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 2013  maggio 10 Venerdì calendario

E FRA I RAGAZZI ESPLODE LA PAURA DI ESSERE BRUTTI

Giovani insicuri del futuro e di se stessi. Costretti ad abitare scuole vecchie, nei metodi e spesso anche nelle strutture. Privi di riferimenti nuovi, quando l’età impone il primo distacco dall’abbraccio confortevole della famiglia: senza l’impegno politico del passato, i modelli da imitare, i maestri da seguire. Sovrastati, piuttosto, da immagini stereotipate nelle quali non possono o non vogliono riconoscersi. Fin dall’adolescenza. È un’epidemia che colpisce i ragazzi nel “tempo della muta”. Impercettibile, spesso sottovalutata dal mondo dei grandi, genitori ed educatori che l’allontanano con un’alzata di spalle, «poi passerà». Invece, a volte, non passa. I ragazzi stabiliscono una relazione di aspro conflitto, di ripudio, con l’immagine mentale di se stessi e del proprio corpo. E il disagio diventa auto-emarginazione, una crisi evolutiva che rischia di trasformarsi in malattia.
I disturbi della condotta alimentare ne sono la forma più evidente e spettacolare: l’impressione di essere troppo grassi o inadeguati scatena il bisogno di controllare il proprio corpo cercando di dimagrirlo o manipolarlo. Ma non è l’unica forma in cui la nuova epidemia si manifesta. Pietropolli Charmet, psicoterapeuta dell’adolescenza, le ha trovato anche un nome, La paura di essere brutti (Raffaello Cortina), cui ha dedicato il suo ultimo libro. A Sette conferma che i numeri sono davvero quelli di un’epidemia: «È una paura che si manifesta anche nei ragazzi che si ritirano socialmente, e sono sempre di più, giovani che stabiliscono una relazione di dipendenza da internet, che si sentono inguardabili nella realtà concreta e invece in quella virtuale, dove il corpo non c’è, possono essere spudorati e stabilire relazioni individuali o di gruppo, addirittura di coppia. Ma la paura di essere brutti si ritrova anche nelle forme di autolesionismo oggi molto diffuse o nei tentativi di suicidio». Ogni ragazzo prende una strada diversa per esprimere il proprio disagio, ma tutti finiscono per attaccare il corpo nella speranza di punirlo o di modificarlo o, semplicemente, di scomparire.
La società dell’immagine. Non è un’epidemia contagiosa e forse i numeri non hanno ancora raggiunto i livelli allarmanti registrati altrove nel mondo, per esempio in Giappone. La cattiva, se non cattivissima relazione con il corpo, è diventata però uno dei disagi più dirompenti delle giovani generazioni. «Gli adolescenti da sempre hanno un rapporto problematico con il corpo che cambia ma oggi il fenomeno ha assunto contorni inquietanti», conferma lo psicologo Antonio Piotti, autore di Il banco vuoto. Diario di un adolescente in estrema reclusione (Franco Angeli). «Viviamo in un mondo di ideali narcisistici in cui la società involontariamente esaspera questo passaggio, come se una difficoltà naturale rispetto al sé diventasse ancora più grave. L’esaltazione del corpo introduce una sorta di costante percezione di inadeguatezza agli standard». I genitori sono sia vittime che colpevoli: anelano figli perfetti, “adeguati”, non soltanto con un corpo socialmente accettato ma che sappiano stare con gli altri, che abbiano buone relazioni e successo, anche sul piano sessuale. Bisogna esordire presto e bene, ma in questo modo sentirsi brutto o goffo oggi è più facile che nel passato.
I ragazzi di una volta si sentivano colpevoli, cattivi o arrabbiati. Oggi si sentono, soprattutto, brutti. Gli esperti non esitano a puntare il dito contro la società del narcisismo che ha dominato negli ultimi vent’anni, contro quella sottocultura massmediatica e pubblicitaria che propone ideali di bellezza, di successo e di visibilità sociale in modo molto perentorio e pervasivo: i giovani finiscono per interiorizzarli e giudicare negativamente la propria immagine.
Ideali irraggiungibili ai quali alcuni adolescenti, secondo Charmet, contrappongono proprio la loro presunta bruttezza, che diventa ribellione, se non anticonformismo. «All’inizio anche a me pareva verosimile che le anoressiche fossero cadute nel tranello di ritenere che la bellezza sia magrezza. Poi le ho conosciute meglio: nessuna ragazza anoressica o bulimica insegue un ideale di bellezza. Piuttosto insegue un ideale di autonomia rispetto alle aspettative della mamma, della società, delle amiche», spiega. «C’è un evidente aspetto “sovversivo” in questa volontà di non sottomissione, in primo luogo alle ingiunzioni della biologia, che prescrive trasformazioni e distribuzioni del grasso per prepararsi alla futura maternità; ma poi anche a quei criteri di giovinezza e bellezza imposti dalla pubblicità. L’anoressia è una manipolazione spesso violenta del corpo per esprimere la propria ribellione, così come avviene nei giovani che attuano forme di autolesionismo. È una ribellione ideale che richiede un forte impegno etico, sacrifici e devozione che possono facilmente finire per prendere la mano e conquistare tutta la vita, tutti i pensieri, tutta l’anima. Fino a diventare sintomo di una malattia».

Come cambiare prospettiva. Nei maschi che “si ritirano”, chiusi fino a 10 ore al giorno o anche più dentro internet, questo “non stare al gioco” è ancora più evidente. I “ritirati” escono dalla competizione e si rifanno una vita nella realtà virtuale, lontano dallo sguardo dei coetanei. In genere sono maschi intelligenti, che andavano benissimo a scuola, eppure a un certo punto rifiutano di andarci per rimanere segregati in casa mesi, anche anni. «Si sentono diversi, o molto superiori o molto inferiori ai coetanei oppure impresentabili, e finiscono per indirizzare tutte le loro risorse in un mondo altro», conclude Charmet.
La paura di essere brutti viene considerata un fenomeno superficiale; si sottovaluta, i genitori innanzitutto, che nell’adolescenza significa sentirsi tagliati fuori dalla possibilità di inserirsi nel gruppo, di formare una coppia… Sminuire quel sentirsi brutti serve a poco. Piuttosto bisogna puntare sul fatto che esistono tante forme di bellezza. O, come suggerisce il professor Matteo Cellini, autore del romanzo Cate, io (Fazi), aiutare i ragazzi a cambiare prospettiva: «Vivere un disagio sociale in fondo significa cristallizzarsi, fossilizzarsi su una cosa: tu prendi il tuo naso enorme come orizzonte totale e da lì non ti smuovi, non vedi altro. Attraverso forti dosi di gratificazione, i ragazzi possono invece capire che in fondo esiste una gerarchia di situazioni e che l’obesità o qualsiasi altro difetto che li affligge può trovare un suo posto in questa gerarchia; il che non significa cancellarlo, ma capire che quel difetto può essere una parte marginale dell’insieme. Caterina, la protagonista obesa del mio romanzo, ha una percezione di se stessa che non corrisponde ai canoni che abbiamo ormai assimilato come preponderanti, totali. Ma Caterina ha anche tanti pregi. Io credo che un insegnante possa aiutare i ragazzi a vedere e ad affermare la parte migliore di sé».
Cellini riconosce che alle scuole medie, dove lui insegna, il problema non è così evidente. «I famigliari sono ancora il riferimento più forte a questa età, è a papà e mamma che vogliamo piacere. Ma quando entriamo alle superiori cambia tutto. Sono gli altri, i nostri coetanei, a poterci rendere felici o infelici», spiega. «In quel momento può emergere il disagio. Basta guardare i ragazzi durante gli intervalli, come si dispongono negli spazi quando sono liberi. C’è chi sta al centro, chi si atteggia agli stipiti delle porte, chi resta alla periferia, chi dalle porte della classe non esce proprio. Alle superiori i giudizi e gli sguardi fanno male. Alle medie è diverso. I bambini sono più crudeli ma sono ferite ancora guaribili».

Presa di coscienza. C’è chi da questa paura di essere brutti non esce mai, neppure quando l’adolescenza è ampiamente alle spalle. Lo ammette, senza tentennamenti, la scrittrice Teresa Ciabatti, che racconta il disagio fisico attraverso i lineamenti e i pensieri della protagonista del suo romanzo Il paradiso è deserto (Rizzoli). Una figura fortemente autobiografica: «Da ragazzina sono stata in sovrappeso, poi in gravidanza sono ingrassata e non sono più dimagrita. Oggi ho 38 anni. Da cinque non mi guardo più allo specchio, non mi peso. Non mi piacevo e non mi piaccio: sono problemi che ti porti appresso tutta la vita e non te ne liberi, anche se dimagrisci. Dentro resti un ciccione», spiega, riportando a galla l’episodio che l’ha messa di fronte a questo disagio. «Una volta, dopo aver partorito, camminavo per strada e all’improvviso ho visto un’ombra enorme sotto di me, ci ho messo un po’ a capire che ero io quella. Ho preso coscienza. In realtà mi sono sempre sentita goffa, inadeguata. Nei posti affollati mi sembravano sempre tutti bellissimi e io invece non sapevo come muovermi, occupavo tanto spazio. Dipende dallo sguardo, quello che vedi e come lo vedi tu».
Non è un caso che il più delle volte chi si sente brutto o grasso o comunque difettoso non lo sia affatto. Come conclude Charmet, «bisogna esser bellini per aver paura di essere brutti». Ma è difficile sentirsi sicuri quando si vive, insieme, l’età e l’epoca dell’incertezza.