la pressione della selezione naturale avesse smesso di esercitare i suoi effetti sull’uomo perché la nostra specie attraverso l’intelligenza è stata in grado di scollarsi dai vincoli che attanagliano gli altri esseri viventi? «L’evoluzione si è fermata, l’uomo rimarrà così com’è». Lo sostengono diversi scienziati fra cui Ian Tattersall, antropologo del Museo di Storia Naturale di New York, secondo cui la scarsissima probabilità che una mutazione genetica possa diventare comune a tutta l’umanità fa sì che di fatto la specie umana non possa evolversi più.
L’assenza di segregazione delle popolazioni è solo uno dei motivi: secondo Steve Jones, genetista dell’University College di Londra, la selezione oggi è una forza lieve perché non viviamo più in condizioni dure come è stato per larga parte del nostro passato. Possiamo adattarci a qualsiasi clima, la tecnologia ci aiuta in mille compiti: perché dovremmo cambiare? Per di più, osserva Jones, sono abbastanza rari i padri attempati, che producono spermatozoi con un maggior numero di mutazioni: e se le mutazioni scarseggiano, viene meno la «materia prima» su cui si modella l’evoluzione
Non è affatto così, dicono altri ricercatori: proprio grazie all’aumento della popolazione, secondo uno studio dell’Università di Sheffield, ci stiamo evolvendo tuttora e, anzi, negli ultimi 40 mila anni ancora più velocemente rispetto al passato (siamo più diversi noi da un uomo di 5 mila anni fa di quanto lo sia quest’ultimo rispetto all’uomo di Neanderthal, hanno confermato su PNAS antropologi americani). Questo perché ogni giorno nascono decine di migliaia di bambini e, con loro, migliaia di mutazioni genetiche casuali si affacciano al mondo pronte per essere «vagliate» dalla selezione naturale; semmai, secondo gli esperti inglesi, sono cambiati i fattori che incidono sulla capacità di perpetuare il patrimonio genetico.
D’accordo Maurizio Casiraghi, presidente della Società italiana di Biologia evoluzionistica, che spiega: «La selezione naturale è un setaccio: abbiamo allargato le maglie, perché ora vi passano attraverso persone con malattie che un tempo erano incurabili, c’è una maggiore disponibilità di cibo, ci sono terapie migliori. Ma la selezione c’è ancora, anche se adesso siamo soggetti a una pressione inferiore rispetto ai nostri antenati primitivi: non siamo immortali né mai lo saremo, e per questo stesso fatto la selezione continuerà a scegliere chi è più adatto a sopravvivere».
«Il vaglio selettivo peraltro agisce spesso tramite elementi imponderabili e non è detto che attualmente il più pericoloso sia il temuto cambiamento climatico — aggiunge il genetista dell’Università di Parma, Antonio Torroni —. Oggi infatti è impensabile che si riproduca di più chi ha geni che migliorano l’adattamento al caldo o al freddo, perché abbiamo strumenti che ci consentono di non doverlo fare da soli; un potente "selettore" potrebbe invece essere l’arrivo di un nuovo virus contro cui solo una parte della popolazione umana sapesse difendersi».
«Le prove che l’evoluzione è ancora all’opera sarebbero tante, dalla perduta graduale dei denti del giudizio alla persistenza degli occhi azzurri: quando uscimmo dall’Africa li avevamo neri, poi è comparsa la mutazione e probabilmente è stata selezionata perché era una sorta di "test di fedeltà" per l’uomo, che accoppiandosi con una donna anch’essa dagli occhi cerulei avrebbe avuto la certezza di paternità se nasceva un bimbo con gli occhi chiari (i nostri progenitori non avevano la spinta
a occuparsi di figli che non fossero i propri)».

TERZO ARTICOLO
A ltro che selezione naturale. Quella che stiamo vivendo è una nuova fase, quella dell’evoluzione auto-determinata, per dirla con il celebre astrofisico Stephen Hawking.
Secondo lo scienziato saremo ben presto in grado di cambiare e migliorare il nostro Dna: inizialmente lo faremo per riparare difetti genetici e risolvere malattie come la fibrosi cistica oppure la distrofia muscolare.
Questo sarà relativamente semplice in caso di patologie che dipendono dall’alterazione di un singolo gene, ma presto potremo dedicarci a modificare ben altro. «Qualità come l’intelligenza sono governate da un ampio numero di geni e sarà molto più complicato individuarli e capire le relazioni fra loro — ha dichiarato Hawking —. Nonostante ciò, credo che entro il prossimo secolo saremo capaci di riuscirci e, ad esempio, sapremo modificare istinti come l’aggressività».
Sono le parole di un visionario? «Per il momento sì, anche se in linea teorica qualcosa si può già fare per modificare volontariamente il patrimonio genetico. Ma se non si cambiano i geni nelle cellule uovo e negli spermatozoi non si potrà incidere davvero sull’evoluzione della specie, perché sono quelli i tratti che si tramandano e su cui agisce la selezione» osserva il genetista dell’Università di Pavia, Antonio Torroni. Ancora più scettico Maurizio Casiraghi, biologo evoluzionista dell’Università di Milano Bicocca: «I fisici sono molto deterministici, tendono a credere che anche in biologia valgano leggi ferree, ma non è così: esistono le proprietà emergenti, quelle per cui 5 cellule non sono la somma di 5 entità che continuano a comportarsi come quando sono sole, bensì sono un organismo, con caratteristiche e funzioni nuove, che derivano da interazioni non semplicemente identificabili né tutte spiegabili con il Dna. In linea teorica quanto prospettato da Hawking è fattibile, ma dovremmo avere una conoscenza del genoma molto più avanzata di quella che abbiamo ora».
«Vent’anni fa — sottolinea il biologo — pensavamo che una volta letto il "libro del Dna" avremmo avuto le chiavi della vita, oggi sappiamo che non è così. Pensare di prendere un gene che rende resistente al freddo un pesce, inserirlo nell’uomo e renderlo così tollerante ai climi artici è un nonsenso, perché ogni gene funziona in un determinato modo anche e soprattutto a seconda del contesto e delle condizioni in cui si trova». Non siamo ancora pronti, quindi, a guidare l’evoluzione in maniera consapevole e con le nostre mani. A meno di non guidarla verso la cosiddetta devoluzione: un ritorno alle caverne consapevole, preconizzato da chi ritiene che ormai la specie umana sia un pericolo per se stessa e per la Terra, per cui dovremo prima o poi deciderci a tornare a uno stadio di pre-civilizzazione per smetterla di minacciare l’ecosistema. Oppure, in maniera ancora più drastica, c’è chi spera che la vera evoluzione autodeterminata sia quella che ci porterà all’estinzione volontaria per alleviare il mondo dal carico della nostra ingombrante presenza.