Margherita Paolini, Limes, 2/2012, 11 maggio 2013
GREGGIO E TRIBÙ
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1. La crisi libica non poteva capitare in un momento peggiore del mercato energetico: volatilità e premi di rischio sono eufemismi. Alla speculazione sul barile elettronico che è stata una leva pesante per sollevare al di sopra della soglia di accettabilità le quotazioni dei greggi si aggiunge la percezione fondata di una precaria disponibilità fisica di risorse. Tutto il sistema degli approvvigionamenti si sta rivelando fragile. Il termometro geopolitico del mercato guarda alla Penisola Arabica, all’annessione di fatto del Bahrein da parte della casa Saud, che ormai scricchiola da tutte le parti.
Intanto i sauditi aumentano le perforazioni petrolifere per tenere in piedi il mito della loro extracapacità, che ne fa una icona di riferimento per i paesi consumatori. L’altro mito di casa Saud, quello di custode dei luoghi santi dell’islam, è saltato quando Riyad ha riaperto la fitna storica tra sciiti e sunniti. Un errore strategico gravissimo che acuisce la crisi irachena e attizza focolai di estremismo religioso alle periferie e all’interno stesso del regno saudita.
Da qualunque angolo si cerchino di valutare le fibrillazioni del mercato, il termometro rileva una soglia di pericolo. La guerra di Libia è un indicatore occulto e al tempo stesso drammatico di questo clima. Il mercato energetico, in piena fase di trasformazione, è ormai orientato alla ricerca di prodotti più che di greggio, per la scarsità di raffinerie che trattino il petrolio pesante, ormai l’unico disponibile in buone quantità. Il consumo di gas risale per far fronte ai fabbisogni di elettricità che la tragedia del nucleare giapponese ha messo in crisi. Sono le norme antinquinamento che lo pretendono sui mercati occidentali, ma anche la Cina ne tiene conto. È un cambiamento irreversibile nel medio termine.
Immersa in questo scenario, la crisi libica ha finito per assumere più importanza del previsto. Gli appetiti scatenati dalle risorse di petrolio leggero e di gas di quel territorio sono la spia del cambiamento in corso. Partita su un binario più o meno ambiguo, la rivolta cirenaica aveva comunque spunti autentici, legittimi. Gli interessi esterni a favorirla erano comprensibili. Poi tutti i nodi sono venuti al pettine e sono nuovamente scattati i meccanismi perversi di re petrolio. La Libia ha 60 miliardi di barili di riserve provate di greggio (la Bp, che in genere è attendibile, ne dichiara solo 41) e 1.500 miliardi di metri cubi di gas naturale, che potrebbero rivelarsi il doppio. L’80% delle risorse si trova nella parte orientale del paese, onshore e offshore. Questi sono i numeri che contano.
2. La vicenda delle sanzioni che devono impedire a Gheddafi di continuare a disporre di liquidità sulla rendita petrolifera per comprare armi e assicurarsi il favore di clan e tribù ha risvolti interessanti. Sono gli Usa i più solerti a imporre le sanzioni, seguiti con molta riluttanza dagli europei. I quali ora, fatta la legge e scoperto l’inganno, si adeguano.
Il dipartimento del Tesoro Usa, attraverso il suo Office of Foreign Assets Control (Ofac), si rivela molto accurato nell’individuare tutte le possibili filiere afferenti alla National Oil Corporation (Noc), la compagnia petrolifera di Stato libica. Dando seguito alla disposizione esecutiva (Executive Order) 13566 di Obama, dal 22 marzo sono passibili di sanzioni tutte le società che avranno rapporti con la Banca centrale libica, con il Fondo sovrano libico (Lia) e con la Noc. Insieme alla Noc, vengono coinvolte le 14 società affiliate o associate o di servizio, incluse quelle attive nella Sirte orientale come la Waha Oil (operatore americano-libico di quattro società Usa) e la Arabian Gas & Oil Co. (Agoco), che si schiera subito con i ribelli. La Agoco continua a inviare verso la costa quanto più petrolio può, tramite l’oleodotto che collega Sarir, il più grande giacimento libico, con il terminale di Tobruk. Il petrolio viene in parte stoccato nei depositi del porto. Come ammette la stessa Agoco, diversi traders, per conto raffinatori o delle stesse compagnie petrolifere titolari di concessioni nel bacino orientale della Sirte, hanno effettuato ripetuti carichi. È il motivo per cui il cancelliere tedesco Angela Merkel, che applicando le sanzioni sa di penalizzare pesantemente la tedesca RWE, accusa alcuni colleghi europei di fare il doppio gioco.
La vicenda dei ritiri di petrolio libico per conto di compagnie europee in regime di sanzioni è alla base anche delle lamentele di Paolo Scaroni. L’amministratore delegato dell’Eni è già furibondo per i presunti sporchi giochi della Total, favorita dalla scelta di campo francese a fianco dell’insurrezione cirenaica. In due lettere indirizzate al segretario di Stato Usa Hillary Clinton e al «ministro degli Esteri» europeo Catherine Ashton, Scaroni sostiene la necessità di continuare a pompare gas per far fronte ai fabbisogni di energia elettrica. Alla fine, nella lista nera europea degli enti sotto sanzioni, pubblicata il 23 marzo, non figurano tutte le 14 società libiche che compaiono nella lista del Tesoro Usa.
C’è un passaggio illuminante nell’atto emesso dall’Ofac: «Nel caso che associate o società di servizi della Noc cambino di proprietà e controllo, il Tesoro potrà autorizzare trattative con tali Entità». Presto detto, presto fatto. Anzi, già fatto. Tre giorni prima (19 marzo), il Consiglio nazionale di transizione (Tnc), l’organo di coordinamento dei ribelli della Cirenaica, si riunisce a Bengasi per prendere importanti decisioni. Anzitutto la liquidazione definitiva di Gheddafi, sancita dalla messa a punto del rapporto sui crimini commessi dal colonnello contro il popolo libico. Ciò ai sensi della risoluzione Onu 1973. L’obiettivo è spedire Gheddafi davanti alla Corte penale internazionale. Mossa inizialmente volta a escludere trattative col regime. Qualunque forma di esilio non metterebbe il colonnello al riparo dall’estradizione. Non bisogna lasciargli vie di uscita.
Liquidato il tiranno, si libera la Libia, a cominciare dallo sdoganamento delle sue risorse. Nella stessa riunione del 19 marzo passano altre decisioni cruciali. Tempestiva e lapidaria quella di istituire, con sede temporanea a Bengasi, una authority competente in politica monetaria. Si nomina anche il governatore della Banca centrale di Libia, sempre con sede temporanea a Bengasi. Il secondo passo, contestuale, è l’istituzione della Libyan Oil Company come authorithy incaricata di sovraintendere a tutte le attività di politica e produzione petrolifera del paese, a cominciare dalle aree sottratte al controllo del regime di Gheddafi. Sicché le compagnie libiche emancipate dal controllo del regime possono già operare in una parte cospicua del bacino orientale della Sirte. Se e quando sarà recuperato il tratto di costa tra Zawaytina e al-Sidra, la gran parte della produzione potrà essere indirizzata ai quattro grandi terminali di esportazione di petrolio e a quello di gnl di Marsa al-Burayqa (Brega). Ammesso che alcune delle companies titolari delle concessioni nella Sirte orientale, come la Shell, la Exxon e le quattro sorelle americane ConocoPhillips, Marathon, Hess e Oxidental (di cui è operatrice la Waha Oil) diano una mano, la nuova Libyan Oil potrebbe in breve tempo riportare la produzione da 100 mila a 400 mila barili/giorno.
Dal cappello del Consiglio nazionale di transizione esce il personaggio adatto a trattare questo genere di attività: ’Ali Tarhuni, esponente dell’opposizione rientrato dall’esilio negli Stati Uniti, dove faceva il professore universitario e si era distinto per le critiche alla lobby petrolifera Usa pro Gheddafi. Tarhuni, appena nominato responsabile delle Finanze dal Consiglio di Bengasi, ha idee chiare sulla politica petrolifera e finanziaria: ottenere crediti grazie alle garanzie degli asset del Fondo sovrano libico congelati nelle banche estere. Anche se, assicura Tarhuni spavaldamente, «non abbiamo problemi di liquidità, siamo ben messi quanto a riserve in valuta estera».
La Francia potrebbe essere il primo cliente della Libyan Oil, visto che si è affrettata a riconoscere il Consiglio nazionale di transizione. Ma darebbe così corpo ai sospetti che aleggiano sulla Total. Invece, appena il 25 marzo i ribelli conquistano nuovamente Ras Lanuf (per poi riperderlo pochi giorni dopo, in un fronte estremamente mobile), il centro più importante per l’esportazione petrolifera dalla Libia, ecco comparire un server di eccezione: la compagnia nazionale Qatar Petroleum è disponibile a commercializzare tutto il greggio libico (e anche il gnl) che potrà essere esportato dai terminali della Sirte. Per aiutare le popolazioni locali. Non si capisce bene se questo intermediario di rango possa favorire o meno i traders francesi, ma è certo che il Qatar, grazie ai rapporti con i suoi clienti europei (specialmente inglesi), rappresenta un garante prezioso sia per il venditore libico che per gli acquirenti. Anche perché ha riconosciuto il Consiglio di Bengasi «come solo rappresentante legittimo del popolo libico».
3. Restano molti punti interrogativi sul decollo dell’operazione nelle dimensioni previste.
Il primo dubbio è se vi siano tecnici espatriati pronti a riprendere le attività nei bacini della Sirte orientale, che presentano tuttora dei rischi. Visto che ci sono sul territorio molti aspiranti al godimento della rendita petrolifera, al di là delle aree controllate dalle tribù dell’interno della Cirenaica. Le potenti tribù centrali della Sirte, anche quelle rimaste passive o che hanno appoggiato la rivolta contro Gheddafi, non intendono restare fuori dagli affari importanti. E quelle che ne erano state escluse dal colonnello ora vogliono entrarci. Una cosa è controllare la costa, altra è controllare lo sfruttamento dei giacimenti di cui i leader tribali sono custodi gelosi e bussinesmen cointeressati.
Il secondo problema è che la produzione della Sirte viene anche dall’entroterra a sud di Ras Lanuf. Qui si entra in un altro dominio di tribù, diverse da quelle della Sirte orientale, tradizionalmente cointeressate nelle attività dei terminali cui afferiscono gli oleodotti provenienti dai giacimenti. E ai primi di aprile, con la perdita di Ras Lanuf da parte dei ribelli, la neonata Libyan Oil si trova costretta a ridimensionare i suoi piani.
Dato che non può riconquistare tutta la Cirenaica, Tripoli deve controllare a tutti i costi gli impianti che garantiscono i due terzi delle esportazioni dai bacini della Sirte. Determinazione condivisa da gran parte degli inquilini di quel territorio. I quali, se forse non vogliono più Gheddafi, non sembrano comunque disponibili a tollerare l’egemonia di Bengasi, non essendo chiari i benefici che ne ricaverebbero. Anche perché i ribelli hanno ripetuto che per loro la Cirenaica arriva amministrativamente fino a Ras Lanuf. Alcuni leader della potente tribù dei Warfalla, una delle più grandi della Libia, hanno detto che vogliono tornare al più presto ai loro affari: «Quella gente dell’Est qui non è benvenuta, se vengono li combatteremo». Vero o no, la battaglia dei terminali non è finita: da Ras Lanuf ad al-Sidra, dove si trovano la maggiore raffineria e il porto petrolifero più capiente del paese, passa lo spartiacque tra le due Libie che si vanno configurando. Non sarà facile rimettere insieme il mosaico libico, ricco di interessi diversi, locali ed esterni. Nemmeno dopo l’uscita di scena del colonnello sarà facile in tempi brevi ribaltare le regole del sistema che lo ha tenuto al potere con la sua personale, egoistica ma clientelare pratica di welfare.
Quanto al Consiglio nazionale di transizione, ha molte facce. Ce ne vengono di norma mostrate quelle più accettabili per la nostra mentalità. Dietro, una nebulosa che solo la percezione locale è in grado di decodificare. Specialmente quando cela forme di estremismo che possono trovare slancio nel combattimento.
Ne sa qualcosa l’ammiraglio comandante della Nato in Europa, James Stavridis, quando riferisce al Senato Usa che rapporti di intelligence confermano la presenza di gruppi jihadisti tra le forze anti-Gheddafi. Meglio evitare di distribuire armi che potrebbero rafforzarli a scapito degli altri protagonisti della rivolta cirenaica.
4. Nell’attesa della riunificazione della Libia, c’è chi si esercita a immaginare quale potrebbe essere la redistribuzione delle carte petrolifere sul territorio. La situazione pare in stand by nel settore occidentale. Con qualche manovra prudente nel settore orientale, supponendo che la giostra dei terminali trovi un equilibrio.
Qui, in posizione strategica a ridosso di Tobruk, e legittimata dalla concessione di cui dispone, si trova la Total. Ben piazzata vicino al rubinetto della condotta che proviene dal giacimento Sarir. La Total è stata in ottimi rapporti con Gheddafi. Infatti ha ottenuto anche un’ottima postazione agganciata ai giacimenti offshore della Tripolitania assegnati all’Eni, di cui forse ha invidiato le fortune produttive e l’operazione che ha portato alla costruzione del gasdotto verso l’Italia. Da qualche tempo Parigi ha mandato le compagnie francesi a caccia di gas per compensare l’eccessiva dipendenza dal nucleare nella produzione di energia elettrica. Il parco degli impianti atomici deve essere rivisto. Anche i reattori di terza generazione sono già superati per costi e tecnologia. Nel riposizionamento verso la quarta generazione, prevista a partire dal 2020, serve molto gas naturale. Dunque il capitale di gas della Libia, e non solo il suo petrolio leggero, è molto attraente.
Lo stesso vale per gli altri europei, che però si trovano in posizioni molto più scomode. Per la RWE tedesca, tutta schierata in Cirenaica, non tira bel tempo, visto come la Merkel ha scelto di gestire la crisi libica. Quanto alla Repsol spagnola, che fino all’ultimo, come l’Eni, ha cercato di tenere i motori accesi, le concessioni cogestite con la OMV austriaca nell’offshore del Golfo della Sirte e nel bacino di Murzuq sono promettenti ma molto impegnative. Richiedono dunque referenti locali certi e affidabili. E proprio sul Golfo della Sirte, di fronte a Bengasi, troviamo la megaconcessione della Bp. La compagnia storica che scoprì Sarir all’epoca del re senusso è tornata in Cirenaica, ma solo sulla carta. È alla ricerca di giacimenti molto interessanti, cui ha dedicato investimenti importanti che riguardano anche concessioni nell’area di Gadames, nel Fezzan. La Bp ha ritardato per un anno l’avvio dei lavori adducendo vari motivi tecnici e deludendo la Noc, che dalle attività della compagnia inglese aspettava un bell’incremento delle riserve, specie di gas. Il valore dei giacimenti ipotizzati, soprattutto offshore, dovrebbe giustificare ad abundantiam i 900 milioni di dollari di investimento.
La trattativa iniziata fin dal 2007 tra Blair e Gheddafi comprendeva anche il rilascio per «ragioni umanitarie» del terrorista libico ’Abd al-Basit ’Ali al-Miqrahi, condannato all’ergastolo per l’attentato di Lockerbie. Il quale nel 2009 venne infatti liberato dalla Scozia, su pressione di Londra, aprendo la strada alla conclusione dell’affare petrolifero. E così facendo imbestialire l’amministrazione Usa. L’attentato di Lockerbie, che la signora Clinton rispolvera oggi per incastrare Gheddafi, rischia di evocare anche il fantasma di Blair, che fabbricò ad hoc la storia di al-Miqrahi detenuto moribondo eppure tuttora vivente. Ma per Gheddafi al- Miqrahi era una carta importante da giocare nei rapporti con la potente tribù da cui proveniva. Per non far scadere i suoi asset, la Bp li ha rinverditi nel 2010, evitando di spendere soldi ma sedendosi sulle future riserve. In attesa che i tempi maturino nel senso auspicato è tornata intanto in Algeria annunciando che non ha più intenzione di cedere alla Tnk-Bp di matrice russa le sue concessioni sahariane, anzi di volerci lavorare. Si vede che ha avuto degli sconti sui debiti accumulati per il disastro Macondo nel Golfo del Messico. La prudenza mostrata dalla Bp nell’operare a breve sul terreno libico era stata condivisa nel dicembre scorso anche da alcune compagnie Usa, tra cui Oxidental e Chevron, che avevano dichiarato di non voler rinnovare gli impegni di investimento per scarsità di ricavi.
5. In effetti, tra il 2009 e il 2010 sono intercorsi alcuni cambiamenti nella politica energetica libica. È stato creato un Consiglio supremo per gli Affari energetici, presieduto dal primo ministro al-Mahmudi al-Bagdadi, incaricato di sovraintendere ad operazioni complementari di sviluppo del settore gas e di quello petrolifero. Di fatto, tale organo è un alter ego più rigido della Noc. Lo conferma il caso della compagnia canadese Verenex, cui è stato impedito di vendere i suoi asset alla compagnia cinese Cnpc per costringerla a trasferirli al Fondo sovrano libico a due terzi del prezzo offerto dalla Cnpc. Si vociferava poi di far operare le compagnie non più sulla base di contratti di servizio ma di exploration and production-sharing agreements (Epsa-4). L’idea è di garantirsi un vice libico nelle società miste e di attribuire maggiori quote alla parte libica nei nuovi contratti Epsa. Eni, Repsol e RWE hanno accettato e le altre compagnie si sono adeguate. Ma l’Eni si è presa una lavata di capo dall’amministrazione Usa per essere stata troppo condiscendente e avere così indebolito il fronte delle Big Oil, le grandi compagnie petrolifere. Exxon e Royal Dutch Shell (anglo-olandese) si sono adagiate sulle loro concessioni. La Shell si è accomodata sulle riserve soprattutto di gas del retroterra di Brega, servito da una rete di gasdotti e dal terminale di esportazione del gas. La Exxon sulle riserve possibili del retroterra della Cirenaica, estensione dei giacimenti del bacino meridionale. Ma la Exxon ha anche scommesso su un’ampia fascia del retroterra della Tripolitania.
Le Big Oil puntano sulla possibilità di trovarsi di fronte a interlocutori più deboli e quindi più disponibili. E magari in concorrenza tra loro. Per il mercato petrolifero mondiale sarebbe auspicabile una soluzione della crisi libica «alla curda», con le companies che strappano condizioni favorevoli. L’importante è portare sul mercato dei raffinatori quanto più petrolio libico leggero, per facilitare il brend con il petrolio pesante di cui c’è ancora una extracapacità disponibile. Poi seguirà il gas, visto che le sue quotazioni hanno ripreso lentamente a risalire, dopo un lungo periodo di stasi.
Per altri operatori non è cosi. C’è chi va già riorientando le sue ricerche a medio termine di gas e petrolio verso altri paesi, comunque difficili, sperando di recuperare un giorno i propri investimenti. Con il rimpianto di lasciare un territorio che ha grandissime risorse da sfruttare e molte altre da esplorare. Il cui costo a barile estratto, di ottima qualità, è molto più basso rispetto ad altre aree, comparabile solo con quello estratto nel Sud dell’Iraq.
Tra gli operatori che trovano maggiori difficoltà a restare in Libia spiccano quelli dei paesi che Gheddafi ha evocato ultimamente come fidati clienti cui affidare le concessioni da togliere ai «traditori europei»: russi, cinesi, brasiliani, indiani. I cui governi si sono astenuti sulla risoluzione Onu che ha dato il via all’attacco alla Libia e non condividono le modalità con cui viene trattata questa crisi. Già solo per questo non sono ben visti, più che dai libici, dai protagonisti esterni di questa campagna militare. Certo è che le grandi companies americane ed europee – in sintonia con i rispettivi governi – desiderano liberarsi della concorrenza «sleale» di cinesi e russi. I quali hanno sempre trattato con Gheddafi sulla base di rapporti speciali (Mosca grazie alle forniture militari), sfuggendo così alle maglie rigide dei contratti Epsa. Quando i termini contrattuali venivano giudicati eccessivi e la company minacciava il ritiro, il ricatto della Noc era quello di passare la concessione ai cinesi, subito disponibili a saltarci sopra.
Negli ultimi due anni la Cina, che ancora non produce, è diventata il terzo acquirente di greggio libico (11%), con tendenza a crescere, dopo la Francia (15%) e l’Italia (24%), erodendo gli spazi degli importatori europei (anche se copre appena il 2% del suo fabbisogno). Per di più, dal 2009 la Cina è diventata il massimo partner commerciale della Libia. Quando sono iniziati i bombardamenti aveva 50 progetti sul campo per 18,8 miliardi di dollari. Tanto che Pechino ha dovuto mandare navi militari e aerei di trasporto per evacuare i 36 mila cinesi presenti sul territorio. Per altre ragioni, connesse alla penetrazione della Cina dalla Libia verso l’Africa subsahariana, a Parigi e a Washington l’uscita di scena di Cnpc, Cnc, Sinopec e dei costruttori cinesi di ferrovie non può che fare piacere.
Quanto alle tre compagnie russe, Gazprom, Gazpromneft e Tatneft, hanno apparentemente sprecato 100 milioni di dollari di investimenti in attività di esplorazione e sviluppo nella regione di Gadames e nella Sirte orientale. Mentre una concessione offshore di Gazprom davanti a Misurata resta in stand by. Ma la perdita maggiore concerne i contratti di forniture militari, specie quelli per aerei da caccia e missili terra-aria, per un valore di 1,8 miliardi di euro, che Mosca stava per chiudere con Gheddafi.
Una considerazione a parte merita il giacimento di gas e petrolio Elephant, nel profondo Fezzan, di cui Gazprom ha acquisito il 33% della quota di maggioranza Eni, con un accordo siglato a Roma nel febbraio scorso. Definito da Scaroni un progetto «first quality», oggi si trova al centro di una delle più irriducibili retrovie militari del regime libico, in una delle regioni più pericolose della fascia tra Libia, Algeria, Ciad e Niger. Visto che gli accordi prevedevano scambi di asset pregiati, chissà quale perla siberiana ai bordi dell’Artico russo toccherà all’Eni.
6. Ai primi di marzo c’era chi invitava a fare investimenti smart sul rischio Eni, che avendo quattro concessioni importanti nella Libia occidentale (al-Fil, Buri, Waha e Bahr al-Salam), oltre a Bu al-Tifl nella Sirte occidentale, sarebbe comunque cascato in piedi. Ma non si menzionava il capitale a rischio della joint venture Eni-Noc (la compagnia nazionale libica che la nuova Libyan Oil testè costituita dovrebbe soppiantare) sul gasdotto Greenstream, il più lungo attraverso il Mediterraneo, che nel 2010 ha trasportato 9 miliardi di metri cubi in Italia ed ora è chiuso. Se inattivo a lungo, rischia di deteriorarsi.
La nostra situazione è ground zero. Non si tratta di essere pessimisti o disfattisti, ma se per non entrare nel panico dobbiamo raccontarci delle favole ci facciamo del male. Ground zero non significa che non c’è niente da fare ma che bisogna darsi molto da fare e non aspettare che l’Europa si doti di reti integrate. Le reti servono per razionalizzare gli sprechi e per fronteggiare un’emergenza di poche ore o giorni, non per coprire buchi di approvvigionamento che dipendono da politiche ondivaghe e dalla mancanza di strategie energetiche a medio termine.
La botta libica non era certo prevedibile in questi termini. Ma ci serva almeno di lezione. Inutile inseguire il nuovo gasdotto Galsi dall’Algeria all’Italia come fosse un sostituto del Greenstream, che non sappiamo se e quando si riempirà di nuovo, ne se sarà l’Eni a pompare il gas per riempirlo. Il Galsi non ha ancora disponibile tutto il gas che deve trasportare perche l’Algeria è in grave difficoltà produttiva mentre noi, come altri europei, ci comportiamo come si trattasse di fare shopping e non di costruire con il paese che ha le risorse un rapporto di sicurezza energetica reciproco. Delle 36 licenze per nuove aree messe a gara dal 2008 solo 9 sono state assegnate, mentre negli altri casi non è stato possibile per mancanza di concorrenti. Come Eni abbiamo fatto il minimo sforzo di presenza nel gruppo di europei con Repsol, Total, British Gas, E.ON Ruhrgas, mentre ci sono cinesi e russi. I quali hanno approfittato del minore interesse delle compagnie europee, occupate a comprare sul mercato spot, attratte dai prezzi bassi, ma così trascurando investimenti e contratti a lungo termine.
Ora c’è il rischio di un collasso della produzione e delle riserve a lungo termine algerine. Le quali erano state ipotizzate passare dagli 85 miliardi di metri cubi del 2011 ai 140 del 2020. Con la crisi libica alle porte la situazione algerina si fa anche più difficile da gestire sul piano interno. Le frontiere sahariane possono diventare aree di rischio che contaminano le regioni di nuovo sviluppo produttivo nel Sud algerino. Occorre essere vicini agli algerini nei programmi di riforma e di sviluppo, contribuire a evitare che le tensioni sociali e la contestazione berbera degradino. Il bene di quel paese è anche il nostro bene.
Per quanto riguarda una sana diversificazione degli approvvigionamenti di gas dobbiamo cominciare a fare un po’ di conti, che non sono quelli di Scaroni: non basta affermare che le nostre scorte arrivano all’inverno. Dobbiamo sapere quali accordi, veri e quindi legati a nostri programmi di investimento e non di facciata, abbiamo oggi con la Russia.
Il South Stream si farà per due motivi che non dipendono dall’impegno, a parte quello tecnico di realizzare il tubo, di perseguire i nostri interessi di sicurezza energetica. Primo: non si farà il Nabucco e quindi sparisce il tubo concorrente. Bp e Statoil, operatori e cogestori del giacimento azero che fornisce il gas, hanno finalmente ammesso quello che si sapeva, e cioè che al massimo saranno disponibili 20 miliardi di mc/anno, giusto per rifornire i due gasdotti minori Turchia-Grecia-Italia e Turchia-Grecia-Albania-Italia, da realizzarsi con investimenti norvegesi, tedeschi e francesi. Non è chiaro a quali utenti e a quali costi questo gas transiterà per l’Italia. Secondo: il South Stream si farà perché con l’ingresso di francesi e tedeschi è diventato un tubo europeo, tanto che il commissario all’Energia Oettinger ha rinunciato all’ostracismo Ue. Il risvolto della medaglia è che i nostri partner entrati nell’investimento del tratto sottomarino vogliono una quota percentuale del gas trasportato. Così noi, partiti col 50% del volume di gas, ci ritroviamo col 25%, che corrisponde a circa 15 miliardi di metri cubi/anno. In totale, invece di aumentare le forniture dalla Russia le diminuiamo rispetto a quelle che ci arrivano finora tramite Ucraina. Da cui dovremo quindi continuare a rifornirci. Sarà per questo che l’Eni sta ingaggiando giri di valzer con Kiev?
La lezione del gas libico è seria. Serve un piano pubblico degli approvvigionamenti. Bisogna stabilire rapporti meno personalizzati e più tecnici, di vera cooperazione energetica, con i paesi produttori. Guidati da manager del settore che non si comportino da gran visir.*
* Tratto da Limes, Quaderno speciale «La guerra di Libia», n. 2-2011, pp. 39-48