Nicolò Carnimeo, Limes: Quel che resta della terra, Gruppo Editoriale L’Espresso, n. 2, 2012, 11 maggio 2013
GLI OCEANI DI PLASTICA
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«L’unico materiale che la natura aveva dimenticato di creare»: così venne definita la plastica al momento della sua scoperta, nell’Ottocento. La sua affascinante storia – che parte da Alexander Parkes (1839–1862) passando per il Nobel italiano Giulio Natta (1903–1979), inventore del polipropilene – coincide con l’ascesa industriale dell’èra contemporanea, rappresenta la cieca fiducia in un progresso non sostenibile che divora risorse, nel quale l’uomo è centro e non parte di un equilibrio complessivo. E così quelle parole, «dimenticato di creare», tornano in mente ossessive, suonano paradossali, si confondono nel tonfo sordo degli oggetti di plastica galleggiante (bambole, spazzolini, mattoncini lego, pezzi di rete, buste, bottiglie, tappi...) che battono sulla chiglia dell’Alguita in navigazione nel Pacifico.
Nell’estate del 2009 il catamarano per la ricerca oceanografica dell’Algalita Research Foundation ha percorso in 29 giorni centinaia di miglia di esplorazione (le si può seguire sul sito www.algalita.org) in the Gyre, ovvero in quella vasta zona oceanica al traverso della California dove nel 1997 il capitano Charles Moore ha scoperto The Great Pacific Garbage Pacht, la più grande discarica galleggiante esistente. Questa gigantesca «zuppa di plastica» – come l’ha definita il suo scopritore – mescolata e raccolta dal vortice del Nord Pacifico (Pacific Vortex), una delle più potenti correnti circolari oceaniche, è formata da miliardi di frammenti che il mare è riuscito a frantumare, ma non a distruggere. Essi, in base al gioco dei venti e della stessa corrente che li aggrega e disgrega, possono compattarsi assumendo quasi la consistenza di un’isola di detriti, un blob del quale è difficile stabilire l’estensione. Non la conosce neppure Moore, che ha dedicato gli ultimi dodici anni e decine di viaggi a tracciarne i confini. Alcuni sostengono che sia grande quanto il Québec (600 mila miglia quadrate), altri la stimano in due volte la superficie del Texas, c’è chi la paragona persino agli Stati Uniti (3,8 milioni di miglia quadrate), ma il dato certo è che la densità di materie plastiche aumenta ogni anno in modo esponenziale.
«I confini della plastic soup si allargano sempre più, anche la navigazione lì è diventata pericolosa», tuona Moore appena l’Alguita nel giugno scorso al termine del viaggio accosta alla banchina di Alamitos Bay a Long Beach, «i rifiuti sono così fitti da finire spesso nelle eliche del catamarano, possono creare danni al motore».
La situazione nel Great Pacific Garbage Pacht si evolve, ed è già mutata da quando nella primavera del 1997 Charles Moore finisce per errore in quella che anticamente veniva chiamata the borse latitude (la «latitudine» o meglio «rotta dei cavalli», chiamata così perché ci sarebbero voluti dei destrieri per trainare i velieri fermi nelle immobili piatte oceaniche caratterizzate da poco vento e alta pressione). «Per miglia e miglia di navigazione», ricorda lo skipper, «salivo sul ponte e intorno a me c’era solo plastica, ogni porcheria che abbiamo gettato in acqua negli ultimi cinquant’anni!». Da quel momento la vita di Moore cambia, il nostro con l’Algalita Research Foundation si dedica non solo a valutare l’entità, ma anche l’impatto ambientale della plastica in mare, che stima in 100 milioni di tonnellate!
Le ricerche sono complesse, gran parte del materiale non è visibile, rimane poco sotto la superficie dell’acqua, dai 10 ai 30 metri di profondità, e poi si dissolve grazie a un processo di fotodegradazione in minuscoli frammenti che entrano involontariamente a far parte della catena alimentare.
I molluschi e i pesci li scambiano per zooplancton, li ingeriscono e muoiono a milioni, non solo i pelagici (cioè le specie che nuotano in superficie), ma anche quelli che vivono sul fondo dove la plastica si è depositata come una specie di impenetrabile e indistruttibile manto: il fondale degli oceani accoglie l’85% dei rifiuti, ciò che galleggia è pari solo al 15% del totale. Per accorgersene basta sezionare i pesci, aprirne le viscere per trovare decine di «coriandoli» multicolori. Ed è così anche per altre centinaia di specie che vivono in mare tra mammiferi, tartarughe e uccelli (il 95% del totale), che pagano il prezzo più alto: sono un milione all’anno quelli che muoiono strozzati dai rifiuti o per reti abbandonate.
Il giornalista Kenneth Weiss ha vinto il premio Pulitzer nel 2007 per una serie di articoli che hanno denunciato tra l’altro come tappi di bottiglia, soldatini, spazzolini da denti e gli ugelli degli spray siano la causa principale della morte per soffocamento degli albatross che vivono nell’atollo delle Midway, distante mille miglia dal più vicino centro abitato.
«Questa enorme massa flottante di rifiuti», spiega Marcus Eriksen, ricercatore dell’Algalita, «rappresenta un pericolo non solo per pesci, volatili, tartarughe e mammiferi marini, ma anche per la vita dell’uomo. La plastica si degrada molto lentamente e frammenti e detriti agiscono come spugne che assorbono composti chimici micidiali per la nostra salute e per quella degli animali, come Ddt e Pcb (policlorobifenili). Ingeriti dagli organismi marini, entrano nella catena alimentare e da qui raggiungono l’uomo». Recenti ricerche condotte nelle università di Oslo e Tokyo hanno mostrato come queste sostanze nei cibi possano provocare gravi problemi di infertilità.
Non c’è da stupirsi se l’andamento è in crescita. In base a dati della Fao e dell’Unep (United Nations Environment Programme), ogni anno finiscono negli oceani 6,4 milioni di tonnellate di rifiuti, dei quali circa il 90% sono materie plastiche, 1’80% arriva da insediamenti terrestri e il 20% sono abbandonati o perduti dalle navi. E le stime paiono per difetto se si pensa che, dei 200 milioni di tonnellate annue di materiali plastici, il 50% è utilizzato per articoli monouso o che si getta entro l’anno, e solo il 3% del totale viene riciclato.
C’è un altro dato significativo, che deriva dalle ricerche sul campo dell’Algalita Research Foundation: è il rapporto di 6 a 1 tra la plastica e la massa di zoo-plancton che rappresenta il primo anello della catena alimentare nei mari e ne regola la sopravvivenza. Le ultime cifre, in base al sito della Fondazione, riportano un nuovo allarme: il rapporto oggi sarebbe di 46 a 1. Ma alcuni ricercatori americani del Nooa (National Oceanic and Atmospheric Administration) ritengono che questa ultima stima possa essere falsata. Oggi si sta cercando – riferiscono – un metodo standard per fare le misurazioni che potrebbe rivelare come altre zone oceaniche siano compromesse, forse più del Pacific Vortex. In realtà, ciò che parte della scienza prova ancora a misurare, per alcuni è già un’ineludibile certezza, complici qualche migliaio di paperelle di plastica.
L’odissea delle paperelle di plastica
Nel 1992 una terribile tempesta coglie un cargo in navigazione dalla Cina a Seattle nel bel mezzo dell’oceano. Tre container cadono in mare e si frantumano lasciando libero il loro carico di gialle paperelle di plastica destinate al più a una vasca da bagno per bebè. Le 29 mila naufraghe, insieme ad altrettante ranocchie verdi, tartarughe blu e castori rossi, iniziano un lunghissimo cammino. Quello dell’oceanografo Curtis Ebbesmeyer è un colpo di genio: decide di seguire il percorso delle paperelle di plastica per studiare le correnti superficiali oceaniche. Sulla loro testa mette una taglia, chiunque le avvista ha diritto a una ricompensa di 100 dollari. E funziona. I primi ritrovamenti forniscono dati preziosi. Dopo il naufragio l’armata delle paperelle si sarebbe divisa: due terzi, viaggiando alla velocità di un miglio al giorno, avrebbero puntato decise verso sud. Oltrepassati i tropici, sono finite sulle spiagge dell’Indonesia, dell’Australia e del Sudamerica. Altre 10 mila sono state spinte a nord, hanno stazionato per qualche anno nel Great Pacific Garbage Pacht e poi attraverso lo Stretto di Bering, dopo altri otto anni, hanno raggiunto l’Oceano Atlantico. Era il 2000 quando i primi esemplari vennero avvistati nelle fredde acque dell’Atlantico del Nord. Confonderli era impossibile perché portavano ben impressa la scritta The First Years. E ancora sette anni più tardi, nel 2007, hanno raggiunto le coste dell’Inghilterra.
Ciò che più conta non è tanto l’odissea delle paperelle – che pure sono divenute oggetto di culto per i collezionisti, tanto da essere battute all’asta per più di 800 dollari – ma le osservazioni di Ebbesmeyer, il quale avrebbe individuato in tutti gli oceani una serie di Gyre, cioè di correnti circolari che, come il Pacific Vortex, raccolgono e concentrano i rifiuti, specialmente quelli plastici. Gli scienziati le hanno soprannominate «zone di convergenza». Sono caratterizzate da condizioni meteo marine ottimali e costanti. Le principali sarebbero almeno sette, nel tempo divenute altrettante discariche di plastica, anche se sono difficili da localizzare viste le loro caratteristiche simili al Pacific Vortex. Quest’ultimo, secondo Ebbesmeyer, sarebbe formato da due tronconi, quello «occidentale» che parte da 500 miglia nautiche al traverso della California e arriva sino alle isole Hawaii spinto da correnti che si muovono in senso orario, e un altro «orientale» che parte dalle Hawaii e giunge sino alle coste del Giappone, mosso da correnti che viaggiano in senso antiorario. Ma le variabili climatiche sono tante e i rifiuti negli anni spesso finiscono per visitare tutti i Gyre oppure, rimangono intrappolati nei ghiacci quando si dirigono a nord.
È probabile – hanno segnalato alcuni ricercatori – che enormi quantità di plastica siano attualmente inglobate nei ghiacciai, ma grazie alla deriva della calotta artica che ha un moto permanente da Ovest verso Est e lo scioglimento dei ghiacci, ben presto una «plastica Armada» potrebbe liberarsi dalla sua prigione del Nord Atlantico e partire alla conquista delle coste europee.
Non è escluso che qualche paperella riesca a passare anche lo Stretto di Gibilterra per raggiungere il Mediterraneo, dove certo non soffrirebbe di solitudine. L’inquinamento da plastica nel nostro mare è in sensibile aumento. Alcune associazioni ambientaliste hanno denunciato la presenza di veri e propri fiumi di bottiglie, sacchetti e lattine. Ne è stato segnalato uno tra la Sardegna e le Egadi, un altro nel Nord Tirreno, tra le acque liguri e l’arcipelago toscano. Una ricerca di Greenpeace per l’Università di Exeter ha stimato in duemila i frammenti di materiali plastici per chilometro quadrato. E l’Unep, in uno studio del 2006, li ha monitorati: per il 37% sono mozziconi di sigarette, a seguire ci sono bottiglie di plastica (9,8%), sacchetti di plastica (8,5%), lattine (7,6%), posate e confezioni di cibo (6,2%), tutti rifiuti che derivano principalmente da attività ricreative e costiere e vengono prodotti durante l’estate specialmente dalla sponda Nord, ovvero in Spagna, Francia e Italia.
I due nodi principali nel Mediterraneo sono la sua conformazione di «mare chiuso» che non permette il ricambio delle acque e l’altissima antropizzazione costiera: abitano le sue sponde 175 milioni di persone che raddoppiano durante l’estate e producono ogni anno 30-40 milioni di tonnellate di rifiuti solidi.
Secondo Pierre-Marie Poulain, vicedirettore dell’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale di Trieste – che studia il fenomeno sfruttando il principio della deriva dei rifiuti, usando galleggianti dotati di rilevatori satellitari, chiamati drifter – nel Mediterraneo non vi sarebbero dei «punti di convergenza». «Nelle nostre acque», spiega, «la circolazione dell’aria è complessa e molto variabile nel tempo e si formano strutture anticicloniche di circa 100 chilometri di grandezza che nascono, si muovono e spariscono in pochi mesi. Ma ciò non vuol dire che il Mediterraneo non sia pieno di rifiuti di plastica».
L’avventura del Plastiki
Il Plastiki prende il nome dal Kon–Tiki, la zattera di legno di balsa e giunco con la quale l’antropologo ed esploratore norvegese Thor Heyerdahl attraversò nel 1947 gli oceani dal Perù alla Polinesia per dimostrare, simulandone il viaggio, che gli abitanti di quelle isole provenivano dall’America Latina. Ma questa nuova zattera di venti metri, armata da uno degli uomini più ricchi del pianeta, il trentenne barone David de Rothschild, e dalla sua organizzazione Adventure Ecology, non sfiderà il Pacifico per ragioni scientifiche. Lo scopo è realizzare una grande campagna di sensibilizzazione sull’inquinamento della plastica negli oceani per spingere a riutilizzare e riciclare i rifiuti.
Il Plastiki, infatti, è costruito interamente da bottiglie di plastica e materiale riciclato, ma ha il design raffinato di un catamarano di ultima generazione (lo si può vedere sul sito www.theplastiki.com). In partenza da San Francisco, farà rotta prima sul Great Pacific Garbage Pacht per poi si dirigersi lungo un percorso di 12 mila miglia sino a Sydney, in Australia.
Le pur nobili intenzioni dell’ultimo discendente dei Rothschild non riusciranno a creare un’inversione di tendenza se non verranno adottate nei singoli paesi politiche adeguate per arginare il problema. Se ripulire gli oceani non è possibile, bisogna limitare l’inquinamento alla fonte, promuovere un cambiamento dello stile di vita, puntare sull’innovazione. Da una breve indagine sulle «plastiche bio-degradabili» emerge che oggi le tecnologie sono già pronte. Oltre alla Francia, che ha già pronto il «Biolicea», una plastica derivata da cereali in grani, anche l’Italia è all’avanguardia nella ricerca. I ricercatori del Cnr di Pozzuoli (Napoli) hanno pronte le formule per ottenere materiali facilmente biodegradabili, riutilizzando gli scarti di lavorazione di altri prodotti tra cui pomodori, bucce della frutta e alghe. In Giappone, la nuova plastica ecocompatibile arriva invece dalla «cassava», un tubero a metà strada tra la rapa e la patata. Una volta bruciata, non sprigiona sostanze tossiche, caratteristica che la pone fuori dalle restrizioni imposte dal Protocollo di Kyoto sulle emissioni di gas serra. Il parlamento giapponese ha già varato una norma che prevede l’uso obbligatorio delle nuove plastiche nei supermercati e nella grande distribuzione, con sanzioni pecuniarie.
Se si riuscisse in questo modo a promuovere l’uso di materiali biodegradabili almeno per gli oggetti di largo consumo e, spesso, monouso (sacchetti, bottiglie, stoviglie, tappi), favorendo la riconversione della filiera produttiva, e si utilizzassero le attuali materiali plastiche solo per i beni durevoli, sarebbe già un determinante passo in avanti. È però necessaria una ferrea e lungimirante volontà politica che metta al bando i materiali non biodegradabili. In mancanza di ciò, le conseguenze saranno disastrose per le generazioni future. Plastica: siamo certi che la natura si sia dimenticata di crearla?*
*Tratto da Limes, Quaderno speciale «Il clima del G2», n. 3–2009, pp. 177–182.