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 2013  maggio 11 Sabato calendario

FU L’ORO NERO A FERMARE IL TERZO REICH


[vedi appunti]

1. Siamo nel settembre 1938, allo stadio Zeppelin di Norimberga, con Hitler da cinque anni al potere. In questa mega adunata del Partito nazista si celebra, in una cerimonia di massa, la Grande Germania, l’annessione cioè dell’Austria alla nazione tedesca e il trasferimento dei simboli imperiali del Primo Reich, la corona, lo scettro, la spada e il globo terrestre da Vienna a Norimberga. Il passaggio del testimone al nuovo Reich, che sarebbe dovuto durare mille anni. Sovrastato da una gigantesca svastica dorata, fra le colonne di luce di 130 potenti fotoelettriche antiaeree, Hitler parlò, da un podio di marmo, a una folla esaltata: «Stiamo ricostruendo l’economia tedesca in modo che sia completamente indipendente da altre nazioni e possa stare in piedi da sola. Ci stiamo riuscendo. (...) L’idea di tagliare alla Germania le materie prime indispensabili con un blocco può essere adesso sepolta come un’arma inutile. Lo Stato nazista, con la forza che lo caratterizza, ha tratto le sue conclusioni dalla lezione della Grande Guerra».
E anche Hermann Göring, il potente capo della Luftwaffe – l’Aviazione tedesca – e responsabile del piano quadriennale per l’autosufficienza economica, poté vantare in quell’adunata oceanica i successi del nazismo; «Non saremo mai più costretti a sacrificare il nostro onore. Non sarà mai più possibile ridurre alla fame la nostra nazione e demoralizzarla con la propaganda. Quell’epoca è finita per sempre. Abbiamo cibo e materie prime a sufficienza, (...) siamo ben equipaggiati e ancora meglio armati. Abbiamo un potente Esercito, una grande Marina militare e la nostra Aviazione è la più moderna del mondo, la più avanzata tecnologicamente e la più numerosa».
Nonostante gli innegabili successi del nazismo nel ridurre la dipendenza della Germania dalle importazioni estere e nel dare nuovo impulso a un’economia prostrata dalla depressione degli anni Trenta, Hitler e Göring si sbagliavano. Specialmente su un punto: il petrolio. Cioè il carburante per mettere in moto quell’Esercito, quella Marina e quell’Aviazione di cui Göring si era tanto vantato. L’incubo dei blocchi navali e terrestri alleati che avevano costretto alla resa i tedeschi nella prima guerra mondiale, tagliando le materie prime essenziali allo sforzo bellico e poi anche il cibo, non era affatto svanito come pensavano le alte gerarchie naziste.

2. Il problema del petrolio era ben chiaro a Hitler che, ancora prima di diventare cancelliere, nel 1932, aveva incoraggiato una delle più grandi industrie chimiche tedesche a continuare nella produzione del combustibile sintetico, estratto cioè dal carbone. Agli alti dirigenti della I.G. Farben Hitler aveva garantito che una volta al potere avrebbe aumentato le tariffe doganali sulle importazioni di greggio per proteggere la più costosa benzina sintetica dalla concorrenza del petrolio naturale. All’epoca questo carburante era noto come Leuna-Benzin, dal nome del luogo dove sorgeva il più grande di questi impianti per la sintesi.
Il paradosso della Germania era, in poche parole, di essere ricchissima di carbone e quindi di poter alimentare una gigantesca industria, anche bellica, in grado di produrre decine di migliaia di veicoli, aerei, navi, carri armati e cannoni, ma di non aver il combustibile liquido per farli camminare. Le automobili, ma anche gli aerei o i carri armati non possono viaggiare a carbone. A meno di non utilizzarlo per estrarre, a costi elevati, un combustibile liquido. Negli anni Trenta l’energia che alimentava l’economia tedesca proveniva al 90% dal carbone e solo per il 10% dal petrolio. Ma il petrolio era essenziale per la mobilità. E sul petrolio e la sua vitale importanza Hitler aveva imparato anche un’altra lezione, che gli era stata fornita, involontariamente, da Mussolini. Nell’ottobre del 1935 l’invasione dell’Etiopia da parte delle truppe italiane stazionate nella vecchia colonia d’Eritrea aveva fatto scattare la condanna della Società delle Nazioni, l’istituzione antenata dell’Onu. Era stata avanzata anche la proposta di severe sanzioni. Fra l’altro anche la nazione aggredita, l’Etiopia, era un membro di questo organismo internazionale con sede a Ginevra. Sia gli inglesi che gli americani volevano includere il petrolio fra le materie prime da tagliare all’Italia. Poi per una serie di giochi politici non se ne fece niente. Nel maggio 1936 con la conquista di Addis Abeba l’Italia fascista proclamava l’impero. Qualche tempo dopo Mussolini, commentando con Hitler questa vicenda, confidò che se l’embargo petrolifero fosse stato approvato avrebbe dovuto ritirarsi dall’Etiopia dopo nemmeno una settimana dal blocco dei rifornimenti. Ovviamente Hitler prese nota di questa affermazione.
Il notorio piano economico quadriennale che, fra il 1936 e il 1940, doveva rendere autonoma la Germania grazie ai carburanti sintetici, in realtà si rivelò troppo ambizioso. E comunque Hitler non attese nemmeno il 1940 per scatenare la guerra. Nel 1939 i 14 impianti per il combustibile sintetico coprivano quasi il 46% dei bisogni petroliferi della Germania. E sei altri impianti erano in costruzione. E l’altra metà? Il regime nazista non poteva sicuramente contare sulle importazioni dagli Stati Uniti, allora il più grande produttore di petrolio, dal Messico o dal Venezuela. In Medio Oriente, all’epoca, si estraevano grandi quantità di petrolio solo in Iran, saldamente in mano agli inglesi. Una fonte di vitale importanza per i tedeschi e anche per gli italiani erano i ricchi pozzi romeni vicino a Ploiesti, con il regime del paese che poteva considerarsi amico della Germania nazista. E paradossalmente un’altra fonte di petrolio era l’Unione Sovietica di Stalin. Con il Patto Molotov-Ribbentrop del 1939, Hitler non si era soltanto assicurato la benigna neutralità di Stalin nelle sue banditesche scorrerie in Europa, ma anche cospicue forniture di petrolio. In cambio i sovietici avevano preteso la spartizione dei territori invasi, come la Polonia, e grossi quantitativi di macchinari industriali e di armamenti bellici. Le forniture sovietiche di petrolio alla Germania continueranno fino al 22 giugno 1941: il giorno dell’invasione nazista della Russia.

3. Anche se all’inizio del conflitto mondiale la situazione dei rifornimenti di petrolio sintetico e naturale poteva dirsi soddisfacente, la possibilità di una futura scarsità era tenuta ben presente sia da Hitler che dal suo Stato maggiore. Per evitare di cadere nella micidiale trappola della mancanza di carburante, la strategia adottata dalla Wehrmacht fu quella della guerra lampo.
Un’idea che aveva già sviluppato Federico II il Grande, per combattere contro più eserciti contemporaneamente, con risorse, in questo caso cibo per i soldati e foraggio per i cavalli, limitate.
Ovviamente, nella versione moderna il Blitzkrieg si svolgeva con attacchi rapidissimi di truppe corazzate, con la copertura massiccia dell’aviazione, per sfondare le linee nemiche e liquidare brutalmente le sacche accerchiate. Una strategia che, almeno in teoria, doveva portare a una vittoria rapida, prima che potessero sorgere problemi con il carburante.
E almeno nel primo anno e mezzo di guerra il Blitzkrieg sembra funzionare straordinariamente bene. Nel settembre del 1939 viene invasa e conquistata la Polonia. E nel 1940 è la volta della Norvegia, della Danimarca, della Francia, del Lussemburgo, del Belgio e dell’Olanda. Non solo: in queste fulminanti vittorie le truppe hitleriane si impadroniscono di depositi di carburante pieni fino all’orlo. Solo in Francia mettono le mani su 7 milioni di barili di benzina. In pratica il combustibile ottenuto come bottino di guerra è più di quello consumato dai panzer e dagli aerei nelle loro avanzate. Almeno in parte, la battaglia d’Inghilterra, cioè il tentativo di stroncare alla fine del 1940 la resistenza e il morale degli inglesi con massicci bombardamenti aerei prima di tentare un’invasione, avverrà grazie a questo carburante rapinato agli sconfitti. I nuovi territori portano alla Germania anche altri pozzi petroliferi. In Galizia, nella Polonia occupata, i nazisti riescono a controllare circa un terzo della regione petrolifera. I due terzi finiranno nelle mani dell’Armata Rossa secondo la spartizione delineata dal patto Molotov-Ribbentrop. In Francia i pozzi petroliferi di Pechelbronn, in Alsazia, vengono rapidamente riattivati dagli ingegneri tedeschi che riparano senza difficoltà i sabotaggi delle truppe francesi in ritirata. Ma si tratta di poche migliaia di barili. Una goccia nel mare, se si pensa che la Germania nazista si trova a fronteggiare le necessità energetiche di gran parte dell’Europa occupata. Un compito forse troppo grande, specialmente ora che i rifornimenti delle compagnie petrolifere inglesi o americane sono ormai tagliati. Se in tempo di pace l’Europa occupata aveva bisogno di 500 mila barili di petrolio al giorno, la Germania non ne ha a disposizione che 300 mila. E non c’è la pace, ma la guerra. Il che vuol dire moltiplicare i fabbisogni per due o per tre. I razionamenti non riusciranno a risolvere il problema. Come se non bastasse, l’entrata in guerra dell’Italia, nel giugno del 1940, invece di alleggerire lo sforzo dei tedeschi lo complica a dismisura. In pochi mesi il rapidissimo crollo delle armate italiane in Grecia, Jugoslavia e Africa costringe i tedeschi a nuove avanzate, per sostenere un alleato impreparato, mal equipaggiato e già a corto di carburante. Ma l’ubriacatura di vittorie ottenute nel primo anno e mezzo di guerra non permette a Hitler e ai suoi generali di sentire i primi scricchiolii. Tutto sembra facile e possibile. E lo spettro della scarsità di carburante sembra dimenticato. I pochi generali della Wehrmacht, come Georg Thomas, che si permettono di ricordarlo, cadono in disgrazia e vengono messi in disparte. E lasciata perdere l’idea di invadere la Gran Bretagna, Hitler prende, alla fine del 1940, la decisione che gli sarà fatale: attaccare l’Unione Sovietica.

4. Gli storici che hanno attentamente analizzato questa scelta la spiegano con diverse motivazioni. C’era l’odio personale di Hitler per Stalin, il disprezzo per gli slavi considerati una sottorazza come gli ebrei, il desiderio di gloria, il sentimento di invincibilità dopo le vittorie del primo periodo di guerra, il delirio sullo spazio vitale necessario al Reich dei mille anni. Tutti motivi sicuramente presenti nella decisione, ma insieme ad altri. Mentre la Germania invadeva mezza Europa, anche la Russia di Stalin, su scala minore, approfittava della situazione per qualche piccola azione banditesca e qualche invasione minore. Come quella contro gli Stati baltici o le regioni della Moldova e della Bucovina ai confini con la Romania. Specialmente quest’ultima annessione, non concordata con i tedeschi, aveva preoccupato Hitler. I campi petroliferi di Ploiesti si trovavano ameno di 200 chilometri dall’Armata Rossa. Un rischio inaccettabile per la maggior fonte di greggio naturale a disposizione del regime nazista. Anche se l’Urss continuava a rifornire puntualmente di petrolio la Germania nella patetica convinzione di tener buono Hitler, i piani dello Stato maggiore tedesco e del Führer erano ben altri. Uno degli obiettivi principali era il petrolio del Caucaso. Solo i pozzi di Baku, intorno al Mar Caspio, avrebbero risolto una volta per tutte i problemi di carburante del Terzo Reich, rendendolo inattaccabile.
Nel dicembre del 1940, con la direttiva 21, Hitler dà ufficialmente il via all’operazione Barbarossa, nome in codice dell’invasione sovietica. I preparativi, fra inganni, disinformazione, concentrazione di forze e rifornimenti, durano sei mesi. Stalin, nonostante gli avvertimenti che piovono da tutte le parti, dai servizi inglesi e americani, da vari governi e ambasciatori e dai suoi stessi agenti segreti, non vuole credere alla possibilità di un attacco tedesco. Nonostante che l’invasione sia stata ampiamente annunciata, l’Armata Rossa viene colta completamente di sorpresa. E nelle prime settimane che seguono quel fatale 22 giugno 1941 sembra che effettivamente i tedeschi possano ripetere il Blitzkrieg che li aveva portati a occupare mezza Europa. L’offensiva si articola in tre direzioni principali. Gruppo Nord verso Leningrado e la Finlandia. Gruppo Centro verso Mosca. Gruppo Sud verso il Caucaso e il Caspio.
A metà agosto cominciano a manifestarsi le prime difficoltà. La mancanza di strade asfaltate o comunque dalla superficie dura provoca un consumo di carburante molto più alto di quello previsto. Camion, carri armati e artiglierie semoventi sprofondano nel terreno o devono fare lunghi giri per avanzare di pochi chilometri. La benzina comincia a scarseggiare in varie zone dello sterminato fronte. A ciò si aggiunge la lunghezza delle linee di rifornimento, sottoposte, fra l’altro, ai sabotaggi e alle azioni di guerriglia sovietiche. Come se non bastasse, i depositi di carburante sottratti all’Armata Rossa si rivelano inutilizzabili. I veicoli sovietici hanno il motore diesel, quelli tedeschi vanno a benzina. In molti casi le truppe sono costrette a muoversi su carri trainati da cavalli. Ne vengono impiegati centinaia di migliaia. Ma questa scelta complica ancora di più la logistica perché adesso bisogna pensare anche al trasporto del foraggio. Infine, l’indecisione di Hitler: che prima ordina di conquistare Mosca, per poi puntare sul Caucaso e infine nuovamente su Mosca, fa perdere tempo e consumare carburante e mezzi. Mentre i rifornimenti e le parti di ricambio arrivano con sempre maggiori difficoltà, l’inverno blocca le armate tedesche a qualche decina di chilometri da Mosca. Ormai la terribile mobilità dei panzer tedeschi è scomparsa. Nel dicembre del 1941 le divisioni più avanzate nella zona moscovita devono anche subire i contrattacchi delle armate russe. E nemmeno nel Caucaso le truppe tedesche riescono ad avanzare. Anche qui i calcoli sbagliati sul consumo di carburante e la difficoltà dei rifornimenti su linee lunghe migliaia di chilometri immobilizzano le divisioni corazzate e motorizzate. L’inverno e la straordinaria resistenza delle truppe sovietiche fanno il resto. I russi perdono più di 6 milioni di uomini in questa prima fase della guerra, ma riescono a sostituirli e a mandare avanti nuove divisioni.
L’anno seguente, nella primavera del ’42, l’offensiva tedesca, per le gravi perdite di uomini e mezzi, non può più procedere su tre fronti. Hitler decide di concentrare lo sforzo sulle armate del Sud, nel tentativo di impadronirsi del petrolio caucasico che a questo punto diventa di vitale importanza. Naturalmente la conquista del petrolio del Caspio avrebbe tagliato le linee di rifornimento ai sovietici, lasciandoli a secco. La nuova offensiva, l’operazione Blau, sembra inizialmente dare i risultati previsti. I tedeschi in estate conquistano Rostov, tagliano un importante oleodotto che rifornisce i sovietici e il 9 agosto raggiungono Majkop, un centro petrolifero minore, peraltro distrutto completamente dai russi prima di abbandonarlo. A Berlino si crede ancora nella possibilità di un successo e si delira su un ricongiungimento delle armate del Caucaso con gli Afrika Korps di Rommel che proprio in quei mesi si giocano le ultime possibilità di raggiungere il canale di Suez e il Medio Oriente. Ma ormai la loro spinta si è esaurita. Nuovamente la mancanza di benzina fa svanire la mobilità delle divisioni tedesche, mentre la scarsità dei pezzi di ricambio mette fuori uso gran parte dei mezzi corazzati. Majkop si rivelerà l’unico pozzo conquistato nell’avanzata verso il Caspio. Nel frattempo, quella che doveva essere solo una manovra per proteggere il fianco delle armate in marcia verso i pozzi si trasforma nella battaglia principale, quella di Stalingrado, dove la Sesta Armata tedesca rimane accerchiata. Nel tentativo di impadronirsi del petrolio russo, i tedeschi sono rimasti senza benzina. Non arriveranno mai ai pozzi e alle raffinerie di Baku, il principale centro petrolifero caspico. Persino la Sesta Armata, circondata a Stalingrado, non riuscirà a rompere l’assedio per mancanza di carburante e dovrà arrendersi. Nel gennaio 1943 viene ordinato il ritiro di ciò che resta delle truppe tedesche e dei loro alleati, come molti reparti dell’esercito italiano, dal Caucaso. La fase delle guerre lampo è finita. Adesso le carte vincenti sono in mano a chi dispone degli eserciti meglio equipaggiati e più numerosi, e soprattutto delle risorse economiche e, ovviamente, del petrolio.

5. Non fu soltanto a Stalingrado e nel Caucaso che il carburante si rivelò uno dei fattori decisivi, se non il fattore decisivo, per gli esiti della guerra. Nei deserti del Nordafrica, in una striscia larga appena cento chilometri ma lunga migliaia, fra Libia ed Egitto, si svolse la seconda parte della tragedia. Nel febbraio del ’41, a nemmeno un anno dall’entrata in guerra, le truppe italiane sono già in rotta e ormai sopraffatte dagli inglesi. Per aiutare l’alleato allo sbando, i tedeschi inviano uno dei loro migliori generali, Erwin Rommel, e alcune fra le più moderne divisioni motorizzate e corazzate. La guerra del deserto, che seguirà nei due anni successivi, vedrà un alternarsi di avanzate fulminee e di ritirate, sempre scandite sul versante italo-tedesco dalle difficoltà di rifornire le armate del Nordafrica di ogni cosa, ma in special modo di carburante. Nelle prime fasi Rommel cattura vari depositi di benzina e mezzi militari al nemico e con questi riesce ad avanzare. Ma già a giugno il comandante degli Afrika Korps si lamenta della mancanza di combustibile: «Sfortunatamente», afferma, «le nostre scorte di carburante sono quasi esaurite ed è con qualche preoccupazione che attendiamo l’attacco degli inglesi. Perché sappiamo che le nostre mosse saranno dettate non dalle necessità tattiche, ma dal carburante che sarà rimasto nei serbatoi».
Uno dei principali problemi che affligge il rifornimento delle truppe di Rommel, a parte la cronica scarsità di carburante delle potenze dell’Asse, è una piccola isola nel Mediterraneo: Malta. Situata esattamente sulla rotta fra Sicilia e Libia, l’isola è in mano agli inglesi, che riusciranno, anche a costo di gravi perdite, a difenderla e a rifornirla per tutta la durata del conflitto. È da qui che in gran parte provengono gli attacchi aerei e navali contro i convogli e le navi cisterna italiane. Non solo. Gli inglesi hanno anche decifrato i codici segreti dei nazisti e dei fascisti e quindi individuare le navi che trasportano rifornimenti non è davvero molto complicato. Come ha scritto uno storico del secondo conflitto mondiale: «Se gli italiani fossero stati giapponesi avrebbero aperto le ostilità con un attacco "alla Pearl Harbor" su Malta». Ma gli italiani non sono giapponesi, né hanno la minima intenzione di esserlo. E Londra continua, con maggior o minor successo, a distruggere navi militari e da trasporto italiane.
Per gran parte del 1941 Rommel deve segnare il passo, i rifornimenti arrivano con il contagocce. Nei momenti più difficili gli italiani pensano addirittura a trasportare il combustibile travasato in taniche sistemate a bordo di sommergibili e navi militari. Poi, verso l’autunno, grazie a violentissimi bombardamenti tedeschi su Malta, una flotta della Luftwaffe viene spostata dalla Russia in Sicilia e il flusso dei rifornimenti arriva quasi intatto nei porti di Tripoli e Bengasi. L’offensiva di Rommel ricomincia e nel maggio del ’42 ha inizio il grande attacco contro gli inglesi. Come sempre accade ai blitz tedeschi, in un primo tempo tutto sembra andare per il meglio. Gli inglesi si ritirano per quasi 500 chilometri, mentre Rommel raggiunge il confine con l’Egitto. Qui secondo i piani si sarebbe dovuto fermare e attendere che fosse risolto il problema dei rifornimenti. Cioè avrebbe dovuto aspettare che Malta fosse neutralizzata con un’invasione che peraltro era stata da tempo programmata. Ma sull’onda delle vittorie così rapidamente riportate, il problema dei rifornimenti e di Malta passa in secondo piano. E Rommel si spinge ancora avanti, ormai in Egitto, fino a una piccola stazioncina ferroviaria: El Alamein.
Ormai ubriacati dai successi, tedeschi e italiani preparano l’entrata da vincitori al Cairo. Mussolini progetta un ingresso trionfale in sella a un cavallo bianco. Rommel sogna un attraversamento del Canale di Suez e una rapida conquista del Medio Oriente, dell’Iran e dei suoi pozzi, per ricongiungersi alle armate tedesche del Caucaso. Un delirio, appunto. Gli Afrika Korps non riusciranno ad andare oltre la stazioncina dei treni. Il vento in Africa, come nel Caucaso, nell’estate del’42 è cambiato. Non spira più a favore dei tedeschi. La situazione dei rifornimenti diventa drammatica già a inizio stagione. Manca il combustibile anche per far navigare le navi italiane. Una su tre rimane in porto con i serbatoi a secco. E di quelle che partono con i rifornimenti per Rommel tre quarti vengono affondate dall’Aviazione o dalla Marina inglesi. La Luftwaffe non ha più combustibile per far volare i propri aerei e ormai il dominio dei cieli è degli alleati. È in questo frangente che entra in scena un nuovo generale inglese: Bernard Montgomery. E il comandante dell’Ottava Armata sa che il punto debole di Rommel è il carburante. Nonostante che nel 1942 la produzione di benzina sintetica sia aumentata del 18% rispetto all’anno prima, il quadro complessivo dei rifornimenti petroliferi tedeschi è peggiorato. Il regime romeno di Antonescu ha ridottole forniture del greggio di Ploiesti. I consumi interni sono aumentati e il petrolio destinato a tedeschi e italiani è diminuito del 17% fra il ’41 e il ’42. La Germania hitleriana non ha abbastanza carburante, tanto meno gli alleati. È in questo quadro generale che si comprendono meglio i vani tentativi di Rommel che nel settembre 1942 vola prima a Roma da Mussolini e poi a Berlino da Hitler per implorare l’invio di carburante. Riceverà il bastone di maresciallo del Reich, ma non la benzina. Un ultimo disperato tentativo di rifornire le truppe corazzate bloccate a El Alamein viene fatto da un convoglio di navi italiane che miracolosamente riesce a eludere la consueta trappola tesa dalle forze inglesi stazionate a Malta. La nave cisterna Prosperina, con 25 mila barili di benzina e altri due mercantili con 12 mila barili ciascuno, scortati da quattro incrociatori, riescono ad arrivare di fronte al porto di Tobruk. È l’ultimo tentativo per gli Afrika Korps. Ma al tramonto uno stormo di bombardieri inglesi partiti dal Cairo intercetta il convoglio ormai quasi in porto e colpisce le navi. L’ultima speranza di Rommel finisce in fumo. Come disse lo stesso generale tedesco dopo la sconfitta, in quella che venne chiamata la seconda battaglia di El Alamein: «Non potemmo tentare alcuna manovra con le nostre forze motorizzate e corazzate per mancanza di combustibile, ogni goccia che ci arrivava dovevamo usarla per ritirarci».

6. Naturalmente anche le forze anglo-americane e sovietiche avevano i loro problemi con i rifornimenti. Ma la situazione era completamente diversa. Perché gli alleati avevano il petrolio; in particolare l’America, che in quell’epoca divenne una specie di Arabia Saudita, in grado di rifornire gli alleati del petrolio necessario. Circa il 90% del carburante usato dalle forze alleate nella seconda guerra mondiale proveniva dagli Stati Uniti. L’America di Roosevelt rifornì, in particolare di benzina per l’Aviazione, anche la Russia che pur aveva una produzione propria di grandi dimensioni. L’unico vero grave rischio non venne dalla mancanza di petrolio, ma dal suo trasporto. La traversata dell’Atlantico si rivelò particolarmente vulnerabile agli attacchi dei sottomarini tedeschi, il cosiddetto branco di lupi dell’ammiraglio Karl Dönitz. Nei primi tre anni di guerra gli U-Boot nazisti affondarono centinaia di navi e in particolare quelle cisterna e le petroliere. La Gran Bretagna si trovò in più occasioni con riserve di combustibile ridotte a poche settimane. Ma poi grazie all’uso dei primi radar, di aerei a lungo raggio in grado di scortare i convogli e proteggere le petroliere, la minaccia dei sottomarini venne a poco a poco neutralizzata.
A metà del 1943 le forze dell’Asse erano state sconfitte sia in Russia che in Africa. E anche nell’Atlantico. La Germania si trovò a fronteggiare l’ultima fase della guerra con le proprie risorse: il petrolio sintetico estratto dal carbone. In questo ultimo sforzo il regime hitleriano mostrò al tempo stesso le proprie straordinarie capacità tecnologiche e la più completa e criminale bancarotta umana e morale.
L’uomo che riorganizzò l’economia tedesca per l’ultima fase di resistenza fu Albert Speer. L’architetto personale di Hitler che nel ’38 aveva disegnato le grandiose scenografie dello stadio di Norimberga dove il Fuhrer aveva proclamato, illudendosi, l’indipendenza economica ed energetica della Germania.
Albert Speer si rivelò un manager capace di spingere al massimo la macchina bellica tedesca. La produzione industriale continuò ad aumentare, nonostante i massicci bombardamenti alleati, e raggiunse paradossalmente il massimo nel luglio del ’44: un mese dopo lo sbarco alleato in Normandia. Quell’anno la produzione di aerei, armi e munizioni era stata moltiplicata per tre e quella dei carri armati per sei, in confronto al primo anno di guerra. Ma il problema più serio non era fabbricare più mezzi. Le industrie funzionavano benissimo con il carbone: il problema era metterli in moto e per farlo ci voleva la benzina. Nel ’44 il petrolio sintetico costituiva ormai il 60% dei consumi tedeschi e ben il 92% del combustibile per gli aerei. La massima produzione giornaliera raggiunse i 125 mila barili nei primi mesi dell’anno, a un costo umano inimmaginabile. I nazisti, infatti, non avrebbero potuto ottenere questi risultati senza uno sforzo enorme e l’impiego di schiavi. L’aberrante ideologia della «soluzione finale» forniva ai tedeschi la forza lavoro necessaria. Ebrei, ma anche slavi e uomini e donne di altre minoranze etniche destinati alla morte nei campi di concentramento, venivano sfruttati, prima di essere uccisi, come lavoratori nelle grandi fabbriche della benzina sintetica. Auschwitz, dove più di due milioni di ebrei trovarono la morte, venne descritta dai direttori della I.G. Farben, il colosso chimico integrato nello Stato nazista, come un sito molto favorevole alla produzione di benzina sintetica, grazie alle ricche e vicine miniere di carbone e a una numerosa «manodopera». La I.G. Farben si adattò perfettamente alla gestione dei campi organizzata dalle SS. Poiché la fabbrica era distante 6 chilometri da Auschwitz i deportati arrivavano sfiniti dopo queste marce quotidiane e lavoravano male. L’industria decise allora di costruire una dépendance del campo di concentramento più vicino agli impianti: il lager di Monowitz.
Il prigioniero numero 174.517 di Monowitz era un giovane italiano, un chimico, originario di Torino: Primo Levi. Forse proprio la conoscenza della chimica gli permise di salvarsi, perché venne assegnato a un laboratorio dove le condizioni di vita, per quanto infernali, non erano rapidamente mortali come negli impianti veri e propri. Così Primo Levi ricorda in Se questo è un uomo quella gigantesca fabbrica di benzina sintetica: «Al suo interno non cresce un solo filo d’erba, e il suolo è impregnato dalle linfe velenose del carbone e del petrolio, e l’unica cosa viva sono le macchine e gli schiavi, le prime più dei secondi». Nel 1944 più di un terzo della forza lavoro nelle fabbriche della benzina sintetica erano schiavi.
Una delle cose più straordinarie nella storia della benzina sintetica tedesca è quanto gli impianti siano riusciti a sopravvivere ai sempre più massicci bombardamenti alleati. Fino al maggio del ’44, infatti, non furono un loro obiettivo principale. Le grandi flotte alleate preferivano le ferrovie, le fabbriche di aerei e di armamenti e di cuscinetti a sfera. Oppure le città, per demolire il morale e la resistenza dei tedeschi con il terrore. Le fabbriche di benzina sintetica furono danneggiate solo casualmente fino al 12 maggio ’44, quando il generale americano Carl Spaatz, capo dei bombardamenti strategici, decise che era ora di colpire il regime nazista nel suo punto più debole: il carburante. Mille bombardieri americani rovesciarono il loro carico su quasi tutti gli impianti, compreso quello principale di Leuna. «Non scorderò mai quella data, 12 maggio 1944», scriverà Albert Speer che volò immediatamente a Leuna a constatare di persona i danni,«perché fu quel giorno che la guerra tecnologica venne decisa». I bombardamenti continuarono e a settembre di quello stesso anno la produzione di benzina sintetica precipitò a 5 mila barili al giorno, dai quasi 130 mila di appena tre mesi prima. Nonostante la situazione ormai catastrofica, l’esercito tedesco fu in grado di racimolare il carburante per un’ultima disperata controffensiva: fermare le truppe alleate che avanzavano dopo lo sbarco in Normandia. Con la fine della battaglia delle Ardenne di dicembre lo sforzo bellico tedesco, da un punto di vista strategico, era finito.
Nel febbraio 1945 la Germania non riuscì più a produrre benzina sintetica in quantità significative. L’illusione di poter ancora rovesciare le sorti del conflitto continuò ad animare Hitler e la cerchia più ristretta dei suoi collaboratori. Ma ormai gli ordini a divisioni di carri armati o squadriglie aeree erano solo fantasie. Nessuno si poteva più muovere per mancanza di carburante. Altri mesi di sanguinosa resistenza all’avanzata di angloamericani e sovietici continuarono sia all’Est che all’Ovest. E solo quando i soldati russi furono a poche centinaia di metri dalla rovine del palazzo della cancelleria, Hitler si arrese alla realtà e capì che l’avventura del Terzo Reich che doveva durare mille anni si era conclusa per sempre.
In quegli ultimi momenti fu ancora possibile trovare qualche litro di benzina per bruciare il cadavere del dittatore suicida e non farne cadere nemmeno le spoglie mortali nelle mani dei sovietici.

* Tratto da Limes, Quaderno speciale «Il clima del G2», n. 3/2009, pp. 97–106.