Marco Del Corona, Corriere della Sera 10/05/2013, 10 maggio 2013
NON SOLO SUSHI. IL FASCINO INDISCRETO DI UNA CULTURA POP
L’ascesa della Cina potrà averla offuscata, e a tratti sarà anche sembrata una eclissi, ma la capacità di seduzione culturale del Sol Levante non è mai tramontata. Le icone del Giappone erano soft power già prima della definizione del soft power: quello che la Repubblica Popolare tenta di costruire a tavolino, con dispendiose pianificazioni, a Tokyo è normale. E dal composito universo della letteratura e dei fumetti manga a scrittori autenticamente globali come Banana Yoshimoto o Haruki Murakami, fino all’onnipresenza del sushi, c’è un made in Japan che si irradia da sé. Senza negarsi, in più, una rivincita paradossale sugli arcirivali: se per scrittura, buddhismo, cultura del tè l’arcipelago nipponico è debitore nei confronti della Cina, la cultura pop giapponese modella a sua volta quella cinese, tra videogame e moda di strada. Addirittura con estremi di inconsapevole malizia, alla luce delle tensioni sulle isole Diaoyu/Senkaku: pare uno sberleffo, ad esempio, che proprio a Pechino l’Accademia centrale di Belle arti sia di Arata Isozaki.
La vivacità creativa della Cina oggi è fuori discussione, ma la lunga esposizione del Giappone all’Occidente dà i suoi frutti. Gli ultimi mesi, quando a Tokyo la cura Abe ha cominciato a fare effetto almeno sul piano psicologico dopo anni di depressione, non hanno mancato di segnalare la tenuta di una certa aura nipponica. In marzo Toyo Ito è stato il sesto giapponese a ottenere il Pritzker Prize, il Nobel dell’architettura, sigillando una sequenza inaugurata nell’87 da Kenzo Tange e nella quale compare anche un altro celebre disseminatore globale di Giappone, Tadao Ando (1995). A febbraio, invece, il museo Guggenheim di New York aveva inaugurato «Gutai: the Splendid Playground», presentata come l’epocale, «pionieristica prima mostra mai realizzata in Nord America» sull’avanguardia artistica che segnò il Giappone tra il 1954 e il ’72 e che oggi guadagna le attenzioni dei collezionisti. Un anno fa — altro esempio — la Tate Modern di Londra si era popolata delle creazioni di Yayoi Kusama, una artista che trasmigra da un museo all’altro con trionfale vistosità, e la stessa virale ubiquità dimostrano fra gli altri Takashi Murakami o le bimbe arcigne di Yoshitomo Nara.
C’è tutto un ampio sostrato di tenaci erotismi (dall’«Impero dei sensi» del compianto Nagisa Oshima in poi) e di variegati spaventi (dai vari Godzilla che sublimavano lo shock nucleare di Hiroshima e Nagasaki fino all’ultimo arrivato nei nostri cinema, «Confessions» di Tetsuya Nakashima). Il recente recupero della «Kiki» di Hayao Miyazaki sancisce che i cartoon di livello sono ormai classici contemporanei così come Mario, personaggio di un gioco Nintendo, è ormai un termine gergale senza confini. E c’è una scrittura alta che non scompare dagli scaffali dell’Occidente. Yukio Mishima, le minuzie psicologiche di Yasunari Kawabata, la sensualità di Junichiro Tanizaki sembrano avere all’estero una presa costante che neppure il sommo cinese Lu Xun pare sapersi garantire, così come il Nobel a Mo Yan non basta a pareggiare i conti con la doppietta di Kawabata (1968) e di Kenzaburo Oe (1994). Banana Yoshimoto ha colonizzato immaginario e scritture, facendo del suo stile apparentemente elementare un modello capace di reggere a ogni metamorfosi. Più caldo ancora il caso di Haruki Murakami, che di Banana sembra aver preso il ruolo di testimonial. La conferenza di lunedì scorso a Kyoto (la prima in Giappone in 18 anni), con i suoi 500 posti estratti a sorte tra gli aspiranti spettatori, ha ingolosito i fan di Murakami. Sa toccare le corde sensibili, il maratoneta dilettante Murakami: il suo saggio appena pubblicato dal New Yorker sulla corsa di Boston, città dove visse, ha mostrato una discreta sintonia con il suo pubblico.
La campionatura della stabile presenza nipponica nei gusti di noi occidentali può proseguire. Il pianista Lang Lang inorgoglisce la Cina, ma il direttore Seiji Ozawa è già un classico. Prima o poi gli stilisti cinesi raggiungeranno i vertici della moda internazionale, ma per ora Yohji Yamamoto è più famoso. E sono i calciatori giapponesi, da Hidetoshi Nakata all’interista Yuto Nagatomo, a trovare spazio nei club occidentali. Anche il calcio giova all’appeal globale.
Marco Del Corona