Alfred De Montesquiou, Panorama 9/5/2013, 9 maggio 2013
LA GUERRA DEI MARTIRI BAMBINI
Quando avvertiamo il suono stridulo della granata, è già troppo tardi per trovare un riparo: esplode a una quindicina di metri, spazzando via una porzione di edificio nel quartiere di Salaheddine. Mohamed Rabi non si è nemmeno scomposto: ne ha viste scoppiare tante quando si trovava in prima linea. «Qualche volta all’inizio provavo un po’ di paura» afferma il giovane ribelle. «Ora non ci faccio più caso». Alto come un soldo di cacio, Mohamed ha il volto segnato dall’acne e una voce fievole: con la sua uniforme militare e il suo pesante kalashnikov ha un aspetto bizzarro. Afferma di avere 17 anni e di combattere già da due. Il suo gruppo (katiba) controlla una delle zone più calde di Aleppo. Dopo tre ore trascorse al posto di guardia, Mohamed è riuscito a riposarsi un po’ su un vecchio materasso all’interno del negozio dai muri carbonizzati che funge da nascondiglio. Poi sono ripresi gli spari.
È da agosto che Aleppo è divisa in due. Ci sono scontri da un palazzo all’altro. Combattimenti lenti, sporadici, ma pericolosi. Mohamed usa il tipico gergo scanzonato dei ragazzini esaltati per una guerra civile nelle cui fauci sta cadendo un’intera generazione di giovanissimi siriani. Parla l’inglese piuttosto bene. Suo padre, che ha una panetteria in Libano, gli ha pagato una buona scuola. Nel 2011 l’adolescente è voluto tornare nel suo paese per contribuire alla rivoluzione. «La mamma ha pianto» spiega «ma mio padre ha capito. Mi manda del denaro quando riesce».
Il rancio dei ribelli non è il massimo. Alcuni giorni si accontentano di un po’ di tè o caffè. Quando arrivano gli approvvigionamenti trangugiano montagne di riso e, a volte, un po’ di carne. Con il denaro ricevuto dal padre Mohamed compra caramelle e tabacco: «La sigaretta fa bene, rilassa. Fumo sempre quando dobbiamo combattere». Ha ricordi molto vividi della sua prima vittima: un cecchino del regime che ha ucciso quattro mesi fa. «Ha ammazzato il mio amico Abdallah, colpendolo alla schiena, proprio vicino a me. Mi sono girato per sparargli una raffica di colpi. Non ho visto il suo viso, solo il suo corpo accasciarsi a terra».
Per gli insorti la barricata è costituita da un mucchio di rifiuti e detriti. La via puzza ed è piena di pozzanghere. Ma Moustafa, 16 anni, è fiero del cumulo di macerie a cui fa la guardia. Combatte da molti mesi, con il suo sguardo da miope nascosto sotto un berretto da baseball. Ha ribattezzato la linea del fonte ricoprendo la targa ufficiale con un graffito recante il suo nome: «Rue du Martyr Moustafa Sfira» (Via Martire Moustafa Sfira). «Non sono ancora morto e quindi non sono ancora un martire. Ma preparo comunque la postazione per il futuro... tutti i buoni musulmani devono essere pronti al martirio» dichiara, in linea con il dogma jihadista abbracciato da molti ribelli, convinti che la fede sia il loro unico sostegno poiché il resto del mondo li abbandona. «In realtà non vogliamo morire» lo contraddice Mohamed. «Non abbiamo paura della morte, ma naturalmente preferiamo vivere. Il pensiero che diventerai un martire ti sprona a combattere e a non mollare». Gli piacerebbe riprendere gli studi e, un giorno, diventare ufficiale nel nuovo esercito della Siria libera.
Un centinaio di metri più in là un’altra sezione controlla un angolo della via. Sono tutti molto giovani. Alcuni stanno disputando una partita di basket. Ahmed non gioca: due mesi fa un missile ha colpito la sua casa uccidendo suo padre, sua madre e il suo fratellino. Ahmed ha deciso di vendicarsi. I ribelli lo giudicano troppo giovane per combattere, però al tramonto si insinua tra le rovine per passare dietro le linee nemiche. «Spio le loro posizioni, mi segno le postazioni dei carri, il numero di uomini» spiega. Sono centinaia, forse migliaia, come Ahmed che aspettano il loro momento fra le macerie di Aleppo.
Malgrado la guerra, la vita è ricominciata nella grande città settentrionale della Siria. Gli abitanti lasciano i campi dei rifugiati che versano in condizioni igieniche malsane. Preferiscono la loro casa nonostante i bombardamenti quotidiani, la carestia, la minaccia di alcuni gruppi ribelli fuori controllo e simili a banditi, e persino la presenza opprimente di gruppi jihadisti affiliati ad Al Qaeda. Ci sono bambini ovunque. Molti hanno il viso deturpato dalla leishmaniosi. Certi ritornano alcune ore al giorno nelle scuole ancora aperte, ma la maggior parte passa il tempo a bighellonare; al suono di un’esplosione non girano nemmeno più la testa. I più grandi cercano di racimolare un po’ di soldi per aiutare la famiglia, aspettando di raggiungere l’età necessaria per andare a combattere.
«Ho 13 anni. I ribelli non accettano chi ha meno di 15 anni, ma visto che sono alto devo aspettare solo un anno e poi mi potrò arruolare» afferma Nadim Zamour, che sotto un ponte, con una rete rattoppata, pesca degli avannotti nel fiume Queiq. È stato ribattezzato «fiume dei martiri» perché una base della polizia segreta di Bashar al-Assad si trova proprio a monte e gli sbirri del regime gettano nell’acqua i corpi dei loro prigionieri. Nelle ultime settimane sono stati ripescati 270 cadaveri di adulti e bambini con le mani legate dietro la schiena. «Dall’altra parte del ponte, dove batte il sole, ci sono molti più pesci» dice Nadim «però di là i soldati governativi sparano a vista».
Dall’entrata dei ribelli ad Aleppo, nell’agosto scorso, Mohamed Affach fa parte di coloro che appoggiano la rivoluzione senza l’utilizzo di armi. Ha 14 anni ed è diventato infermiere nel grande ospedale Dar al-Shifa, nonostante le stampelle con cui cammina dopo un incidente stradale. Indossa una camicia troppo larga, ha imparato a cambiare le medicazioni, a fare le flebo, o solo a tenere la mano a un ferito in fin di vita. «La prima volta che un mio paziente è morto ho pianto» ammette. Nel suo viso dai tratti infantili lo sguardo s’indurisce. Poi riprende: «Mi sono detto: se vuoi veramente essere d’aiuto, non devi essere una mezza cartuccia. Dopo quella volta non ho mai più pianto».
Nel novembre scorso i razzi dell’aviazione hanno sfondato l’ospedale in cui lavorava, uccidendo 41 persone. Mohamed è riuscito a cavarsela. Mentre continua a parlare con noi s’interrompe per fornire informazioni a nuovi pazienti rassicurandoli. In altri momenti si alza per andare a cercare nel deposito i medicinali spiegando le posologie con tono serio mentre tutti l’ascoltano attentamente. «All’inizio davo una mano solo perché i media erano straoberati» spiega «ma ora amo questo mestiere. Dopo la guerra frequenterò dei corsi per diventare infermiere professionale».
Alfred De Montesquiou
Paris Match