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 2013  maggio 10 Venerdì calendario

LA LEGGENDA METROPOLITANA DEL PRESIDENTE CHE SALÌ SUL TAXI A PECHINO


Nelle antiche fiabe cinesi, proprio come nelle Mille e una notte, ogni tanto l’imperatore viene colto dal desiderio di conoscere il mondo com’è davvero, di calarsi nei panni di un povero suddito qualunque, e magari anche di orecchiare ciò che il popolo pensa e dice di lui. L’imperatore allora si traveste da poveraccio, inganna la sorveglianza dei suoi cortigiani e dei suoi soldati, esce dal palazzo e s’immerge nella folla senza essere riconosciuto. Naturalmente ai lettori di quelle favole non sarebbe mai venuto in mente che quello era un comportamento democratico. L’imperatore non si sognava di cancellare davvero la distanza tra lui e la plebe. Il sotterfugio era momentaneo, un trucco per calarsi «al di là dello specchio», magari con l’intenzione di ricavarne saggezza, ma tornando poi a comandare dal trono imperiale.
È cosi che si sarebbe dovuto interpretare lo strano caso di Xi Jinping sul taxi di Pechino. Una storia che è parsa verosimile, ma solo per poche ore, nella Cina di oggi. Dunque, l’antefatto è questo: all’inizio di aprile è uscita la notizia che il nuovo numero uno della Repubblica Popolare, Xi Jinping, era stato visto per le vie della capitale mentre saliva su un taxi, come un cittadino qualsiasi. Senza scorta, senza auto blu, senza corteo al seguito, senza paralizzare il traffico. Il primo a riportare quella notizia fu un giornale di Hong Kong, ma molto vicino al partito comunista. Vista l’attendibilità di quella fonte, il resoconto fu ripreso da organi d’informazione del tutto ufficiali, compresa l’agenzia stampa Xinhua (Nuova Cina). Con tanto di dettagli sull’amabile conversazione tra il segretario generale del partito comunista e il tassista di Pechino: una chiacchierata molto terra-terra, su problemi concreti, come il traffico, l’inquinamento, il costo della vita. La bella favola sull’imperatore travestito da popolano è durata poche ore. Era tutto falso. L’agenzia Xinhua ha dovuto fare una retromarcia clamorosa, smentendo la notizia. Pura leggenda metropolitana. Nel frattempo però il falso Xi Jinping a spasso per la capitale su un taxi aveva scatenato una gran quantità di commenti, sui siti e sui blog. La censura di Stato ha faticato parecchio, ex post, per cancellare tutto quel brusìo imbarazzante generato da una bufala.
Per chi come me ha vissuto a lungo in Cina, quella non-notizia è quasi più eccitante che se fosse vera. Casa mia, a Pechino, era a pochi isolati di distanza da Zhongnanhai. Io vivevo sul laghetto Houhai e Zhongnanhai significa laghi centrale e meridionale. Si tratta dei laghetti che si trovano subito a nord della Città proibita, in quella che in epoca medievale fu l’area abitata dalla nobiltà, dai cortigiani, dai servitori della Corte imperiale. Zhongnanhai è diventato, già ai tempi di Mao Zedong, il quartier generale della nomenclatura. Lì dentro alloggiano i massimi leader cinesi con le loro famiglie. Io abitavo a poche centinaia di metri, e tuttavia avrei potuto essere a migliaia di miglia: tra noi comuni abitanti di Pechino e i residenti di Zhongnanhai, le differenze erano abissali. In termini di ricchezza, segretezza, e isolamento, la casta cinese – per usare un termine che gli italiani hanno preso dall’India... – è una delle più privilegiate del mondo. Non solo la cinta di mura che circondano Zhongnanhai è impenetrabile, ma perfino dal cielo è impossibile spiare ciò che accade là dentro. Provate a usare Google Map e scoprirete che in coincidenza con quell’area (vista dall’alto, cioè dal satellite, sta subito a destra della Città proibita ovvero a nord-est di piazza Tienanmen) c’è una zona oscurata.
Li chiamano i principini, e non a caso, certi dirigenti cinesi. L’espressione principini viene usata in modo particolare per Xi Jinping ed altri come lui, che discendono dai padri fondatori della Repubblica Popolare, la prima generazione di dirigenti, i compagni di rivoluzione di Mao. Ma se i padri vissero un’epoca eroica e feroce, i figli governano in un contesto molto diverso. La Cina di Xi è stata capace di innalzare il tenore di vita di centinaia di milioni di suoi cittadini. Nel farlo, però, la nomenclatura si è appropriata di una fetta sproporzionata di ricchezze.
Il caso di Xi e il tassista si colloca in un clima particolare. Da quando il nuovo leader ha preso il posto del suo predecessore Hu Jintao, nel dicembre scorso, uno dei suoi cavalli di battaglia è stata la lotta alla corruzione. Il 2012 era stato infatti l’anno di tutti gli scandali. Il più grave fu quello che portò alla caduta di Bo Xilai, (ex) potentissimo gerarca comunista a Chongqing, accusato di aver costruito un sistema mafioso in senso letterale: si arricchiva con le tangenti e perfino dirigendo un sistema di sequestri di persona a scopo di estorsione (sua moglie fece di peggio, è stata condannata per omicidio).
Per dare un segnale di cambiamento, Xi Jinping ha varato una sua forma di austerity, o per meglio dire un suo codice etico sui «costi della politica». Basta coi banchetti sontuosi per i funzionari di partito, stop ai regali di lusso come borse Vuitton e liquori di marca, addio ai voli in prima classe. Tutto questo è stato ampiamente pubblicizzato. E a sentire il ministro del Commercio, gli effetti si notano perfino a livello macroeconomico. Crollano i consumi di pinne di squalo (una prelibatezza per le minestre), rendendo felici gli animalisti. Si svuotano le cabine di prima classe sui voli di Air China. Intere catene di ristoranti che facevano affari grazie ai banchetti ufficiali, devono ridurre i prezzi e licenziare personale. Gli hotel a cinque stelle vedono arrivare delegazioni di alti ufficiali dell’esercito che chiedono di poter condividere le stanze per risparmiare sul conto. Tutto questo, va da sé, è molto difficile da controllare. I dati che vengono forniti dal governo potrebbero essere manipolati. I membri della nomenclatura possono avere trovato altri sistemi per elargirsi lussi e prebende, pur rispettando in apparenza le nuove consegne di austerity. Infine, tutta questa operazione lanciata da Xi non va alla sostanza del problema: che è il monopolio del potere da parte del partito comunista. È grazie a quel monopolio che il clan di Xi (così come quello dell’ex premier Wen Jiabao) oggi controlla patrimoni dell’ordine di alcuni miliardi di euro. Ragnatele di società finanziarie intestate a mogli, figli, parenti vicini e lontani. Uno squarcio di luce su questi sistemi fu fatto da una celebre inchiesta del New York Times e dell’agenzia stampa Bloomberg, prontamente ripagati con censure e blackout dei loro siti in Cina...
Dunque, quando la storia di Xi a spasso in taxi è stata lanciata ai lettori cinesi, la sua presunta credibilità derivava dal contesto. Si è potuto pensare – ci sono cascati perfino gli zelanti giornalisti governativi dell’agenzia Xinhua – che in uno slancio di populismo occidentale, Xi volesse davvero mescolarsi alla folla, far finta di essere un cittadino come gli altri. Come un premier danese o un monarca svedese, insomma, di quelli che puoi incontrare a spasso in bicicletta o nel metrò. Niente di tutto questo. Semmai, la storia di Xi e il tassista andava collegata con le antiche favole sugli imperatori «travestiti per un giorno», ché di quello si sarebbe trattato. Ma gli imperatori delle favole avevano guizzi di audacia e di fantasia che fanno difetto ai leader comunisti di Pechino. In quanto a populismo, Xi pensa di aver fatto la sua parte sposando una pop-star, una nota cantante che nel ruolo della First Lady porta un glamour fin qui sconosciuto. Che i cinesi si accontentino. E non pretendano di spiare quel che accade dietro le mura di Zhongnanhai.