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 2013  maggio 10 Venerdì calendario

QUANDO MILANO CORREVA E IL MAGO E IL PARÒN ACCESERO LE LUCI A SAN SIRO

Correva l’anno 1963 ma soprattutto correva l’Italia, che allora andava di fretta, motorizzata com’era. E Milano di più: il boom ancora nell’aria a rinfrescare l’afa di estati non più polverose – le macerie infine dimenticate – e a diradare la nebbia a colpi di neon e di riscaldamenti accesi. Milano venuta su a fabbriche e case lungo le sue cento viagluck seminate a cemento. Milano spalancata per chi veniva su a far raccolto di speranza, allargandola di un’altra taglia, là dove c’era l’erba, e ricevendone in cambio non solo salario ma completa cittadinanza.
Epperò, in quel ’63 c’era in città pure un campo a modo suo inviolabile, dove asfaltato finiva solo l’avversario di turno. Un campo così verde di fioritura, quanto a talenti, che nessun vicino (e lontano, anche all’ultimo stadio del mondo) poteva vantare in quei giorni. A edificare gloria e onori, successi e coppe, sopra quel prato – fatto di aree rigorosamente protette e chiuse, se necessario, con un bel catenaccio – pensarono due emigrati. Ma non come tanti. Due tipi speciali, “gente di cui hanno buttato via da tempo lo stampo”, che intorno a una sfera di cuoio promossero una sorta di rivoluzione copernicana: capaci di accendere, con una mossa o un proclama, un modulo o una battuta, molto più delle luci che a San Siro, per almeno sei anni, non si spensero più.
Correva l’anno 1963, ed era di maggio, quando Nereo Rocco detto il Paròn (un triestino arrivato l’anno prima a Milano) ed Helenio Herrera, detto il Mago (un argentino ma anche marocchino e francese e pure spagnolo, in città dal ’60), presero a scrivere quello che doveva essere un semplice capitolo della storia del Milan e dell’Inter. Se non che, da quei due, così clamorosamente diversi da essere fatti uno per l’altro, saltò fuori prima un romanzo, poi una saga e oggi siamo ormai al memoriale. Perché quel loro capitolo – in tempi di Corso e Rivera, di Facchetti e Altafini, di Picchi e Trapattoni, di Prati e Mazzola – finì per raccontare, allora, la storia stessa del calcio mondiale.

Che soggetti, “yo” e “mi”. È passato esattamente mezzo secolo da che paròn Rocco alzava nel cielo di Wembley la prima Coppa dei Campioni italiana (2-1 del Milan al Benfica di Eusebio) mentre, sul Corriere della Sera del 23 maggio, usciva un reportage sulla finale firmato dal «nostro inviato a Londra, Helenio Herrera», che aveva appena conquistato con l’Inter il suo primo scudetto. E che dell’alzare Coppe dei Campioni, nei due anni a venire, avrebbe fatto una personale consuetudine.
È passato mezzo secolo dalla “Scala del calcio”, ma Milano non ha mai dimenticato quei due tenores che di una panca di legno fecero un palcoscenico. Quei due strani soggetti, pure linguisticamente parlando - yo e mi: «Yo soy el Mago» e «Mi so el Paròn» – che non conoscevano l’esercizio della banalità. Quei due fenomeni della tattica e della comunicazione che reinventarono il mestiere di allenatore (quanti conoscevano, allora, il nome dei tecnici in panchina?), lo personalizzarono e lo resero, economicamente e mediaticamente, remunerativo fino alla follia. Tanto che viene da sorridere pensando, oggi, ai vari Allegri e Stramaccioni, seduti dove un tempo sedevano loro: bravi ragazzi per carità, ma avvolti sempre dalla nube dell’ovvietà, della frase fatta, del minimo sindacale e cerebrale, coperti da strati di pierre e manager, uffici stampa e addetti alla comunicazione. E che oggi stanno a quei due giganti d’antan – a cui dovrebbero accendere un cero visti gli emolumenti – come il tufo sta alla porcellana.

Personale regale. E siccome Milano non ha dimenticato (e come poteva?) Rocco ed Herrera, ecco che a partire dal 24 maggio e fino all’8 settembre, dedica loro una grande mostra: «Quelli che, MilanInter ’63». E mica in uno scantinato qualsiasi (anche se “il posto delle fragole” di quei due resta lo spogliatoio di San Siro, dove Rocco girava mezzo nudo ed Herrera appiccicava i suoi tazebao), ma a Palazzo Reale, forse perché il “colorito espressionismo” del Paròn è degno di un urlo di Munch e un “disegno tattico” del Mago è più lineare di una tavola di Mondrian. E poi perché certi capolavori di Altafini a Wembley o di Mazzola al Prater, per non dire di quello che ha visto San Siro, valgono la doppia personale in una sede regale. «Con tanto di sala dei trofei», spiega Gigi Garanzini che l’ha curata (e che firma uno splendido affresco di quei giorni – l’altro contributo è di John Foot – sul catalogo Skira, coproduttore della mostra). « Sì, Inter e Milan hanno accettato di esporre le conquiste del Mago e del Paròn che sono, dal ’63 al ’69, quasi equivalenti: tre scudetti, due Coppe dei Campioni e due Intercontinentali per Herrera; e due scudetti, una Coppa Italia, due Coppe dei Campioni, una Intercontinentale e una Coppa delle Coppe per Rocco».
Sarà un modo per ricordare una Milano che, di questi tempi, non fa solo nostalgia. «Ci sarà la lavagna tattica portatile di Herrera e le sue minuziose relazioni. E pure i vecchi armadietti dello spogliatoio, quelli dai quali saltava fuori Altafini per fare uno scherzo a Rocco: ma questi saranno interattivi. Aprendoli, potrai trovarci dentro Jair che prega la Madonnina sotto le guglie del Duomo, oppure il vecchio Carosello del Paròn, quello Anche Rocco veste Facis che, diventato gigantografia in piazza della Scala, lo faceva scondere de la vergogna».

Tavole separate. E ci sarà pure quella città divisa in due, nerazzurra e rossonera, che nei giorni di Rocco ed Herrera, giocava Milan-Inter ogni sera, e non solo al bar, ché i derby erano ovunque: Jannacci e Celentano, Walter Chiari e Gino Bramieri, fino a Oreste Del Buono e Vittorio Sereni. E poi tutti in via Amedei, dove Ottavio Gori, rossonero, era L’Assassino («El mio uficio», diceva il Paròn) e Pietro Gori, il fratello nerazzurro (e papà di Bobo, allora centravanti dell’Inter) era Le Colline Pistoiesi, tana dei Bauscia.
Due posti che non erano solo ristoranti, ma pure sedi sociali, bische ufficiali e redazioni di giornali, ché a cantare il Mago e il Paròn c’era in prima fila Gianni Brera (la mostra gli rende omaggio con la sua vecchia Olivetti e i taccuini degli appunti) e poi, su MilanInter o Supersport – la fame rossonerazzurra in città era tanta e andava placata – Gianni E. Reif ma pure Walter Tobagi. E ancora, Giorgio Lago e Silvio Garioni e tutta una generazione che ha fatto la storia e la letteratura del calcio, prima che spuntassero anonimi travet, fermi al capolinea del virgolettato.
«Sarà un incontro, la mostra di Palazzo Reale, per tre generazioni di tifosi, quasi un passaggio di testimone tra nonni, padri e nipoti di fede», aggiunge Garanzini, che ai cent’anni di Rocco aveva già dedicato la rassegna triestina dell’anno scorso, compresa la riedizione del suo La leggenda del Paròn.

Solitario e scopone. E sarà un modo per “pensarli ancora dietro al motore”, quei due dirimpettai. Rocco che diceva all’esordiente Lodetti: «Oggi io e Gipo Viani siamo diventati matti, abbiamo deciso di farti giocare»; ed Herrera che incita i suoi col tacalabala. Rocco più vecchio di Herrera, ma mica era vero, ché solo a Mago morto la sua Fiora (Gandolfi, la terza moglie) scoprì che s’era tolto sei anni, ché era del ’10, mica del ’16, anche se fino all’ultimo, parola delle sue amiche, corteggiava senza sosta. Rocco che amava giocare a carte e andava avanti a sfidare l’alba. Helenio che amava scrivere e andava di appunti a ogni ora del giorno: un solitario l’uno e “a scopone” l’altro. Herrera dall’ego formidabile – yo e ancora yo – suoi tutti i meriti e le colpe a chi capitava. Rocco dall’ironia sorniona, buono a fare autocritica ma anche a dar del mona pure al siòr ambasiatòr (accadde, accadde...) Helenio maestro inflessibile, generatore di quei tecnici ossessivi che, passando da Sacchi arrivano a Mourinho; e Rocco, invece, padre putativo delle panche di buon senso, da Bearzot (che ebbe al Torino) fino al Trap e a Bagnoli.

L’addio. Era il 1969 quando Milano scoprì d’essere cambiata. A vincere per ultimo (l’Intercontinentale a Buenos Aires) fu Rocco, che aveva aperto a Londra le marcature. Era l’estate del ’69 e Milano stava per perdere l’innocenza: finito il boom, di lì a poco scoppiava la Bomba. Ma il Mago se n’era già andato a Roma (e quando tornò all’Inter fu un infarto a congedarlo) e il Paròn, senza più vincere granché, finì senza sfidanti: anche la favola di yo e mi aveva chiuso i battenti.