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 2013  maggio 11 Sabato calendario

RAGAZZE RAPITE PER IL FOGLIO DEI FOGLI

Poco prima delle sei del pomeriggio di lunedì 6 maggio Charles Ramsey passa davanti alla villetta del suo vicino Ariel Castro, ex autista di scuolabus, al 2207 di Seymour Avenue, in uno dei quartieri più poveri a ovest di Cleveland, in Ohio. Sente battere violentemente alla porta, si avvicina e scopre che a dare calci con tutta la forza che ha in corpo è una ragazza. Si chiama Amanda Berry ed è scomparsa nell’aprile del 2003 dopo essere uscita da un vicino fast food alla vigilia del suo 17° compleanno. Ramsey chiama il 911 e passa a Berry il cellulare. [1]

Amanda: «Sono qui di fronte al telefono dei miei vicini».
Operatore: «Ok, stai qui con i tuoi vicini e parla con la polizia quando arriverà».
A: «Ok» (sospirando).
O: «Parla con la polizia quando arriveranno».
A: «Ok. Ci siete?».
O: «Sì, parla con la polizia quando sarà lì».
A: «Ok, non voglio mollare proprio adesso».
O: «Manderemo qualcuno non appena ci sarà una volante disponibile».
A: «No, ho bisogno della polizia, adesso, prima che lui ritorni».
O: «Ok, loro stanno arrivando. Chi è l’uomo in questione?».
A: «Il suo nome è Ariel Castro».
O: «Va bene e quanti anni ha?».
A: «52 anni».
O: «Ok, bene».
A: «E io invece sono Amanda Berry, sono stata tra le notizie del telegiornale per più di dieci anni».
O: «Ok, l’ho capito questo, cara. Me lo hai già detto. Mi stavi dicendo invece, qual è il nome di quest’uomo?».
A: «Ariel Castro».
O: «A quale etnia appartiene?».
A: «È ispanico».
O: «Cosa indossava?».
A: «Non so dove sia andato» (sospiri).
O: «Ok. La polizia sta arrivando da te» (dalla telefonata di Amanda Berry al 911). [2]

Quando arriva, la polizia trova nella casa altre due ragazze, Gina DeJesus, scomparsa nel 2004, e Michelle Knight, della quale non si avevano più notizie dal 2002. C’è anche una bambina di sei anni, Jocelyn, figlia della Berry, nata durante il rapimento, la notte di Natale del 2006. [1]

Ariel Castro finisce in manette con l’accusa di rapimento e stupro. Rischia la pena di morte. I fratelli Pedro e Onil, 54 e 50 anni, sono prima fermati e poi rilasciati. «Non ci sono prove di un loro coinvolgimento», dice la polizia. [3]

Otto milioni di dollari la cauzione per Ariel Castro, ovvero due per ogni ragazza sequestrata, compresa la figlia. [4]

Amanda Berry era scomparsa il 21 di aprile nel 2003. «Ha appena finito il turno nel Burger King dove lavora, è felice pensa alla festa del giorno dopo, il giorno del suo compleanno: non spegnerà mai quelle candeline. Sua mamma, Louwana Miller, sera dopo sera per anni ha tenuto in ordine la cameretta, il letto fatto, i vestiti nell’armadio. Poi non ha più retto, muore nel 2006, “uccisa dal dolore”, dicono ora i parenti. La seconda ragazza Gina DeJesus ha 14 anni nel 2004, esce da scuola, saluta le amiche e si incammina da sola. I genitori la aspettano a casa per pranzare: non la vedranno più. Sua madre Nancy però non si è mai arresa. Quasi urla davanti ai giornalisti: “Io lo sapevo, lo sapevo che era ancora viva”». [5]

La terza ragazza è Michelle Knight. Quando è stata rapita aveva vent’anni e il tribunale dei minori le aveva appena sottratto la potestà sul bambino che aveva avuto tre anni prima. «Per un anno esatto è stata il solo bersaglio delle violenze del suo sequestratore, mentre fuori la mamma e la nonna si erano convinte che fosse scappata da Cleveland per un atto di ribellione. La stessa polizia cittadina diciassette mesi dopo la prima denuncia ha cancellato il suo nome dalla lista delle persone scomparse. Il suo aguzzino per fiaccarne la resistenza psicologica le ha mostrato più volte in televisione le veglie cittadine che i parenti di Amanda e Gina organizzavano a ogni compleanno, a ogni anniversario della scomparsa. Non c’era nessuno lì fuori a lottare in sua difesa». [6]

Michelle è l’unica delle tre costretta a rimanere in ospedale per alcuni giorni dopo la liberazione: ha timpani spaccati e la mandibola fratturata. [7]

«Sono un predatore sessuale, ho bisogno di aiuto, non so perché ne ho cercata un’altra visto che ne avevo già due in possesso. Sono qui per colpa loro, hanno fatto l’errore di salire in auto con uno sconosciuto» (da un biglietto del 2004 firmato Ariel Castro ritrovato nella villetta di Seymour Avenue). [4]

Racconta poi Michelle Knight all’Fbi: «Sono stata violentata subito, appena arrivata nella casa. Poi ancora, ancora. Sono rimasta incinta cinque volte e lui mi ha fatto sempre abortire. Mi ha tolto l’acqua e il cibo per due settimane, poi se non bastava mi riempiva di pugni. Colpi forte sullo stomaco e sulla pancia sino a farmi perdere il bambino». [4]

Castro è stato licenziato lo scorso novembre da autista di scuolabus per una serie di mancanze, tra cui l’utilizzo del mezzo per fare shopping. A parte il lavoro, suonava ogni tanto con il Fuego, band di musica latinoamericana, e con i Los Boy’z Del Merengue. [8]

Nel 1993 l’ex moglie Grimilda (morta due anni fa) lo accusa di percosse, poi ritira la denuncia. Nel 2005 Castro le spacca il naso, le lussa una spalla, le rompe costole e denti. Le sbatte la testa così forte su un tavolo da causarle un coagulo di sangue. E poi ancora, minaccia di ucciderla, la tiene segregata per giorni, cerca di rapire i figli. Lei confida al padre Ishmael: «Quando siamo fuori è un marito dolcissimo, poi quando la porta si chiude diventa un animale». [9]

Anthony Castro, il primogenito di Ariel, ha raccontato di aver lasciato la casa del padre, assieme alle tre sorelle, nel 1996 quando la madre decise di divorziare. Due settimane fa Anthony era stato a casa del padre e aveva notato che «in alcune stanze non si poteva entrare», ma ora confessa di non aver immaginato che dentro vi fossero delle persone prigioniere. [3]

Charles Ramsey, il vicino che ha trovato per primo la ragazza: «Vedevo questo tipo ogni giorno, abbiamo persino fatto i barbecue insieme qualche volta. Metteva su la musica e ballavamo un po’ di salsa. Mai visto niente di sospetto». Poi si lascia scappare una battuta da film: «Quando una ragazza bianca si butta tra le braccia di un uomo nero capisci subito che c’è qualche problema». [9]

Ogni anno negli Usa sono 90mila le persone di cui è denunciata la scomparsa. Nel 1980 erano 150mila. [10]

Nella villetta di 130 metri quadrati gli agenti dell’Fbi trovano catene pendenti dal soffitto, lacci simili a lunghi guinzagli, una piscina gonfiabile per far nascere i bambini (Castro non voleva che si sporcasse per terra), lucchetti alle porte. Amanda, Gina e Michelle vivevano in tre celle separate con feritoie per far passare il cibo. Potevano muoversi entro uno spazio limitato, ma appena facevano un passo in più erano le catene a bloccarle. La presenza di lacci «simili a guinzagli» fa ipotizzare altre forme di coercizione dei movimenti delle donne che «vivevano costantemente legate e stavano quasi sempre all’interno della casa» precisa il capo della polizia. Ariel Castro infatti consentiva solo «rare e improvvise uscite nel giardino sul retro della casa» che decideva in maniera da evitare sospetti nel quartiere. Nonostante tali e tante precauzioni in un caso un vicino vide, qualche anno fa, «una donna che camminava carponi nel giardino, completamente nuda». Chiamò la polizia ma l’accertamento non portò a nulla. [3]

«All’interno della casa, Castro aveva creato un sistema di porte chiuse da lucchetti: consentivano di isolare attico, garage e seminterrato potendo avere più ambienti dove detenere le sequestrate. Alcune di queste porte furono installate nel 2001, l’anno precedente alla scomparsa di Knight, la prima a essere rapita». [3]

Castro commemorava annualmente il giorno in cui ciascuna delle tre donne era stata rapita, preparando una torta per “festeggiare”. [11]

Jocelyn, la figlia di Amanda Berry, nei fine settimana visitava spesso la nonna paterna. [7]

Su un muro del sottoscala sarebbe stata trovata una scritta con un nome di donna seguito dalle parole “riposa in pace”. Si ipotizza si tratti di Ashley Summers, anche lei scomparsa nello stesso periodo delle tre e nella stessa zona. [10]

«Un rapimento innesca sempre dinamiche ambigue, confusioni di ruolo in uno spazio chiuso, un sovrapporsi di identità: è la sindrome di Stoccolma. Il carcerato non può più fare a meno del suo carceriere, ne diventa complice fino a far credere a quest’ultimo di essere ormai al sicuro da ogni ribellione. Ci si chiederà: possibile che in dieci anni non si sia mai presentata prima un’occasione giusta per scappare e chiedere aiuto? Giusta per chi? Per noi che ce lo domandiamo dopo? O per chi se lo chiedeva durante: forse ci avranno pensato ogni giorno, Michelle, Amanda e Gina, alla loro libertà. Forse no, forse la davano per persa definitivamente, forse fingevano di non desiderarla. Si può vivere per dieci anni dentro una casetta buia con l’ossessione costante di scappare? Forse. O forse no». [12]

(a cura di Luca D’Ammando)

Note: [1] Guido Olimpio, Corriere della Sera 8/5; [2] la Repubblica 8/5; [3] Maurizio Molinari, La Stampa 9/5; [4] Massimo Vincenzi, la Repubblica 10/5; [5] Massimo Vincenzi, la Repubblica 8/5; [6] Flavio Pompetti, Il Messaggero 11/5; [7] Alessandra Farkas, Corriere della Sera 9/5; [8] Maurizio Molinari, La Stampa 8/5; [9] Massimo Vincenzi, la Repubblica 9/5; [10] Angela Vitaliano, il Fatto Quotidiano 9/5; [11] Il Post 9/5; Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 8/5.