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 2013  maggio 10 Venerdì calendario

David Grossman L’arte della narrazione Nel 1987, per il ventesimo anno di occupazione israeliana della Striscia di Gaza e Cisgiordania, la redazione del settimanale israeliano Koteret Roshit mandò il giovane romanziere David Grossman in Cisgiordania, per sette settimane

David Grossman L’arte della narrazione Nel 1987, per il ventesimo anno di occupazione israeliana della Striscia di Gaza e Cisgiordania, la redazione del settimanale israeliano Koteret Roshit mandò il giovane romanziere David Grossman in Cisgiordania, per sette settimane. David Grossman, che parla molto bene l’arabo, visitò i campi profughi e le città, gli asili e le università palestinesi, i coloni israeliani nelle loro enclave fortificate e gli ufficiali dell’esercito che pattugliavano i territori palestinesi. Il suo reportage occupò l’intero numero della rivista e scatenò il putiferio in Israele. David Grossman aveva detto chiaramente che i palestinesi, vittime dei maltrattamenti quotidiani dell’occupazione da una generazione, non sarebbero più stati così docili. «Fu un vero shock», mi riferì Tom Segev, uno dei responsabili del giornale. «All’epoca non avevamo idea di quanto ci odiassero». L’anno seguente, quando il resoconto di David Grossman fu pubblicato col titolo II vento giallo, l’Intifada palestinese era in pieno svolgimento. Quegli articoli erano stati premonitori e avevano lanciato il loro autore – i cui primi romanzi avevano riscosso grande successo in Israele, ma non erano ancora stati tradotti – sulla ribalta internazionale. David Grossman è nato a Gerusalemme nel 1954; sua madre era nata in Palestina e il padre veniva dalla provincia polacca della Galizia. Da bambino cominciò a lavorare come attore e giornalista per Kol Israel, remittente radiofonica di Stato dove rimase per più di vent’anni e alla quale ritornò in veste di giornalista e presentatore dopo aver prestato cinque anni di servizio nell’esercito. Cominciò a scrivere narrativa a vent’anni e pubblicò una raccolta di racconti e due romanzi, mentre lavorava a tempo pieno alla radio. Il romanzo d’esordio di David Grossman, II sorriso dell’agnello (1983), fu il primo libro israeliano a essere ambientato in Cisgiordania. È la storia di un giovane soldato, Uri, l’agnello eponimo, che fa amicizia con Khilmi, un anziano cantastorie palestinese mezzo cieco e poi ne diventa l’ostaggio. Le storie di Khilmi si dipanano con una prosa languida e febbrile, un ibrido fra il flusso di coscienza e il fraseggio musicale del folclore arabo. Il secondo romanzo, Vedi alla voce: amore (1986), resta il suo capolavoro, una ricostruzione storica in quattro parti di straordinaria inventiva, che Edmund White paragonò all’Urlo e il furore, al Tamburo di latta e a Cent’anni di solitudine; George Steiner lo definì "una delle grandi imprese della narrativa moderna". Il libro comincia con Momik, un bambino israeliano che cresce all’ombra dell’Olocausto e si conclude con una serie fantastica di voci enciclopediche sulle avventure degli eroi dei testi per l’infanzia, ormai invecchiati, che crescono un bambino nello zoo di Varsavia, e a metà libro David Grossman salva lo scrittore polacco Bruno Schulz da morte certa trasformandolo in un salmone. David Grossman fece seguire a Vento giallo una cronaca di come vivono i cittadini palestinesi in Israele, intitolata Sleeping on a Wire, e una raccolta di saggi sul conflitto, La guerra che non si può vincere. In tutto ha pubblicato sei romanzi fra i quali due libri "più leggeri", come li definisce lui. Ci sono bambini a zigzag e Qualcuno con cui correre; un testo teatrale, diversi libri per bambini e un’esegesi della storia biblica di Sansone, Il miele del Leone. Oggi David Grossman è considerato in tutto il mondo uno dei massimi scrittori israeliani, il più grande romanziere della generazione successiva a quella di Amos Oz e di A.B. Yehoshua. La nostra intervista durò quattro giorni, era il mese di luglio, e si svolse fra il Mishkenot Sha’ananim, un centro culturale dal quale si possono vedere le mura della Città Vecchia di Gerusalemme, e la veranda di casa sua, sulle colline di Mevaseret Zion, alle porte di Gerusalemme, dove lo scrittore vive da venticinque anni con la moglie Michal e i tre figli. Nel seminterrato ha un ufficio modesto, con un computer appollaiato in un angolo, e lungo la parete sul fondo, tralci di vite che si arrampicano fino al soffitto. Alla parete è appeso un poster del famoso film Qualcuno con cui correre, adattato dal suo omonimo romanzo. Oltre 1’ingresso, c’è una stanza spoglia con due poltrone dove Michal, che è una psicologa clinica, riceve i suoi pazienti. Il mese di luglio ha segnato il primo anniversario dello scoppio della guerra del Libano e la fine di un anno tragico per David Grossman e famiglia. Nell’agosto del 2006, il figlio più giovane, Uri, comandante di carro armato nell’esercito israeliano, è rimasto ucciso negli ultimi giorni degli scontri contro Hezbollah, nel Sud del Libano. Due giorni prima, David Grossman, insieme a Oz e Yehoshua, aveva presentato una richiesta ufficiale di cessate il fuoco. Pronunciò un’orazione funebre al funerale di Uri, sul Monte Herzl, nel cimitero nazionale israeliano: "Non dirò una parola della guerra nella quale sei rimasto ucciso. Noi, la famiglia, quella guerra l’abbiamo già persa. Lo stato di Israele ora si farà un esame di coscienza. Noi, la famiglia, ci ritireremo nel nostro dolore, circondati dagli amici cari, protetti dall’amore smisurato di tanta gente che per la maggior parte non conosciamo. Io li ringrazio per il loro sostegno che è illimitato. Vorrei che sapessimo dare gli uni agli altri questo amore e questa solidarietà anche in altri momenti". Il volto giovane di David Grossman ha sempre portato i segni della sua preoccupazione, ma il lutto dell’anno scorso ha lasciato solchi più profondi. Il suo garbato contegno – aperto, curioso, accogliente – nasconde l’intensità e, ultimamente, l’angoscia della sua vita interiore. Nel corso della conversazione è pensieroso e indagatore; parla lentamente ma con decisione della sua scrittura, dell’Israele odierno e degli scopi della letteratura. All’inizio del nostro primo incontro gli dissi che avrei rimandato l’argomento politico per poterci concentrare sulla sua narrativa. Un sorriso allegro gli irradiò il viso e mi chiese: "Dove è stato per tutta la mia vita?". Jonathan Shainin, 2007 Qual è il primo libro che ha significato qualcosa per lei? «Quando avevo otto anni mio padre mi regalò una storia di Sholem Aleichem che descriveva la vita degli ebrei negli shtetl, le cittadine e i villaggi della Galizia, in Russia e in Polonia. Ero l’unico bambino del vicinato a leggere Sholem Aleichem. La cosa destava un certo imbarazzo, tuffarsi nel passato della diaspora non stava bene. Israele, all’epoca, era un paese nuovo, una potenza militare forte circondata da nemici, doveva fare il pugno duro. I ricordi della debolezza, delle umiliazioni, non erano molto popolari, le storie invece mi permettevano di creare un mio enclave di shtetl ebraico nella realtà di Gerusalemme. I miei genitori erano sorpresi che mi fossi così appassionato a quei racconti, ma al tempo stesso ne andavano orgogliosi. Non scorderò mai il sorriso di mio padre quando mi porse il libro. Era il sorriso di un bambino, qualcosa che non ricordo di avergli mai visto prima, insicuro e scoperto e trasparente. Lui era riluttante a dividere i suoi ricordi con me, le storie invece formavano una specie di tunnel all’interno della sua giovinezza perché lui era un bambino come quelli descritti da Sholem Aleichem, che veniva da un piccolo villaggio chiamato Dynów, nella Galizia. Quando mio padre capì quanto fossi preso da Aleichem, cominciò a raccontarmi cose della sua infanzia e di se stesso. Da padre posso dirle che quando i miei figli leggono i miei libri so che stanno scoprendo delle parti di me che in genere non vedono. C’è un misto di imbarazzo, preoccupazione e fierezza in quel loro sforzo, in quel loro volersi avvicinare a me». Qual è la storia di suo padre? «Arrivò in Israele nel 1936, quando aveva nove anni. Suo padre era morto due anni prima, e così sua madre e i due bambini – mio padre e mia zia – si ritrovarono indifesi. Un giorno, un poliziotto polacco molestò mia nonna per strada, la insulto. Non sappiamo come andò veramente, ma lei tornò a casa e disse: "Ce ne andiamo a Eretz Yisrael". Era magra come un chiodo, tutta una ruga; una donna intelligente, ironica. Prese mio padre e mia zia e se li portò in Israele, affrontando il lungo viaggio in treno e in nave. E pensare che non era mai salita nemmeno su un autobus! Quando diventò adulto, mio padre fece l’autista d’autobus, ma poi, a quarantacinque anni dovette lasciare il lavoro per dei problemi agli occhi e diventò il bibliotecario della società dei trasporti di Gerusalemme. Creò una piccola biblioteca di due sole stanze, che però conteneva qualcosa come tremila volumi. Penso sempre che, se la vita fosse stara meno crudele, sarebbe diventato un professore universitario». Lei cominciò a lavorare alla radio di stato quando era molto giovane. Come iniziò? «In Israele non c’era la televisione fino al ‘68, per cui la radio era tutto. Un giorno annunciarono che avrebbero organizzato un quiz a premi sui racconti di Sholem Aleichem. All’epoca, il gioco a quiz era molto popolare in Israele, erano i primi anni Sessanta. Organizzavano giochi a quiz sugli scrittori, sul cinema, sulla musica. C’era grande aspettativa su chi avrebbe vinto ed era un vero evento per noi. Chiesi ai miei genitori di partecipare, avrò avuto nove anni. Loro mi dissero: "No, non puoi andarci, sei soltanto un bambino". Nel mio codice familiare era vietato farsi notare, esporsi. Usa la tua intelligenza per restartene defilato, che è un modo efficace di sopravvivere. Io però volevo partecipare a tutti i costi, e così scrissi una cartolina alla trasmissione. Non avevo mai mandato una cartolina in vita mia, a chi l’avrei dovuta indirizzare? Gerusalemme era molto piccola e provinciale. Non avevo nemmeno mai incontrato qualcuno che non fosse ebreo fino, credo, all’età di dieci anni. Allora non c’erano arabi nel nostro quartiere, ne avevo solo sentito parlare al radiogiornale. Erano il nemico, erano in guerra con noi, erano spie, volevano buttarci in mare non per niente chiesi ai miei di prendere lezioni di nuoto... Così, all’insaputa di mio padre e di mia madre, mandai quella cartolina. Ero terrorizzato. Una settimana dopo, arrivò una busta del governo contenente una lettera dove venivo convocato all’audizione. Quando i miei videro la lettera del direttore della radio, fu come se il re o Ben Gurion in persona mi avessero convocato. Non osarono dirmi di no. Con un misto di orgoglio e preoccupazione, mio padre mi accompagnò alla sede della radio dove poi avrei lavorato per i venticinque anni successivi. Ovviamente, tutti pensavano che stessi accompagnando mio padre, e quando spiegò che il candidato ero io, i funzionari della radio erano molto divertiti. Mi fecero i quiz e io diedi tutte le risposte esatte. Avevo una buona memoria, la memoria pronta di un bambino, ed ero profondamente legato, emotivamente legato, alle storie di Sholem Aleichem. Erano fondamentali per me e me le respiravo tutte. Le sapevo a memoria». Che tipo di domande le fecero all’audizione? «Domande su particolari. Nella Storia di Tewje, il lattivendolo cosa disse Tewje alla figlia dopo che aveva sposato un uomo che non era ebreo? Con quali parole Shimek dichiarò il suo amore a Buzi? Superai l’esame, poi ne superai un altro, e alla fine mi scontrai con un problema piuttosto emblematico per l’Israele dell’epoca: il direttore generale della radio decise che non sarebbe stato educativo che un bambino vincesse un premio così lauto in denaro. La cifra equivaleva a una cinquantina di dollari di oggi, ma per loro era un bel dilemma». Pensavano che non sarebbe stato in linea con l’ethos socialista di Israele? «Sì, con l’ethos ascetico. Allora fecero qualcosa di molto scorretto, e solo anni dopo, quando diventai amico di quelle persone, mi resi conto di quanto insolito fosse. Dissero che data la mia giovane età dovevano sottopormi a molti altri quiz. Quando rientrai a casa da scuola e squillò il telefono –un evento che da noi si verifìcava al massimo una volta a settimana - e sollevai la cornetta, un signore della radio mi disse: "David, sto per farti tre domande, ma fai attenzione: se non saprai la risposta di una delle tre verrai squalificato". A un certo punto diedi una risposta sbagliata e lui disse subito: "Ci dispiace molto, non possiamo ammetterti fra i concorrenti, però ti vogliamo fra il pubblico durante la registrazione del programma. Se uno dei concorrenti non saprà la risposta, ci rivolgeremo a te". E così mi sedevo fra gli spettatori e quando uno dei concorrenti sbagliava, il presentatore si rivolgeva a me per avere quella esatta.» I concorrenti adulti erano imbarazzati di essere superati da un bambino di dieci anni? «Avrebbero voluto uccidermi, di questo sono sicuro». Cosa pensavano i suoi genitori? Avevano cambiato idea a proposito del restare "defilato"? «Credo che fossero molto fieri di me. Tutto a un tratto erano ben disposti ad accettare quel curioso bambino che si sedeva a leggere storie esoteriche sul galut, la diaspora. Quando il gioco a quiz finì, un tizio della radio mi chiese se volevo fare l’attore radiofonico; non sapevo cosa significasse, ma mi fece un’audizione e io la superai. E così, a soli undici anni, ero sommerso dal lavoro alla radio. E guadagnavo – mi rincresce dirlo – più di mio padre. Era un lavoro a tempo pieno. Finivo scuola alle due, rientravo a casa per pranzo, e poi andavo in radio dove lavoravo fino alle dieci, undici di sera. Avevo due mansioni: la prima era fare interviste. Viaggiavo per tutto Israele, incontravo persone importanti – il presidente, i calciatori, gli attori di teatro, persino il poeta più famoso dell’epoca, Avraham Shlonsky. L’altra era recitare nei radiodrammi che spesso erano testi letterari adattati per la radio. All’epoca, erano i primi anni Sessanta, la maggior parte dei ruoli infantili venivano interpretati da donne. Gli uomini non potevano e di bambini attori non ce n’erano, a parte uno, Arieh Eldad. Io e Arieh eravamo amici sin da bambini perché lavoravamo insieme. Oggi è leader di uno dei partiti di estrema destra più radicali di Israele». La radio è stata il suo banco di prova per la narrativa, con tutte quelle storie da raccontare? «Come gran parte dei bambini, vivevo metà della mia vita sognando a occhi aperti. Quando ascolti la radio devi immaginare quello che senti, è un’intera realtà che viene espressa solo attraverso il linguaggio. Dal momento in cui cominciai a lavorare in radio, imparai subito quante cose si possono fare con la voce». In che tipo di radiodrammi recitava? «Tutti i classici della letteratura. Fu così, per esempio, che scoprii Cechov e Thomas Mann. Ero troppo giovane per leggere i loro libri, ma non per recitare quei radiodrammi. E poi venni a contatto con l’ambiente bohémien degli attori radiofonici. Era tutto il contrario dell’atmosfera di casa mia e mi piaceva passare da una situazione all’altra». Com’era da adolescente? «In quegli anni diventai senz’altro più aperto, più socievole, ma di fondo restai comunque un introverso. Nel Libro della grammatica inferiore c’è Aron, un bambino isolato, solitario, e il suo migliore amico Gideon, il classico ragazzino israeliano che esce con le ragazze, è negli scout e vuole fare il pilota. Per Gideon presi a modello un amico che avevo a sedici anni, lo intervistai persino. Quando il libro uscì, gliene mandai una copia e aspettai con ansia la sua reazione. Dopo un pò di tempo, lui mi chiamò e mi disse: "Mi piace e naturalmente mi ci sono ritrovato. Aron sono io". Per me era sbalorditivo. Se me lo avesse detto quando avevo sedici anni, tutta la mia vita sarebbe stata diversa. Il mio senso di solitudine, disperazione, di irrevocabile emarginazione, tutto sarebbe stato diverso». Quanto tempo è rimasto alla radio? «Per rutto il liceo. Poi ci tornai dopo il militare, per altri tredici anni, come giornalista e presentatore dei radiogiornali del mattino». Cosa faceva nell’esercito? «Ero nei servizi segreti. Ci restai quattro anni, dal 1971 al 1975. Non ero in prima linea durante la guerra del 1973. Anche se nel 1982 ripresi servizio come riservista sul fronte orientale in Libano». Imparò l’arabo nell’esercito? «No, in realtà lo imparai al liceo. Mi piaceva molto. Facevo parte del primo gruppo di studenti israeliani che aveva partecipato al programma intensivo di arabo a partire dai quindici anni». E qual era lo scopo del programma? «In parte era stato pensato per preparare i soldati dei servizi segreti e noi lo sapevamo. Sul nostro primo dizionario di arabo c’era il simbolo dei servizi segreti e ne andavamo fieri, ci sentivamo segreti anche noi. Fu dopo la Guerra dei Sei giorni e solo allora la gente cominciò a capire quanto fosse importante fare uno sforzo per essere integrata nella cultura che aveva intorno. Mia madre rimase di sasso quando le comunicai che volevo studiare l’arabo e non il francese come seconda lingua straniera. Mi disse: "Il francese è una cultura, è teatro, Parigi e via discorrendo". Io andai a prendere il nostro grande atlante e le mostrai dov’era Parigi e dov’eravamo noi. E le dissi: "Noi abbiamo a che fare con gli arabi di continuo, andiamo nei loro territori, e loro vengono da noi, è per questo che voglio studiare quella lingua". L’arabo è splendido. E, paradossalmente, penso che studiarlo fece migliorare il mio ebraico. Sono due lingue sorelle, si riecheggiano e si rispecchiano l’una con l’altra, in modi interessanti. Avevamo un insegnante giovane e carismatico che ci trasmise la bellezza della lingua araba, e la nostra piccola classe era entusiasta di scoprire quel mondo sconosciuto. Studiammo il Corano, la storia dei musulmani e la situazione politica dei paesi arabi. Però il grande miglioramento lo feci quando mi arruolai nell’esercito». Come fu la sua esperienza sotto le armi? «L’esercito per me fu un’occasione per maturare. Mi diedero delle responsabilità vere anche se avevo solo diciannove anni. Vivere insieme a tanti uomini e donne intelligenti, in mezzo al deserto, crea una forte comunanza. Io, però, avevo bisogno di ritagliarmi uno spazio tutto mio perché volevo scrivere. Sentivo la necessità, la necessità fìsica, di passare diverse ore al giorno da solo, a scrivere». Cosa scriveva quando era nell’esercito? «Racconti, piccole cose. La narrativa vera e propria venne dopo, dopo che avevo lasciato l’esercito, però scrivere già mi piaceva. Io e tre amici tenevamo dei taccuini speciali dove, accanto ai rapporti che dovevamo stilare, annotavamo le nostre osservazioni personali e le lettere che ci scambiavamo. Tutti sapevano di quei taccuini e quando qualcuno prendeva turno, se li leggeva. Diventarono una specie di istituzione. Persino il capo dei servizi segreti, durante le sue visite ufficiali, li leggeva». Cosa scriveva di preciso in quei taccuini? A volte cose brutte, altre volte cose poetiche. Descrizioni della vita del campo, confessioni adolescenziali, dichiarazioni d’amore alle donne intorno a noi, volgari canzonette, però in uno splendido ebraico. Probabilmente, se li rileggessi oggi, sarei imbarazzato, ma non ho idea di dove siano». Fu un’esperienza formativa, per lei, scrivere per un pubblico? «Penso di sì, perché avevamo un ampio seguito. Credo fosse una boccata d’aria dalla vita alla base che era un posto orribile, una città di cemento abbarbicata su una delle montagne più alte del Sinai. Fu una delle prime aree a essere bombardate dagli egiziani durante la guerra dello Yom Kippur. A starmene lì, assediato, circondato da quella immensità di niente, solo sabbia su sabbia, sentivo il bisogno di crearmi un atmosfera più fantasiosa. Scrivere creava una specie di oasi in mezzo a quel deserto». Quando scrisse il suo primo racconto? «Cominciai a scrivere racconti appena lasciai l’esercito, nel 1975, ma non li feci leggere mai a nessuno. Il primo si intitolava “Asini”, parlava di un soldato americano che diserta durante la guerra del Vietnam e fra tutti i paesi possibili si rifugia in Austria. I suoi unici amici sono una famiglia d’asini che sta dietro una Gasthof. Una volta al mese lui arriva con un’auto carica di pane e dà loro da mangiare, e gli asini in cambio gli danno un senso di calore». Fu un bel salto, non è così? Lei non era uno scrittore, aveva lavorato alla radio, e aveva scritto nei taccuini degli ufficiali. Cosa la spinse a scrivere narrativa? «So come iniziò. Vivevo con Michal, anche se all’epoca non eravamo sposati, e capitava che litigassimo, come tutte le coppie. Lei faceva quello che una volta le donne erano solite fare in quei casi: metteva tutte le sue cose in un piccolo borsone – non avevamo granché – e se ne andava dai suoi a Haifa. Io mi ritrovavo da solo, nella nostra stanzetta, a Gerusalemme, stravolto. Avevo la sensazione che la mia vita fosse finita e di non avere nessuno per cui vivere. Poi mi misi seduto al tavolo e cominciai “Asini”. Fino a un attimo prima non avevo idea di quello che avrei scritto. Perché scelsi proprio quella storia fra le tante possibili, questo non glielo so proprio dire. Ma sin dai primi minuti capii di aver trovato me stesso. Faccio sempre il paragone con la scoperta del sesso: il momento prima di farlo hai solo una vaga idea di come sarà, ne hai paura, ne sei attratto, tutto insieme. Un attimo dopo non capisci come puoi aver vissuto senza. Diventi subito dipendente, sai che è questo che vuoi fare». Le idee per le sue storie in genere le vengono così, apparentemente dal niente? «Spesso ho la sensazione che sia il soggetto a trovare me. Quando comincio a scrivere di un personaggio, per esempio di una giovane donna, non so perché sia così importante per me. È completamente estranea e proviene da un altro ambiente. Poi, piano piano, capisco che sceglierla è stato inevitabile, che lei evoca in me cose che senza di lei non sarei mai stato in grado di esplorare. Certe volte, invece, ho un personaggio e non so cosa farne. Prenda il racconto intitolato "Follia" che impiegai undici anni a scrivere, a intervalli, fra un libro e l’altro. Iniziai con il personaggio di questo marito ossessivo, geloso, ma non riuscii a trovargli un compagno per il suo lungo viaggio attraverso la notte. Provai a mettergli accanto il fratello, l’amico, feci altri tre o quattro tentativi, e ogni volta sentivo di non essere sulla strada giusta perché non avevo qualcuno capace di bilanciare tutto quel delirio. E poi, un giorno, un personaggio di nome Esti balzò letteralmente sulla pagina. Non ero sicuro che mi piacesse, era un’estranea per me, ma lei irruppe lo stesso, e tutto a un tratto il libro era finito. Ero così sollevato. Avere Esti mi permise di esplorare quella voragine di sentimenti, quella mostruosa gelosia». Comincia sempre da un personaggio? «Dipende. Può essere un’immagine o un’idea anche vaga. Quando iniziai Vedi alla voce: amore, per i primi sei mesi scrissi una storia che si svolgeva in un istituto per lebbrosi di Gerusalemme. Avevo questa idea di persone che lavorano insieme e che devono risalire le cascate per scappare. Sentii che non era il libro che volevo scrivere, ma non sapevo come avrebbe dovuto essere. Poi lessi del salmone che risale le cascate. Ricordo che stavo camminando con un amico e che parlavamo con stupore dei salmoni, e con la mente feci il movimento di risalire le cascate, e nel farlo, mi si accese una lampadina. Pensai che c’era qualcosa di molto ebreo nel ciclo di vita del salmone: nasce in un posto, nuota in giro per il mondo e poi, all’improvviso, riceve un impulso dal cervello e ritorna dov’era nato. Mi colpì il fatto che ne stessi già scrivendo senza rendermene conto. Appena lo compresi, tutti i tasselli andarono al loro posto. I miracoli possono verifìcarsi mentre si scrive, più spesso di quanto non si verifìchino nella vita vera, purtroppo. A volte comincio un romanzo e penso che sia l’inizio, e invece è la parte centrale. Una cosa è certa, non arrivo alla conclusione finché non sono molto vicino alla fine». Perché? «Se so già come andrà, il libro non mi sorprenderà e soprattutto, non mi tradirà. Questo è importante: il libro dovrebbe tradirmi nel senso che dovrebbe condurmi in luoghi dove ho paura di avventurarmi. Prenda, per esempio, Il libro della grammatica inferiore. Avevo cominciato con una storia completamente diversa rispetto al libro attuale. Apriva come Che tu sia per me il coltello, con un trentacinquenne innamorato di una donna che ha visto solo per pochi instanti. Ma dopo nove mesi passati a scrivere, sentii che per capire il protagonista dovevo sapere qualcosa della sua infanzia. Era come se fossi stato travolto da un’onda. Iniziai a scrivere la storia di questo bambino che poi avrei chiamato Aron, e per un anno – il secondo anno che ci lavoravo – scrissi due romanzi contemporaneamente. Erano sempre più divergenti e pativo tutte le gioie e i dolori della bigamia. Al mattino mi sedevo a scriverne uno e ci mettevo tutta l’anima, poi nel pomeriggio facevo razzia spudorata di idee buone e le mettevo nell’altro». Ha delle strategie per quando si blocca? «A volte scrivo una lettera al mio protagonista, come se fosse un essere umano vero. Gli chiedo: "Qual è il problema? Perché non ce la fai? Che cosa mi impedisce di capirti?". Mi ha sempre aiutato». Lei ha dichiarato che "Per scrivere narrativa è fondamentale raccontare i fatti con meticolosità". Quante ricerche fa per scrivere i suoi romanzi? «Se sto per scrivere di un uomo che si unisce a un banco di salmoni come in Vedi alla voce: amore devo cominciare rendendo la realtà del salmone molto concreta e credibile. Così mi sono avvicinato ai subacquei, sono diventato un salmone. Non sono più riuscito a mangiare salmone per anni, veramente, mi sentivo un cannibale quando lo facevo. Mentre scrivevo Ci sono bambini a zigzag seguii la squadra investigativa della polizia di Gerusalemme per sei mesi, passavo quasi tutte le notti con loro. Ecco perché ho amato scrivere Il vento giallo. Non era solo per essermi documentato sulla situazione e aver intervistato certe persone: io volevo esserci, nei campi e nelle prigioni, nelle università della Cisgiordania e sui ponti della Giordania. La ricerca è un modo per uscire da me stesso e vivere il mondo. Nel mio nuovo romanzo sto scrivendo di un viaggio lungo cinquecento chilometri attraverso Israele, un percorso a zigzag dall’estremo Nord del paese fino a Gerusalemme. Così ci sono andato, in Galilea, e ho percorso tutta la strada a piedi fino a casa. Ci ho messo quarantacinque giorni». Come sa quando è arrivato alla fine del romanzo? «Quando arrivi al punto in cui il romanzo è un mondo a parte, non ti resta che arretrare umilmente e lasciare carta bianca al tuo protagonista. È a quel punto che ti devi fermare – cominci a essere tentato dal ventaglio di opzioni che ti si aprono davanti e così devi essere rigoroso con tè stesso e non strafare. Il libro è diventato un mondo a sé stante, non devi inventartelo, c’è già». Fa mai modifiche significative a un manoscritto dopo averlo consegnato? «Quando consegnai Che tu sia per me il coltello, era scritto sotto forma di romanzo epistolare: si alternavano le lettere da Yair a Myriam e da Myriam a Yair, in egual misura. C’era questo ping-pong meccanico tra loro. Poi, una sera, mi venne l’idea di eliminare tutte le lettere di lei, che voleva dire tagliare qualcosa come duecento pagine». É curioso che lei lo racconti, perché il lettore cerca di scoprire le risposte di Myriam, di trovare il riflesso di lei, nelle lettere di Yair. Ma invece esistono davvero? «Certo che esistono, le avevo scritte tutte. Ma poi decisi di eliminarle. Mi attaccai alla scrivania e mi misi a scrivere per un altro anno perché non potevo tagliarle così, a casaccio. Dovevo trovare i punti esatti in cui Myriam emergeva dalle incrinature delle lettere di Yair. Era complicato perché Myriam è il motore sul quale si regge l’intera trama. In un certo senso era lei a creare lui, perciò mi costò moltissimo farla fuori. Mi piaceva e ormai la conoscevo così bene, ma tutt’a un tratto capii che, eliminandola, il romanzo epistolare tradizionale si sarebbe evoluto perché in un libro del genere ci sono le lettere dei due protagonisti, è come avere due chiavi della stessa cassaforte. Averne due equivale a possedere tutto il tesoro, averne una sola mette il lettore nella condizione di crearsene una propria». Nel Sorriso dell’agnello Uri dice: "E qual è, poi, la vera casa di qualcuno? Abner certo direbbe che la sua casa è lo spazio vuoto fra la sua penna e la carta”. È così che si sente? «Casa è dove stanno le persone che amo. Più invecchio e più questo mondo mi è estraneo, ostile direi. La storia che sto scrivendo è un’altra casa, anche se certe volte ci vogliono due o tre anni prima che diventi tale. Non sono mai solo quando ho la mia storia, quando conosco il tono di ogni personaggio e del linguaggio». Il tono? «Il tono, la tensione muscolare. Mi sento immediatamente in contatto con le vibrazioni emotive della gente di Israele, cosa che non provo quando sono all’estero». Eppure lei è stato profondamente influenzato dagli scrittori della diaspora ebraica. «Quando cominci a fare lo scrittore, tutti ti dicono a chi assomigli e da chi hai preso. Da giovane ero molto ubbidiente e facevo tutto quello che mi dicevano, senza discutere. Un tizio che lavorava alla televisione israeliana, un nuovo arrivato dalla Polonia, mi chiamò per riferirmi che nel Il sorriso dell’agnello si percepiva chiaramente l’influenza di Bruno Schulz. Io replicai un: "Beh, può essere...". Non avevo mai sentito nominare Bruno Schulz, ma non volevo ammettere la mia ignoranza. Appena lo iniziai, ne rimasi folgorato. Ogni paragrafo di Schulz è un’esplosione di realtà diverse, di sogni e di incubi, di immaginazione e fantasia. Leggerlo mi fece venire voglia di vivere di più. Poi lessi le storie sulla sua morte. Era sotto la protezione di un ufficiale tedesco che aveva ucciso il dentista ebreo di un altro ufficiale tedesco, il quale andò a cercare Schulz e lo freddò per strada. "Tu hai ucciso il mio ebreo e io ho ucciso il tuo", furono le parole dell’ufficiale. Quando lo lessi, provai una fortissima sensazione fìsica di devastazione. Non volevo vivere in un mondo del genere, dove potevano succedere cose di questo tipo, dove le persone erano considerate sostituibili, esseri umani di cui disporre a piacimento. Sentii che dovevo riscattare la sua morte brutale, inutile. E così scrissi Vedi alla voce: amore. Pensi che in quasi tutte le lingue in cui il libro fu tradotto - saranno state tredici – uscì nel giro di un anno una nuova edizione dei racconti di Bruno Schulz. Fu una sensazione così bella sapere che il mio libro aveva fatto una cosa del genere per lui, dopo tutto quello che lui aveva fatto per me!» Chi l’ha influenzata, a parte Schulz? «Kafka, per quanto sia diffìcile trovare un autore che non sia stato influenzato da Kafka, pur avendo uno stile diverso. Kafka è un passaggio letterario obbligato. Io mi immagino sempre Kafka in piedi, con le mani appoggiate alla finestra, che guarda dentro la vita. E come se stesse guardando dalla morte, anche quando era vivo. È una cosa che non ho trovato in nessun altro scrittore». Si identifica con la situazione politica che aveva vissuto Kafka? «Aiuta, ma non sono sicuro che il contesto politico sia responsabile della formazione di uno scrittore. Credo che Kafka sarebbe stato Kafka anche se fosse nato in America o in Inghilterra o in Australia. C’è qualcosa di unico nell’angolazione dalla quale entra in contatto con la vita. Quando cominciai a scrivere, mi dicevano che ero influenzato da Joyce. Mi vergogno a dirlo, ma non avevo mai letto nemmeno Joyce. Però naturalmente ne fui influenzato, anche senza averlo letto. Siamo influenzati dall’ossigeno, dal carbonio, da Joyce e da Schulz e da Kafka. Anche Siegfried Lenz fu importante, e Heinrich Böll. Solo quando lessi Biliardo alle nove e mezzo capii come andava scritta una storia. E poi fui influenzato dai primi racconti di A.B. Yehoshua e da Amos Oz. Da adolescente lessi "Di fronte ai boschi" di Yehoshua e fu una rivelazione. Negli ultimi anni sento di essere sempre meno suggestionato dagli altri scrittori, non che lo veda un buon segno, intendiamoci. Io voglio essere influenzato da altri scrittori, credo sia sintomo di apertura. Un’autrice meravigliosa che ho scoperto di recente è Clarice Lispector, un’ebrea brasiliana morta trent’anni fa. Leggerla è stato come quando lessi Kafka per la prima volta». Dove scrive? «Da giovane scrivevo nella camera da letto del piccolo appartamento in cui abitavamo a Gerusalemme. Non c’erano altre possibilità, era naturale. Un po’ scomodo, perché anche mia moglie lavorava in quella stanza. Quando scrivo un libro faccio solo letture su quell’argomento. Mentre scrivevo Vedi alla voce: amore, la scrivania, il letto, il comodino e il pavimento erano disseminati di decine e decine di testi sulla Shoah e sulla Seconda guerra mondiale, e la maggior parte avevano la svastica in copertina. Era quasi un monumento al nazismo. Fu lì che decidemmo che avevo bisogno di una stanza tutta per me. Non potevamo lasciare che quelle atrocità infestassero la nostra camera da letto. Poco tempo dopo ci trasferimmo in una casa più grande». E adesso come fa? «Comincio ogni mattina verso le sei con una camminata di un’ora sulle colline di Gerusalemme – di Mevaseret – dove abitiamo. Poi vado a lavorare in un monolocale che ho affittato in un villaggio vicino casa. Quando lo visitai, la proprietaria mi disse: "Purtroppo non c’è la linea telefonica da queste parti". Io esclamai: "Fantastico! Lo prendo". Ci vado tutte le mattine, caschi il mondo, per sei ore di completo isolamento». Poi non scrive più per tutto il resto della giornata? «No, torno a casa e scrivo ancora. Ma il tipo di lavoro che faccio nel pomeriggio o la sera è diverso. In genere rivedo quello che ho scritto al mattino. Taglio. È meno creativo perché c’è vita intorno a me, la famiglia e gli amici». Ha un computer? «Comincio scrivendo a mano. Riempio decine di taccuini, fino a quando la quantità di pagine scritte è ingestibile e a quel punto passo al computer. Scrivo tante versioni diverse. Non è un sistema molto efficiente». Quando passa quattro o cinque ore su un romanzo, le riesce difficile mantenere lo stesso tono e la stessa energia per tutto il tempo? «Quando sto scrivendo un libro che richiede diversi anni di lavoro, mi accorgo che, arrivato all’ultima pagina, sono completamente diverso da quello che ero a pagina uno. Imparo di continuo dai miei libri. Ecco perché ci impiego tanto a scrivere un romanzo, perché non so veramente cosa scrivo e perché lo scrivo. Solo dopo capisco cosa vuole dirmi. Non che abbia intenzione di renderlo misterioso, in realtà credo che solo attraverso la scrittura posso sperimentare cose che nella vita vera non avrei il coraggio di affrontare». Alcuni dei suoi romanzi hanno una sensibilità più popolare, altri possono rivelarsi piuttosto diffìcili per il lettore. Quando comincia a lavorare a un progetto, sa già se sarà un libro difficile? «L’esperienza della scrittura mi insegna che più un libro è personale e meno verrà capito. La gente non si espone facilmente all’intimità. E molto più facile avere a che fare con libri più leggeri come Ci sono bambini a zigzag o Qualcuno con cui correre. Ciononostante, per me, i libri che contano davvero, quelli per cui non posso immaginare la mia vita senza averli scritti, sono i più impegnativi come Il libro della grammatica interiore. Che tu sia per me il coltello. Vedi alla voce: amore e il libro al quale sto lavorando adesso. Mi può capitare di scrivere un libro divertente ogni tanto, però io prendo la letteratura sul serio. È come maneggiare una carica di esplosivo. Puoi cambiare – o meglio, dovresti cambiare – la vita di un lettore e anche la tua. Di solito un libro più leggero ha su di me l’effetto di una guarigione. Quando scrivo un certo tipo di libro mi demolisco, metto in atto un processo di smantellamento della mia personalità. Tutti i miei meccanismi di difesa, tutto ciò che è regolato e funzionante, tutte le cose sottaciute vanno in frantumi perché ho bisogno di andare in quel luogo interiore che è incrinato, fragile, mai scontato. E da quei libri che esco prostrato. Non mi lamento, certo, è così che un libro andrebbe scritto. Ma il modo che ho di riprendermi da quel totale senso di solitudine è scrivere libri che mi mettano a stretto contatto con altre persone. Ho scritto Ci sono bambini a zigzag perché dovevo riprendermi dal Libro della grammatica interiore e da Sleeping on a Wire». Sleeping on a Wire porta a termine il progetto iniziato con Il vento giallo. Cosa la spinse a tornare su quel materiale? «Quel libro fu un vero trauma perché mi resi conto che II vento giallo aveva affrontato solo una parte della questione israelo-palestinese. L’altra, che sapevo essere quella preponderante, era legata alla situazione dei palestinesi all’interno di Israele». La più difficile? «Quella più interna, più complicata. Ci definiamo allo stesso modo – in quanto israeliani – ma cosa pensano loro di Israele in quanto stato? Come stato ebraico? Sono cittadini di uno stato che ha dichiarato di non essere il loro». In Sleeping on a Wire scrive che gli israeliani e i palestinesi della Cisgiordania hanno un obiettivo comune: entrambi vogliono la separazione. Ma il libro fa capire che, per quanto lo desiderino, le due parti non potranno mai essere facilmente separate. «Noi dobbiamo restare insieme. Io non la vedo una sciagura come la gran parte degli israeliani di entrambe le parti. Io non voglio un paese monolitico, voglio un paese variegato. Arabi ed ebrei non percepiscono questa diversità perché siamo così ostili gli uni verso gli altri. Se potessimo vivere in condizioni di sicurezza, allora potremmo esplorare liberamente le due culture. Peccato che la strada da percorrere sia molto lunga. Terminato il libro ero sconvolto perché avevo capito l’entità del pericolo. Una cosa è avere un conflitto con i palestinesi oltre il confine, ben diverso è avere un conflitto all’interno del nostro stesso stato, il potenziale di distruzione è di gran lunga maggiore». Lei però non considera i palestinesi in Israele come una quinta colonna. «Niente affatto, io li vedo come un’occasione. All’origine non c’è stato un matrimonio d’amore, la convivenza è stata imposta a entrambe le parti. Allora perché non sfruttarla al meglio? C’è un quinto della popolazione che pensa di non ricevere alcun benefìcio dallo stato, dal punto di vista culturale, economico e umano. Si sentono esclusi, umiliati. Rinunciare a quel quinto di popolazione è un vero suicidio. La gran parte degli israeliani non sa quasi niente degli arabi e li considera solo una minaccia alla propria sicurezza. Qualcuno di loro lo è, in effetti. Ho conosciuto arabi che vogliono un altro stato all’interno di Israele, non solo lo stato palestinese vicino ai nostri confini, ma un altro stato all’interno di Israele, così da avere tre stati: Gaza, Cisgiordania e Galilea. Per me è troppo. L’idea di uno stato binazionale ha funzionato molto raramente in altri contesti e tanto meno funzionerebbe in una situazione in cui entrambe le parti sono così traumatizzate. Credo anche che abbiamo un urgente bisogno di un confine fra noi e i palestinesi di Gaza e Cisgiordania. Secondo me è importante. Non un muro, ma un confine riconosciuto da entrambe le parti. Ci vuole una grande maturità politica per realizzare quest’idea. É ambiziosa, ma me ne viene in mente un’altra, ancora più ambiziosa: niente più confini nel mondo. Questa è la mia visione naturale. Però non è la realtà, soprattutto nella nostra regione». Lei si considera un post-sionista? «No, per niente. I post-sionisti pensano che Israele debba essere uno stato binazionale. Quando parlo con i mie amici israelo-palestinesi mi dicono che se fossero la maggioranza non invidierebbero di certo noi ebrei. Non si fidano della loro capacità di proteggerci o di concederci 1a libertà. Spiacente, ma non voglio entrare in un esperimento del genere. Siamo un popolo che di esperimenti ne ha dovuti passare fin troppi. Io voglio che l’onere della prova ricada sulla mia gente, non su loro. Vorrei che fossimo noi a dimostrare generosità e maturità politica. Penso che la grande sfida dello stato ebraico sia che tutti i cittadini si sentano a casa propria. Sa, è così facile criticare gli israeliani. Secondo me l’idea ispiratrice del sionismo era nobile: permettere al popolo ebraico di riprendersi, di provare la normalità politica, sociale e culturale nel proprio territorio, difeso dal proprio esercito, cose di cui siamo stati privati per anni. Io non santifico la guerra, ma nel mondo in cui viviamo, così folle e violento, soprattutto in Medio Oriente, avere un esercito è importante e necessario». Come scrittore, come liberale, le suona strano dirlo? «Può suonare strano solo a chi non vive qui. A ogni intervista i giornalisti italiani mi definiscono "un pacifista" perché lotto per la pace. Cerco di spiegare che non sono un pacifista. Un pacifista non porta armi, nemmeno se gli uccidono la madre sotto gli occhi. Io ho fatto il soldato per quattro anni e il riservista per altri trenta. I miei due figli sono stati comandanti di carro armato. Noi dobbiamo difenderci. Ciò detto, il modo per uscire da questa situazione non è quello di seguire la filosofìa del potere, bensì di essere aperti, generosi e coraggiosi. E non ne siamo stati capaci. Ci siamo assuefatti al nostro potere e alle nostre paure. Israeliani ed ebrei sono sempre stati considerati il popolo delle Scritture, ma anche il popolo della storia. Spesso non veniamo trattati come persone, ma come metafora di qualcos’altro. Come se ci fosse una lezione da imparare dalla nostra esperienza. É stato questo a renderci un bersaglio così vulnerabile a stereotipi e pregiudizi. E c’è anche un aspetto assuefacente nello sperimentare ciclicamente grandi eventi, per centinaia e centinaia di anni, e vivere in questo stato perenne di esperienza così estrema. Penso che la pace possa guarire tutto questo. Se raggiungeremo la pace, se raggiungeremo la normalità, se sentiremo di avere un futuro qui, se avremo stabilito dei confini, allora, forse, potremo scrollarci di dosso la sensazione di vivere una storia diversa da tutte le altre storie del mondo. É importante, perché quando hai davanti una storia più grande di te, non hai idea di quali doni la vita normale può offrirti: i piccoli, insignificanti, problemi domestici, quotidiani. Sleeping on a Wire sembra sostenere che l’esperienza ebraica e quella palestinese sono ugualmente traumatiche. Lo si percepisce subito. Quando israeliani e palestinesi sono insieme, liberi, soprattutto fuori da Israele, si può vedere quanto calore ci sia fra i due popoli. Sono fermamente convinto che se ci venisse data la possibilità, il privilegio, di convivere in pace, ci comporteremmo da buoni vicini perché a livello individuale ci capiamo. Noi ci odiamo e siamo sospettosi l’uno dell’altro a tal punto ormai che ogni passo dell’uno viene visto come un tranello o una manipolazione da parte dell’altro. In questo senso, siamo in trappola. Resta il fatto che una grande differenza fra i due popoli c’è, ed è l’esperienza della Shoah. Chi non è ebreo parlerà della Shoah come di un qualunque evento del passato. Chiederà: "Cosa accadde allora?". Gli ebrei, in qualsiasi lingua si esprimano, puntualizzeranno: "Cosa accadde laggiù". Chiedere "cosa accadde allora" significa che una certa cosa c’è stata ed è passata. Per gli ebrei, tragicamente, non è mai finita. C’è qualcosa di parallelo alla nostra vita, è un’opzione alternativa. Non lo dico in modo giudicante, è la nostra situazione che è così. Si ripercuote sul nostro comportamento sociale, personale, sulla nostra speranza di un futuro possibile, sul modo di crescere i nostri figli e sul modo di fare politica. È ovunque. Al nostro matrimonio, mia zia aveva messo un piccolo cerotto sopra il numero che ha tatuato sul braccio perché è stata ad Auschwitz. Io l’ho guardato, poi l’ho guardata negli occhi, e ho capito che lo aveva messo per evitare di rattristare quella circostanza felice. Ero così dispiaciuto. E ho pensato. Non si può nascondere con un cerotto! Eppure nel suo La guerra che non si può vincere lei scrive: "Non appartengo alla categoria di persone convinte che l’Olocausto sia una faccenda esclusivamente ebraica". Penso che si possa distinguere l’essere ebrei dalla Shoah, ma la Shoah è un fatto che riguarda tutta l’umanità. Ogni essere umano dovrebbe farsi qualche domanda sulla Shoah. Tipo: Come posso mantenere la mia unicità di essere umano davanti a una arbitrarietà così assoluta? Cos’è che non potrà mai essere estirpato in me? «In Che tu sia per me il coltello definisco il concetto con il termine luz, nocciolo. Luz è una parola che viene dal Talmud e indica l’osso più piccolo della spina dorsale che non può essere tolto. Il luz è il depositario della nostra essenza e l’ossicino a partire dal quale verremo ricreati nella risurrezione. A volte propongo un piccolo esercizio: chiedo alle persone di chiudere gli occhi e di pensare per un attimo a quello che è il loro luz, la pupilla dell’occhio della loro personalità, e le risposte sono davvero interessanti». Qual è il suo luz? «Penso abbia a che vedere con l’impulso creativo». In Sleeping on a Wire lei scrive del bisogno di "aprirsi alla complessità" dei palestinesi che vivono in Israele, "di far loro spazio fra di noi". È un punto di vista che sembra trasparire da molti suoi libri, quello di una persona che si apre all’esistenza dell’altro. É questa la prova di come la situazione politica influenzi la sua narrativa? «Mi piacerebbe pensare che avrei scritto quelle cose se fossi vissuto negli Stati Uniti o da qualunque altra parte. Ma a forza di vivere in un luogo dal potenziale distruttivo così alto, l’impulso di chiuderti al resto del mondo è fortissimo. Noi ce ne stiamo seduti in questa veranda, immersa nel verde, con gli uccellini che cantano, però la tensione è ovunque. Essere israeliani è estenuante. Non ci sono zone neutre nel paesaggio circostante, nelle persone che incontri, nel linguaggio, nelle storie che la gente ti racconta. Qui è tutto saturo, a volte avvelenato e di proposito. Nei miei ultimi due libri ho scritto una storia in un certo senso lontana dai fatti di stretta attualità, volevo creare una bolla di intimità, di quotidianità, incontaminata dalla politica; perché a volte ci dimentichiamo che esistono luoghi in cui siamo solo esseri umani, grazie a Dio, e non israeliani». Il fatto che tutti i suoi libri vengano interpretati attraverso la lente del conflitto israelo-palestinese è una croce per lei? «E come se subissi una violenza. Quando uscì in Italia Col corpo capisco, un intervistatore mi domandò: "La gamba rotta di Shaul è una metafora del sogno sionista infranto?". Si immagina? Stavo quasi per andarmene! Questa tendenza a interpretare tutto ciò che viene da Israele in chiave politica, di classificarlo come una metafora politica, è esasperante. E davvero un segno di incomprensione, non di Israele, ma della letteratura. La letteratura ha molti strati e solo uno di questi è politico. Il fatto di essere israeliani non significa che non siamo gelosi delle nostri mogli, che non ci innamoriamo, che non alleviamo i figli, che non facciamo le cose che fanno tutti quanti. Prima di essere israeliani siamo esseri umani. Per la gente comune può essere molto difficile vivere qui, ma per uno scrittore è un paradiso. È un luogo appassionante e io lo considero un privilegio». Quali sono i limiti e i vantaggi di scrivere in ebraico? «Che puoi giocare con tutti gli strati dell’ebraico, da quello biblico a quello rabbinico, a tutti gli altri periodi, fino allo slang israeliano più recente. Ma si ricordi che per milleottocento anni la gente non parlava in ebraico, lo usava solo per scrivere e per pregare. I bambini e i soldati non parlavano in ebraico, mentre si faceva l’amore non si parlava in ebraico, e così all’ebraico mancava lo strato familiare della quotidianità. Oggi lo slang israeliano è prolifico e ben consolidato, è un lessico a sé stante. È nato perlopiù nell’esercito e può essere usato per esprimere praticamente qualunque cosa. Da quando Israele è meta di immigrazione, lo slang serve anche da denominatore comune per chi viene dalla Russia o dall’Etiopia». Lei conosce lo slang? «Ho dei figli, quindi mi confronto di continuo con lo slang. Lo slang porta vitalità alla lingua ma è pericoloso nel senso che contribuisce al costante processo di deterioramento dell’ebraico. Sono sempre meno i bambini in grado di leggere la Bibbia, per non parlare del Talmud. Io dovevo tradurre interi capitoli della Bibbia ai miei figli perché i loro insegnanti non riuscivano a capirne il linguaggio o quanto meno le sue connotazioni e associazioni linguistiche. Evidentemente per loro è meno significativo di quanto non lo fosse per chi è cresciuto negli anni Cinquanta e Sessanta, quando imparare l’alto ebraico era fondamentale per diventare israeliani. Certe volte, quando scrivo una parola e capisco che non verrà capita da tutti, mi chiedo se usarla o meno. Mi preoccupa, perché se il linguaggio che utilizziamo è piatto e stagnante, allora anche la nostra realtà diventerà piatta». In Vedi alla voce: amore lei dice che la parola frustrazione fece la sua comparsa nel dizionario ebraico solo a metà degli anni Settanta. Lei scrive che "chi parlava solo ebraico non era mai frustrato. Poteva essere arrabbiato o deluso, o aver provato un senso di scompiglio in certe situazioni, ma la sensazione acuta di frustrazione gli era sconosciuta fino a quando la parola per designarla non venne tradotta dalla lingua inglese". «E come siamo diventati tutti felicemente frustrati una volta avuta quella parola! Ricordo il senso di rivelazione per aver trovato finalmente un nome a quella sensazione. Prima di avere quella parola, tiskul, c’era solo la vaga e deludente impressione di possedere un concetto impreciso e inesatto. E poi, ci saranno stati un centinaio di tipi diversi di tiskul di cui non eravamo a conoscenza perché avevamo messo tutto in un unica parola. E magari un giorno ne scopriremo altre versioni ancora, più sfumate». Quindi l‘ebraico contemporaneo è una lingua che si concede allo scrittore come una tela bianca, dandogli nuove opportunità di essere plasmata via via che ci scrive sopra? «L’ebraico è una lingua flessibile e si presta con entusiasmo a ogni sorta di gioco di parole. Puoi parlare della Bibbia in slang e descrivere in modo biblico la vita di ogni giorno. Ti puoi inventare parole comprensibili a chiunque perché quasi tutte hanno una radice e la gente conosce le derivazioni o in genere le può intuire. È una lingua conturbante. È immensa, eroica e gloriosa, ma al tempo stesso presenta grandi lacune che non chiedono altro che di essere colmate dagli scrittori». Dunque è questo il compito dello scrittore? «Sì, lo scrittore non dovrebbe mai dare niente per scontato, formulazioni, parole, realtà, niente. È uno dei motivi per cui i bambini mi affascinano così tanto, loro non danno mai niente per scontato. É tutto nuovo, sorprendente, una rivelazione costante. Ricordo di essere rientrato da una vacanza estiva e di aver trovato il mio miglior amico una spanna più alto di me. O del giorno in cui la casa si è riempita improvvisamente di gente, e la nonna che piange, e il nonno è da qualche parte e non torna più, e nessuno ti dice dov’è. O gli adulti che bisbigliano i loro segreti. Da bambino avevo sempre la sensazione che appena mettevo piede in una stanza, qualcuno si zittiva all’istante, come se avesse appena parlato di cose tremende fino a un momento prima. Una sera, quando mio figlio aveva tre anni, mentre lo mettevo a letto, gli spiegai che era il ventuno dicembre, la notte più lunga dell’anno. Gli rimboccai le coperte e gli diedi il bacio della buonanotte. Alle prime luci del mattino seguente, lui arrivò in camera nostra tutto sudato, agitato e rincuorato, e gridò: "Papà, Mamma, è finita, la notte è finita!". Si immagina in quali scenari aveva dovuto girovagare per tutta la notte? Perché per lui non era affatto scontato che il sole si sarebbe alzato la mattina dopo. Cerco di ricordarmelo, quando scrivo. Io voglio essere tradito, portato in un terreno pericoloso, in contrasto con le presunzioni fondamentali che ho di me stesso, della mia famiglia, del mio paese». Fa leggere mai quello che scrive mentre sta lavorando? «Sì, ma con sul libro che sto scrivendo adesso, per esempio, ho dovuto lavorarci quattro anni prima di riuscire a farlo leggere a mia moglie e a un paio di amici». Sua moglie è il suo primo lettore? «Sempre. Ne parliamo in continuazione anche prima che legga i miei testi. Il romanzo al quale sto lavorando è un po’ come un’altra vita all’interno della nostra. E parliamo molto anche del suo lavoro. Mia moglie è una psicologa clinica». Anche la moglie di A.B. Yehoshua è psicologa. «E una buona combinazione perché le due professioni sono così vicine fra loro. Michal mi influenza con il suo lavoro e io influenzo lei con il mio. Ma più che la sua professione, sono stati il nostro matrimonio e la sua famiglia a cambiarmi profondamente. E lei che mi ha fatto diventare di sinistra. Ricordo la prima volta che abbiamo litigato per via della politica. Io e Michal ci siamo conosciuti nell’esercito, da giovani soldati, e una sera siamo andati a vedere uno spettacolo di cabaret di Hanoch Levin, un drammaturgo di sinistra, un genio. Levin disse le cose più tremende sull’occupazione e sul nostro modo di trattare i palestinesi. Avevo diciotto anni e non mi ero mai confrontato con quel modo di pensare. Ero sconvolto. E poi il nonno di Michal era un comunista e la sua famiglia era assolutamente contraria all’occupazione come mi resi conto la prima volta che andai a casa loro. Mi aprirono gli occhi». Spesso viene associato a Yehoshua e Amos Oz. Si sente in competizione con loro? «Possiamo ritenerci buoni colleghi. In altri paesi probabilmente ci sarebbe parecchia gelosia e competizione. Non posso dire che non ci sia gelosia fra gli scrittori in Israele, è assolutamente naturale. C’è persino un proverbio ebraico che recita: "Kin’at sofrim tarbeh hochmah", la gelosia fra scrittori produrrà solo altra saggezza». Cosa significa? «Significa che la competizione è positiva, ti costringe a essere più creativo». / suoi personaggi sono spesso preoccupati del linguaggio e delle parole. In Vedi alla voce: amore, Momik gioca a contare sulle dita il numero di lettere che compongono una parola. Aron, nella Grammatica interiore, sceglie alcune parole speciali che non può pronunciare per sette giorni fino a quando non saranno "purificate". E Shaul in "Follia" si mette in testa che la moglie ha una relazione perché usa parole nuove e sta studiando il portoghese. In Che tu sia per me il coltello, Yair scrive: "[...] Una volta pensavo di insegnare a mio figlio un lessico privato. Per isolarlo di proposito dalle parole del mondo e mentirgli fin dalla nascita, così che credesse solo ed esclusivamente a ciò che gli avrei insegnato io." Che valore ha per lei questo lessico privato? «Probabilmente è la prima motivazione che fa di te uno scrittore: il bisogno di chiamare le cose con nomi personali. È anche un modo per rendere meno alieno il mondo esterno. Utilizzando un lessico personale – frutto di alcune combinazioni di tempi, di usi specifici delle parole – i lettori possono sentire la peculiarità del tuo mondo interiore, e credo rispondano anche». Ma nei suoi libri c’è anche un persistente sospetto di potenziale disonestà e di manipolazione attraverso il linguaggio. «Avendo vissuto così tanti anni in Israele ho visto quanto è facile manipolare il linguaggio. La gente è quasi desiderosa di essere manipolata perché non vuole conoscere la realtà in cui vive, è troppo dura da sopportare. Usa un falso linguaggio che crea un cuscinetto fra sé e la realtà, il contrario cioè di quello che il linguaggio dovrebbe fare. Questo prevede, per esempio, la negazione del nemico attraverso demonizzazioni, stereotipi, enfatizzando solo gli elementi negativi. Al contempo, però, non possiamo veramente aspirare a possedere la verità tutta, possiamo solo sottolineare l’ambiguità del linguaggio. E questo è molto importante perché io non so cosa sia giusto o sbagliato in assoluto, però quando uso gli stessi termini del mio governo per descrivere la situazione, dovrei anche instillare un altro punto di vista. Faccio parte di un’organizzazione chiamata Keshev che significa "attenzione". È un’organizzazione che porta avanti un progetto lanciato da israeliani e palestinesi per monitorare il linguaggio usato sulla stampa israeliana e su quella araba. E molto interessante vedere quanto sia facile manipolare l’opinione pubblica attraverso lo spazio dedicato alle notizie sui quotidiani o tramite un titolo che a volte contraddice il contenuto dell’articolo. Le menzogne vengono ripetute fino a quando non filtrano nella testa della gente. Prenda per esempio l’idea, così radicata in Israele, che non abbiamo un alleato fra i palestinesi. Keshev conduce studi sistematici sul modo in cui questo concetto viene inculcato attraverso le notizie riportate dalla radio e dalla televisione». Fino a poco tempo fa non si poteva nemmeno dire "palestinese". «Proprio così. La gente era furibonda perché avevo usato quella parola in Sleeping on a Wire. Mi dicevano: "Perché mette in testa certe idee?". Gli altri arabi sono gli egiziani, i siriani, i giordani, solo gli israelo-palestinesi si chiamano arabi, abbiamo paura del termine "palestinese". Quando facevo il conduttore alla radio, avevo un dizionario specifico di termini e parole che non potevo usare. Non potevo parlare di "territori occupati". Ogni giorno dovevo dare notizia di un palestinese ucciso dai soldati israeliani e la frase di rito era la seguente: "Nel corso di disordini nei territori, un minore del posto è rimasto ucciso". Ogni singola parola di questo enunciato è falsa. "Nel corso di disordini", come se ci fosse un ordine specifico che è stato violato; "nei territori" per evitare di parlare di territori occupati o di occupazione; "del posto" per non dire "palestinese" – guai se scoprissero di essere palestinesi, potrebbero rivoltarsi contro di noi; "minore", poteva avere due o tre anni. E dovevamo usare sempre la costruzione passiva "è rimasto ucciso", in modo da non dover dire chi aveva imbracciato veramente il fucile e ammazzato quel bambino. E non facevamo mai i nomi delle vittime, fino a quando qualcuno di noi ha protestato che i nomi di chi era stato ucciso dall’esercito andavano detti. Anche se sostiene l’occupazione, la gente dovrebbe assumersi qualche responsabilità per il fatto che i nostri soldati, in nome di questa politica, hanno ucciso una certa persona». Tra i libri che ha scritto, ce ne sono alcuni che, a suo sentire, sono stati travisati, persino in Israele? «I miei libri politici sono stati attaccati ferocemente dalla destra. Il vento giallo, per esempio, ha sollevato un’ondata di ostilità, e non solo con lettere e telefonate. Ci hanno sabotato l’auto, hanno bloccato il radiatore così dopo tre chilometri ha cominciato a fumare. C’erano anche due bambini a bordo. E poi, sono stato pubblicamente redarguito dal primo ministro Yitzhak Shamir e alla fine mi hanno licenziato dalla radio». Che cosa le aveva detto Shamir? «Io leggevo le notizie del mattino e così fui costretto a intervistarlo in occasione del ventesimo anniversario della Guerra dei sei giorni, una festa nazionale. Voleva una grande parata militare e gli domandai se era proprio necessario in un momento di tale crisi economica per il paese. Non si potevano usare quei soldi per altri scopi? Gli chiesi anche dei palestinesi, dicendo che avrebbero potuto scatenare una rivolta. Lui si fece rosso in volto, poi afferrò il microfono e lo scagliò via. Mi rispose: "Scrittore mio, lei può inventarsi ciò che vuole nei suoi libri, nella sua immaginazione. Arabi e palestinesi non hanno mai goduto di una situazione migliore di quella che vivono sotto il nostro governo. Non faranno mai quello che lei va dicendo". Prese la porta e si rifiutò di continuare l’intervista. Dopodiché seguì un lungo negoziato. Io ero bloccato nel suo ufficio, da solo con uno dei suoi assistenti e un tecnico. Che fare in una situazione del genere? Alla fine tornò indietro per finire l’intervista, ma per un anno e mezzo non me ne concesse altre. Ero uno dei due conduttori e non potevo intervistare il Primo ministro, s’immagina? L’ironia volle che un anno e mezzo dopo scoppiò l’Intifada. Quello che avevo scritto nel Vento giallo si avverò. La politica di Shamir si rivelò un completo disastro». Nonostante il suo personaggio pubblico, lei è una persona molto schiva. Eppure la tragedia privata della morte di suo figlio è diventata il dolore di tutto un paese. Come fa a sopportarla? «È stato diffìcile e molto strano, perché il dolore ha una sua natura così privata. Nonostante ciò, sento che molte persone, dentro e fuori Israele, hanno avuto reazioni di profonda empatia e di shock. Ho ricevuto tantissime testimonianze da parte di palestinesi, egiziani, libanesi, giordani, iracheni e iraniani che mi hanno scritto o detto in diverse occasioni che per la prima volta provavano dolore per un soldato israeliano. Per me Uri non è un soldato israeliano, è mio figlio. Ma qualcosa, in quelle parole, mi ha toccato il cuore. Non sono in grado di parlare di Uri in pubblico. L’ho fatto all’orazione funebre perché quello è il luogo in cui un padre deve piangere il proprio figlio, ma non posso parlarne pubblicamente in nessun altro modo. Non è passato nemmeno un anno da quando è successo. Ho bisogno che resti un fatto privato. Mi dispiace». La sua tragedia personale si è riflettuta sulla sua scrittura in qualche modo? «Quando non scrivo sono in un altro luogo con il mio dolore. Quattro anni fa, quando Uri entrò nell’esercito, cominciai a lavorare a un romanzo che diventò molto importante per la mia vita. Si rivelò inaspettatamente profetico. La parola "felice" in questo caso potrà sembrare inappropriata, ma posso dirmi felice di aver scritto proprio quel libro, e non un altro, perché il luogo che ho creato nei tre anni e due mesi prima della morte di Uri adesso è l’unico in cui posso restare con ciò che mi è successo, che ci è successo. Posso essere lì completamente, e voglio esserci, di qualunque circostanza io stia scrivendo, indifeso e completamente vulnerabile, per compiangerlo e al tempo stesso per sentire l’estrema vitalità di ciò che abbiamo perso. Così, la mia difficoltà a immergermi dentro un romanzo in questo periodo non è dovuta solo al fatto di vivere in Israele, in questa realtà folle, violenta, ma anche al fatto che adesso vivo una determinata esistenza. Mi riesce molto diffìcile parlarne». Pensa che la vita non sia più bella? «Adesso è una vita penosa. È come un inferno al rallentatore, costante. Io non cerco di sfuggire al dolore, lo affronto in modo intenso nella mia scrittura, e non solo nella mia scrittura. Se devo soffrire, voglio capire pienamente la situazione in cui sono. Non è un luogo facile in cui vivere, però va vissuto. Se questo è il mio destino, lo voglio, è una situazione umanamente difficile da vivere ma voglio provarci. Una cosa che so per certo è che, se non avessi scritto quei personaggi, quelle storie, sarei molto meno felice e probabilmente molto meno normale. Scrivere mi permette di esplorare situazioni che sarebbe impossibile analizzare nella vita. Eppure sono parti molto attive di me. Sono un soggetto estremo dal punto di vista emotivo e scrivere mi permette di andare avanti». Cosa intende per estremo? «Intenso, che non ha paura del limite delle persone, che è incuriosito dalle vite interiori degli altri, soprattutto nei luoghi di repressione. Io metto sempre in discussione ciò che osservo. Ogni volta che guardo qualcosa, vedo sempre le incrinature – anche prima di quello che mi è successo. E un modo di vedere e non posso dire di averlo scelto, però mi ci abbandono volentieri perché credo sia una visione fedele della fragilità della vita. Tutto ciò che è calmo e sicuro mi pare un’illusione». David Grossman è nato a Gerusalemme nel 1954. Dopo essersi laureato all’Università Ebraica, ha lavorato come attore e giornalista per la radio di stato Kol Israel. Ha scritto sette romanzi, il primo intitolato II sorriso dell’agnello, uscì nel 1983. Tra gli altri romanzi: Vedi alla voce: amore (1986), Ci sono bambini a zigzag (1997), Che tu sia per me il coltello (2003), Qualcuno con cui correre (2004) e Il miele del Leone. Il mito di Sansone (2006). Grossman ha anche pubblicato racconti, novelle, libri per bambini e saggi fra i quali due reportage sul campo sulle relazioni fra israeliani e palestinesi: II vento giallo (1998) e Sleeping on a Wire. Conversations with Palestinians in Israel (1993). Nel 2007 Grossman ha ricevuto l’EMET Prize e nel 2008 il Geschwister Scholl Prize. I suoi libri sono stati tradotti in più di venti lingue. Jonathan Shainin è editor responsabile dell’arte per il quotidiano The National che viene pubblicato ad Abu Dhabi, e curatore, insieme a Roane Carey, del libro The Other Israel. Voices of Refusal and Dissent. I suoi articoli sono usciti su The Nation, Bookforum e Salon.