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 2013  maggio 10 Venerdì calendario

IL DITTATORE CHE STUDIÒ IL TEATRO E LA PUBBLICIT


Adorabili quei baffetti. Negli anni Trenta, per le ragazze di certa buona società britannica, Adolf Hitler era più di un magnetico demagogo: era un sex symbol. Esempio? Agosto 1936. Stadio di Berlino. Inaugurazione della XI Olimpiade. Tra 100 mila spettatori, spicca in prima fila una palizzata di groupie osannanti venute dall’Inghilterra per avvicinare o semplicemente avvistare il Grande Capo, respirare l’aroma che lui sprigiona nel Secolo. Giovinette dell’aristocrazia e dintorni. Per loro, le vacanze nella bruna Germania rappresentano ormai un viaggio di formazione, una specie di Erasmus mondano-sentimentale, dentro cui palpita un cuoricino ideologico. Visitano musei, fanno sport, escursioni balsamiche... Ma assistono pure a comizi nazisti, partecipano a serate di gala eppoi se ne vanno a zonzo in notti brave con i gerarchi. «Oggigiorno, non c’è aspetto più umano nella personalità di Hitler del piacere che gli procura la compagnia delle tipiche ragazze inglesi» scriveva il corrispondente del Daily Mail, cioè il più filotedesco tra i quotidiani britannici dell’epoca.
Il Führer popstar ante litteram? Che Oltremanica robuste porzioni dell’aristocrazia ultraconservatrice, della piccola nobiltà e dell’esercito simpatizzassero per lui, è cosa nota. Ma l’indiscreto fascino esercitato da Hitler sulle jeunes filles en fleurs è adesso approfondito dalla scrittrice e giornalista inglese Rachel Johnson nel libro Winter Games (Penguin Books). Un romanzo. Però basato su femminili memorie familiari. Di ritorno dalla Germania, quelle inglesi «dicevano meraviglie degli esemplari campi di lavoro che avevano visitato. E cinguettavano su quell’uomo incantevole di nome Adolf» scrive l’autrice. Una testimone le confessa: «Hitler? Certo, forse ha un po’ esagerato. Ma era fantasticooo!». Fantastico al punto da abbracciarselo forte forte e da farci un figlio? Chissà. Però era quanto raccontava qualche anno fa Channel Four a proposito di Unity Valchiria Midford, aristocratica inglese (1914-48) divenuta ultimissima del Führer e forse madre del suo figlio unigenito – (ma occhio, di Hitler jr. la fantastoria è imbottita) – che potrebbe ancora essere vivo.
Etero? Bisex? Omo (inconfessato)? Asessuato? Coprofilo? Masochista? Sado-incestuoso? Addirittura mitica creatura monotesticolare? Sulla sessualità di Hitler se ne son dette d’ogni colore, senza peraltro capirci mai un granché. Ma la sua libido sfuggente accresce l’enigmaticità del personaggio e, in qualche modo, il suo turpe carisma. Carisma sul quale gli storici ancora si scervellano.
«In che modo si può spiegare che una persona di così scarse doti (...) abbia potuto avere un così immenso impatto sulla storia e tenere il mondo con il fiato sospeso?». Domanda banale? Mica tanto, visto che a porsela era nientedimeno che Ian Kershaw, tra i maggiori studiosi del Führer. Ma è poi vero Hitler fosse così poco dotato? In che misura la sua devastante Karriere fu fabbricata, un prodotto delle circostanze e di chi con lui interagì, o fu viceversa il frutto d’uno scellerato talento – se non innato quantomeno affinatosi col tempo? In Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco (Feltrinelli), lo storico Ludolf Herbst cerca di riportare l’indagine sul magnetismo hitleriano entro le coordinate dell’analisi storico-sociale. Innanzitutto tornando su quello che potremmo definire lo stravolto donchisciottismo o bovarismo del giovane Hitler. Cioè l’infatuazione per miti e leggende d’una Germania antelucana. Infatuazione che però, nel futuro Führer, avvenne meno per via libresca che attraverso lo Spettacolo – opera e teatro. «Nei primi tre decenni della sua esistenza» scrive Herbst, «Hitler (...) apprese che un’eroica visione del mondo era allestibile e in che modo. Così facendo imparò a conoscere non soltanto gli eroi sul palcoscenico, le arti e le tecniche della messa in scena (...) ma anche il pubblico». In seguito, di quelle conoscenze – intuitive ma modernissime – avrebbe fatto tesoro a più livelli: per «autostilizzarsi», romanzare in senso messianico la propria biografia, e vendersi sul mercato politico; per organizzare la propria oratoria (fondata, tra l’altro, su una – ancora attualissima – «compatta immagine del nemico» che fa immediatamente sentire l’uditore parte di una comunità di puri); per l’uso della propaganda (secondo Lukács applicò alla politica tedesca le tecniche pubblicitarie americane); e per l’impostazione rituale delle esibizioni – dove parlava sempre più spesso a braccio, onde evitare di apparire eterodiretto da chissà quale oscuro ghostwriter; e da una pedana bassa per confezionare l’emozione di una collettività orizzontale.
«La cosa più importante è capire che il carisma di Hitler dipendeva dalla gente. Il carisma non esiste senza connessione. Non puoi essere carismatico su un’isola deserta. In buona parte è frutto degli altri» ha detto in un’intervista lo storico scozzese Laurence Rees, autore del recente The Dark Charisma of Adolf Hitler (Ebury Press). Insomma, il carisma come fatto relazionale: «Quando sentiamo una connessione speciale con qualcuno, crediamo che dipenda dall’altro, ma dipende anche da noi. Il carisma di Hitler veniva tanto da lui quanto da chi lo seguiva».
E magari pure da chi, molti decenni dopo, continuò a subirne il fascino inconfessabile. Prendi gli alti papaveri del gruppo editoriale Grüner+Jahr che assieme ai vertici del settimanale Stern si vollero bere la bufala dei Diari di Hitler. Accadeva esattamente trent’anni fa.
Ma che cosa si nascondeva dietro l’ottuso rifiuto di sottomettere a serie perizie quei documenti – che oltretutto non erano falsificati, ma ridicolmente falsificati? Un accecamento bottegaio da scoop (pagato a caro prezzo: 9,5 milioni di marchi) o uno strano irretimento da hitlerismo di ritorno? Secondo lo studioso Giorgio Galli non c’erano né l’uno né l’altro, ma addirittura un sofisticatissimo complotto dell’intelligence britannica per seppellire – come fosse pure lei una bufala – la scabrosa verità di un’Inghilterra (o almeno di un pezzo d’Inghilterra) che volle patteggiare con Hitler. Esposta nel saggio Con trucco e con inganno (Hobby & Work), l’ipotesi è perlomeno audace.
Marco Cicala