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 2013  maggio 10 Venerdì calendario

DOVE LA RICERCA NON È UN COSTO MA UN BUSINESS

«La gente vuole sapere quello che pensano gli altri», dice Itai Herman, «e su Twitter scorrono già mille domande al secondo». Partendo da questa considerazione, con sette mesi di lavoro Itai e un collaboratore hanno realizzato Askem, una piattaforma per smartphone diffusa da alcune settimane negli Stati Uniti. Si potrà scrivere una domanda e interagendo sui social network si raccolgono istantaneamente le preferenze espresse. Un vero sondaggio real-time che ognuno può compiere e che sarà utile pure al marketing. Dagli stessi laboratori è uscita anche Pixtr, un’altra piattaforma sempre per smartphone, più personale e realizzata da Aviv Gadot. È capace di correggere istantaneamente ogni immagine di un volto fotografato esprimendo la sua condizione ideale in base a informazioni di varia natura, etniche comprese.
Itai e Gadot ci presentano i frutti della loro ideazione nella sede di Tel Aviv di Microsoft, che insediò qui il suo primo centro di ricerca al di fuori degli Stati Uniti ancora nel lontano 1989 e fu una delle prime società fra i grandi gruppi americani ad aprire casa in Israele. Oggi ha quasi 800 addetti, 600 dei quali dediti alla ricerca. Ma è soltanto uno dei quasi trenta più importanti gruppi internazionali che oggi guidano il mondo della tecnologia mondiale creando in questa terra laboratori di ricerca e linee di produzione, distribuendo poi i loro risultati a livello globale.
Se la prima è stata Ibm ancora nel 1949 (oggi ha duemila addetti), il record nelle dimensioni spetta al fabbricante di chip Intel (oltre 7 mila addetti) le cui innovazioni, nate qui, hanno risollevato talvolta le condizioni critiche del marchio statunitense: dallo storico chip “8088” concepito nel 1980 scelto da Ibm per il suo primo pc che aprì un’era, al “Core 2 Duo” nel 2006 che rilanciò la casa californiana. Non a caso Intel ha aperto nella terra di David quattro centri di ricerca. Ma l’elenco include Hewlett-Packard (6.000 addetti), Cisco, Google, per citare solo le più note multinazionali che traggono alimento dai “cervelli” riuniti nella Silicon Wadi (valle, in ebraico) distribuita lungo il Paese, ma concentrate in particolare nella capitale.

Venture capital dinamico. «Dopo gli Stati Uniti, Israele è il miglior posto dove investire», afferma Eric Schmidt, Ceo di Google, nel libro Start-Up Nation: The Story of Israel’s Economic Miracle di Dan Senor e Saul Singer, rispettivamente advisor del governo americano per il MedioOriente e articolista del Wall Street Journal e del Jerusalem Post. I grandi gruppi assimilano le nuove iniziative imprenditoriali: solo Ibm ne ha acquisite 23 dal 2001 al 2009. Molte altre crescono autonome perché il venture capital è rigoglioso. Ben 70 società di questo genere sono attive (14 internazionali) e i capitali, circa 1,3 miliardi di dollari, sono investiti per il 18 per cento nel mondo di Internet, il 19% nelle comunicazioni e il 28% nelle varie scienze. «Ora ci sono più società israeliane quotate alla borsa di New York rispetto a tutte quelle europee», scrivono Senor e Singer.
Ma alla base di tale interesse c’è un governo che da un decennio vede la spesa in ricerca come la chiave dello sviluppo, riservandole il 5 per cento del prodotto interno lordo, il più alto di tutti i Paesi occidentali. «E alle industrie non diamo sussidi, ma con loro facciamo investimenti», sottolinea il ministro della Ricerca, Rabbi Daniel Hershkowitz.
Il sistema parte dalle università con sette atenei (dal Weizman Institute of Science di Rehovot al Technion, l’istituto di tecnologia), ai primi posti per risultati nella classifica internazionale. Negli ultimi dieci anni Israele ha conquistato sette Premi Nobel e le statistiche del World Economic Forum pongono la qualità della ricerca svolta dalle istituzioni al primo posto a livello mondiale davanti a Svizzera, Gran Bretagna, Stati Uniti e Svezia.

Ricerca pubblica e privata. Il secondo aspetto a cui si guarda con attenzione è il trasferimento di conoscenze dai laboratori pubblici alle industrie. Questo è dovunque l’ostacolo principale e per superarlo è stata creata una rete di 24 centri (li chiamano acceleratori) dedicati al sostegno dello sviluppo delle idee in applicazioni. Così Israele si è posizionato al quarto posto mondiale nella produzione di brevetti alle spalle di Taiwan, Giappone e Stati Uniti.
Ad aiutare la rapida crescita del Paese nell’ultimo decennio è intervenuta in modo significativo la storia. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica un milione di cervelli sono volati da Mosca a Tel Aviv, per la quasi totalità ingegneri e scienziati, costituendo un’iniezione di capacità straordinaria per un Paese di 8 milioni di abitanti.
L’idea comune è che investendo nelle tecnologie della difesa Israele, nella sua condizione di conflitto perenne, con il terrorismo sempre in agguato, sia più stimolato a produrre innovazione da cui trarre risultati economici. «In parte è sicuramente vero e investiamo nel militare, ma altrettanto nella medicina, nelle biotecnologie, nelle tecnologie energetiche e ambientali», precisa il ministro Hershkowitz.
Numerosi risultati (in particolare nel campo dell’informatica) sono transitati dal mondo militare a produzioni civili. Oggi il più avanzato sistema antimissile esistente al mondo è l’Iron Dome israeliano da poco messo a punto (già impiegato sul campo) e al top internazionale si trova pure la costruzione degli aerei senza pilota, i droni, veri robot volanti. «Ne sviluppiamo almeno sette tipi diversi», spiega Nir Salom, accompagnandoci tra gli scali produttivi di Iai Malat dove nascono alcuni di questi velivoli, «e in tre mesi riusciamo a fornire un modello dotato degli strumenti adeguati secondo le specifiche necessità. Il nostro sforzo è quello di renderli sempre più intelligenti». Malat è una divisione di Iai (Israel Aircraft Industries), il maggior gruppo aerospaziale israeliano, che fabbrica dai caccia ai missili, agli aeroplani Vip. Qui si incontrano dal minuscolo elicottero Ghost di 4 chilogrammi e lungo poco più di un metro al super Heron-TP di 5 tonnellate capace di rimanere in cielo a osservare il territorio con sensori diversi un giorno intero. Ovviamente tutti questi Uav (Unmanned Aircraft Vehicle) sono correntemente impiegati nelle quotidiane azioni di difesa e sorveglianza e il risultato è che finora ne hanno venduti già un migliaio a varie nazioni, dalla Germania al Canada, sia per scopi militari che civili.

Leader in spazio e difesa. «Dove investiamo vogliamo essere leader», aggiunge il ministro Hershkowitz, «come accade nell’osservazione dallo spazio, con i satelliti che costruiamo e lanciamo con il nostro vettore spaziale Shavit».
L’agenzia spaziale israeliana Isa a partire dal 1998 ha lanciato una dozzina di satelliti per le telecomunicazioni ma soprattutto dedicati all’osservazione della Terra utilizzando camere da ripresa ad alta risoluzione ideate da Elbit Systems. E le immagini sono ovviamente commercializzate.
Uno di questi satelliti di ultima generazione (OptSat 3000), capace di fotografare con un dettaglio di 50 centimetri, sarà fornito anche all’Italia. «Ora stiamo compiendo un ulteriore passo avanti», rivela Ofer Doron, general manager della divisione spaziale di Iai, «collaborando con l’agenzia spaziale italiana Asi al programma Shalom per la ricognizione del territorio con elevata risoluzione mentre con i francesi del Cnes lanceremo l’anno prossimo una sonda intorno a Venere».
Ma Francia e Italia non solo gli unici Paesi a cercare rapporti sul fronte cosmico. Alla conferenza organizzata per ricordare il loro astronauta Ilan Ramon, vittima del disastro dello shuttle Columbia della Nasa nel 2003 di cui era parte dell’equipaggio, sono arrivati i responsabili di tutte le agenzie spaziali più importanti: dalla Russia all’India, dall’Europa (per l’Asi c’era il suo presidente Enrico Saggese) agli Stati Uniti. E nell’occasione, scienziati e tecnologi israeliani hanno presentato nuovissimi sviluppi nelle telecomunicazioni, nei propulsori spaziali e persino gli studenti hanno illustrato il loro piano per sbarcare con una sonda automatica sulla Luna partecipando al premio internazionale Google Prize.

Primi nel riciclo delle acque. Se Tel Aviv guarda con grande interesse allo spazio, crocevia di tecnologie d’avanguardia, non dimentica tuttavia la Terra, che difende ogni giorno sotto ogni aspetto. Soprattutto garantendosi una preziosa risorsa come l’acqua. Per questo oltre ai noti sistemi ideati di irrigazione a goccia, la cui efficienza ha raggiunto l’80 per cento consentendo di risparmiare il sempre più conteso liquido, nuovi impianti con tecnologie d’avanguardia permettono di riciclare l’80 per cento dell’acqua utilizzata ponendosi al primo posto nel mondo, davanti alla Spagna ben più distaccata (18 per cento). E Israele è pure al primo posto nella desalinizzazione dell’acqua di mare, avendo sviluppato tecnologie efficienti ed economiche (mezzo dollaro per metro cubo) e producendone annualmente 150 milioni di metri cubi.
Ora la sfida è estendere lo sviluppo nell’area del Negev che occupa la metà della superficie del Paese e verso la quale si incentivano gli insediamenti. «Israele ha realizzato il miracolo economico che lo contraddistingue da quasi un decennio», concludono Dan Senor e Saul Singer, «perché ha saputo commercializzare idee radicalmente innovative, ma soprattutto perché la sua cultura e le sue regole riflettono l’attitudine – unica – ad accettare gli insuccessi e gli errori, perseverando poi nel trovare vie nuove per riemergere».