Sergio Rizzo, Sette 10/5/2013, 10 maggio 2013
ASSENZA DI IDEE, RIFORME SBAGLIATE, INVESTIMENTI AI MINIMI EUROPEI. CON UNA SCUOLA COSÌ, L’ITALIA NON VA DA NESSUNA PARTE. I RESPONSABILI? ECCOLI, NOME PER NOME. MA ORA CONTA RIPARTIRE. DA QUI
ASSENZA DI IDEE, RIFORME SBAGLIATE, INVESTIMENTI AI MINIMI EUROPEI. CON UNA SCUOLA COSÌ, L’ITALIA NON VA DA NESSUNA PARTE. I RESPONSABILI? ECCOLI, NOME PER NOME. MA ORA CONTA RIPARTIRE. DA QUI –
Si augurò un giorno Pier Ferdinando Casini: «Vorrei una scuola che boccia». Dimenticando il congiuntivo. Frequente. La pasionaria berlusconiana Micaela Biancofiore criticò sdegnata l’accordo fra il governo e la Provincia di Bolzano che bloccò il restauro del monumento alla Vittoria di fascista memoria perché «preso senza sentire n’è i dirigenti del Pdl n’è verificare le sensibilità dei nostri elettori». Meno frequente, per fortuna. Ma fossero altrettanto rari gli inciampi sulla storia, forse saremmo messi un pochino meglio. «Che cosa è successo il 17 marzo di 150 anni fa? Roma Capitale?», azzardò Rosy Bindi incalzata da Sabrina Nobile delle Iene. Mentre Nunzia De Girolamo, allora non ancora ministro, spediva la palla in tribuna: «È accaduto qualcosa ma lo chiede a Maroni, non a me». Sì, ciao… Intanto il predecessore di Maroni al Pirellone, Roberto Formigoni, tentava un contropiede meneghino: «Il 17 marzo sono partite le Cinque giornate di Milano». Peccato che la rivolta si fosse scatenata il 18 marzo (del 1848). Ma perché fargliene una colpa... Ricordiamo male o qualche anno prima al meeting di Cl a Rimini era stata organizzata una mostra per dimostrare l’errore storico dell’unità d’Italia. Dichiarata ufficialmente, appunto, il 17 marzo 1861?
Sarà difficile, però, superare la vetta raggiunta dal comunicato stampa dell’ex ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini dopo la famosa corsa dei neutrini da Ginevra all’Abruzzo che sembravano aver viaggiato più veloci della luce. «Alla costruzione del tunnel tra il Cern e i laboratori del Gran Sasso l’Italia ha contribuito con uno stanziamento oggi stimabile in 45 milioni di euro». Non sarà stata colpa sua ma uno strafalcione simile un ex ministro dell’Istruzione se lo porterà dietro per sempre.
Ancora più difficile, per lei e tutti i politici che si sono alternati su quella poltrona, scrollarsi di dosso i dati di un sistema allo sbando ormai da troppi anni. L’album di famiglia è sterminato. Ci troviamo un paio di ex presidenti della Repubblica: Antonio Segni e Oscar Luigi Scalfaro. Ci troviamo un presidente della Commissione europea, il primo italiano, che nobilitò quel prestigioso incarico dimettendosi per partecipare alle elezioni politiche del 1972 (sigh!): Franco Maria Malfatti. Ci troviamo il primo presidente del Consiglio non democristiano del dopoguerra: Giovanni Spadolini. E poi Adolfo Sarti, Luigi Gui, Aldo Moro, Mario Ferrari Aggradi, Fiorentino Sullo, Franca Falcucci, Guido Bodrato, Sergio Mattarella, Gerardo Bianco, Riccardo Misasi, Rosa Russo Iervolino… Non c’è stato, insomma, maggiorente della Dc che non si sia seduto su quella poltrona. Fino a Luigi Berlinguer, apripista della nuova generazione dei Tullio De Mauro, Letizia Moratti, Mariastella Gelmini, Francesco Profumo… Per una bocciatura collettiva e senza appello.
L’organizzazione Save the children afferma che 800 mila ragazzi italiani hanno avuto esperienza di abbandono scolastico precoce. È il 18,8% della popolazione di età fra i 18 e i 24 anni. I dati Eurostat sono simili: il tasso di abbandono scolastico è in Italia del 17,6%, contro il 10,5 in Germania, l’11,6 per cento in Francia e l’11,4% della Grecia. Peggio fanno soltanto gli spagnoli (24,9%), Malta (22,6) e Portogallo (20,8).
Carta igienica a spese dei genitori. Ed è fuori strada chi crede che sia l’effetto dei tagli. Anche se negli ultimi anni non ci sono andati certo leggeri. Fra il 2007 e il 2011, mentre venivano risparmiati i finanziamenti statali alle scuole private, la riduzione degli investimenti pubblici nel settore dell’istruzione è stata del 12,8 per cento reale, tenendo cioè conto dell’inflazione: 9 miliardi 748 milioni di euro, anch’essi reali, in meno. Con risvolti indegni di un Paese civile. Da quanto tempo viene chiesto ai genitori di contribuire ai rifornimenti di carta igienica all’inizio dell’anno scolastico?
Ma se l’Italia si sta sempre di più trasformando nel Paese degli ignoranti, come sostiene un libro pubblicato qualche mese fa per Chiarelettere da Roberto Ippolito, le responsabilità non sono soltanto delle difficoltà di bilancio. Il problema viene da lontano, ben prima che il rigore dei conti pubblici imponesse scelte feroci. Altrimenti non si spiega come ancora nel 2006, rivelò uno studio del ministero dell’Economia quando a via XX Settembre c’era Tommaso Padoa Schioppa, oltre il 60% degli edifici scolastici non fossero a norma. E di sicuro oggi non va meglio. Una incuria che denuncia come la scuola, da troppi anni, sia scivolata sempre più in basso nella scala delle priorità della politica. Proprio questo è il punto.
Alcune scelte hanno avuto effetti devastanti. Le baby pensioni, per esempio. Introdotte alla fine degli Anni 70, consentivano alle donne impiegate nel settore pubblico di ottenere l’assegno previdenziale dopo 14 anni, sei mesi e un giorno di servizio. Un disastro epocale, ben oltre il peso che ha avuto e continua ad avere sulle finanze pubbliche. Perché con le baby pensioni è passato il concetto che l’impiego pubblico fosse semplicemente un parcheggio breve e temporaneo. Peggio ancora, un impiego nella scuola. Con tutto ciò che ne consegue, in termini di formazione, impegno, motivazioni personali. Ancora oggi, oltre mezzo milione di persone godono di quell’aberrante trattamento pensionistico, talvolta iniziato prima dei trent’anni di età, o poco dopo: la grande maggioranza di loro proviene dal settore dell’istruzione. Incalcolabili, va detto senza infingimenti, le responsabilità dei sindacati.
Per non parlare di altre micidiali scelte politiche. L’abolizione degli esami di riparazione, ricordate? L’idea balzana venne in mente a qualcuno durante il primo governo di Silvio Berlusconi, nel 1994. Ministro dell’Istruzione era l’ex democristiano Francesco D’Onofrio, che però non riuscì a completare l’opera. Ratificata soltanto un anno più tardi, durante il governo tecnico di Lamberto Dini, con una decisione assolutamente bipartisan: ministro, incidentalmente, era il popolare Giancarlo Lombardi. Nel 2007 il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi denunciò che i quindicenni italiani avevano accumulato un ritardo medio di un anno nell’apprendimento della matematica rispetto ai loro coetanei europei. E quando un altro ministro ex democristiano, Giuseppe Fioroni, lesse il rapporto dell’Ocse che confermava quella visione agghiacciante, ne offrì una spiegazione sconcertante: «Abbiamo una scuola primaria di buona qualità su tutto il territorio nazionale, ma dal rapporto emerge anche un acuirsi delle difficoltà nelle scuole medie inferiori e superiori. Basti pensare che alle superiori, in dieci anni, abbiamo scrutinato e mandato avanti circa 8 milioni 800 mila studenti con lacune gravi o gravissime». Con l’abolizione dell’esame di riparazione, tesi dell’allora ministro, avevamo prodotto un numero di somari pari agli abitanti della Svezia, e quel che è più grave tutti giovani di età compresa, allora, fra i 18 e i 35 anni. Il futuro del Paese era una mela bacata.
Ciclone Moratti. Inevitabile la reintroduzione dei famigerati esami di riparazione. Inevitabile, ma non certo facile, come dimostrarono le proteste politiche («Fioroni prospetta un processo selettivo e classista che credevamo di aver lasciato alle spalle», protestò Valentina Aprea di Forza Italia), le manifestazioni di piazza (gli studenti organizzarono un “Vaffafioroni day”), le petizioni online…
Ogni ministro che ha messo il piede a viale Trastevere si è sentito in dovere di fare, o almeno proporre, una riforma. Ma le toppe si sono rivelate peggiori del buco. Toppe su toppe: come quella, strampalata, dell’autonomia degli istituti, che ha creato migliaia di “dirigenti scolastici”, piccoli burocrati spesso incapaci, balcanizzando un settore pubblico già in pieno disordine organizzativo e mentale. La riforma dei cicli approvata da Letizia Moratti ha fatto terra bruciata dell’insegnamento della storia nella scuola primaria e secondaria inferiore, con danni incalcolabili. Era l’epoca delle Tre I: Informatica, Inglese, Impresa. Per fare spazio alla seconda lingua e all’informatica si tagliarono le ore alla storia. Una follia: anche ammettendo che avesse un senso insegnare l’uso dei computer a dei nativi digitali, quali erano già meno di dieci anni fa i nostri ragazzi, le scuole quei computer non ce li avevano. Né li avrebbero avuti in seguito. In compenso, veniva sparso diserbante su un campo appena fiorito.
Bassa scolarizzazione. Così, periodicamente, per nascondere l’assenza di idee e strategie, ci si affanna a dimostrare che il problema della scuola italiana è nel numero eccessivo di insegnanti. Magari sarà anche vero: ci sono da noi 11,7 alunni per docente, contro i 16,1 della Germania, i 14,4 della Francia, i 17,3 del Regno Unito. Anche se va considerato che in Norvegia, non proprio il Paese più arretrato sul piano dell’istruzione, gli studenti per insegnante sono 10, in Austria 10,4, in Belgio 10,5. Di sicuro, un aspetto del quale tutti regolarmente si scordano è la qualità dell’insegnamento. Insieme alle conseguenze sociali che quella lacuna porta con sé.
I numeri sono quelli che sono. I confronti, sempre più impietosi: secondo uno studio della Confartigianato, gli adulti italiani con bassa scolarizzazione sono il 44,8% del totale, contro il 14,2% dei tedeschi, mentre i giovani sotto i trent’anni che studiano e contemporaneamente lavorano sono in Italia il 7,5%, contro il 38,3% della Germania. Perché se la scuola non funziona, non può funzionare l’intero sistema della formazione.
Non si salva, ovviamente, l’università. È di qualche settimana fa la denuncia del Consiglio universitario nazionale che il numero degli iscritti agli atenei italiani è diminuito di 58 mila unità in dieci anni. Un fenomeno a quanto pare progressivo e inarrestabile, se è vero che nel giro di quattro anni accademici, dal 2007/2008 al 2010/2011 il numero delle prime immatricolazioni è calato di quattro punti. Si iscrive ormai all’università appena il 47% dei diciannovenni diplomati, contro il 51% di quattro anni prima. Non bastasse, il 17,3% degli iscritti non dà esami, più di un terzo, il 33,6%, è fuori corso. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
Siamo un Paese che ha una percentuale di laureati inferiore al 15%, contro una media europea del 25. I giovani di età compresa fra i 30 e i 34 anni in possesso di un titolo accademico sono il 21,7%, contro il 43,6% della Francia e il 31,9 della Germania. La media dell’Europa a 27 è del 35,8%.
È il risultato della scientifica opera di demolizione dell’università che va avanti, in parallelo a quella che investe la scuola, da almeno 15 anni. Si è cominciato al tempo del governo di Romano Prodi, con Berlinguer ministro e l’avvio della riforma che ha portato alla cosiddetta laurea breve. Doveva essere un mezzo per avvicinare i giovani al mercato del lavoro, si è rivelato un fiasco pazzesco. Non contenti, si è proseguito con la polverizzazione dei corsi. In cinque anni, fra il 2001 e il 2006, il numero degli insegnamenti era passato da 116 mila a 180 mila unità. In media, un insegnamento ogni 9 studenti. I corsi di laurea avevano raggiunto il record di 5.835.
Quel pezzo di carta. Nel frattempo, il nepotismo nei corpi docenti dilagava. Anche il numero degli atenei lievitava, con l’apertura di una decina di università telematiche. E prendeva piede un altro fenomeno, quello della conversione delle esperienze lavorative in crediti formativi: cioè in esami universitari. Concetto forse valido in linea di principio, se non fosse stato interpretato anch’esso all’italiana. Finanzieri, vigili urbani, iscritti a qualche albo professionale, giornalisti, perfino sindacalisti: chiunque appartenesse a una categoria poteva ottenere sconti pazzeschi, talvolta pari all’intero corso di laurea, per avere quel benedetto pezzo di carta. Soltanto onore, per alcuni; un avanzamento di carriera e di stipendio, per molti altri. Ma il prezzo pagato dalla collettività, in termini di credibilità dell’intero sistema, è stato altissimo.
La crisi economica e i tagli hanno completato il quadro. Dice il Cun che quest’anno il Fondo di finanziamento ordinario delle università sarà più basso del 20% rispetto al 2009. Un dratico taglio hanno subito anche le risorse per le borse di studio. In sei anni, dal 2006 al 2012, il numero dei docenti si è ridotto del 22%, invertendo, rispetto a quanto accade nella scuola, il rapporto fra insegnanti e studenti: in Italia è di uno a 18,7 contro uno a 15,5 nella media Ocse. La spesa media per studente è scesa in dieci anni del 15% in termini reali, passando nel 2010 a 7.387 euro. Non così nel resto d’Europa. La Francia ha aumentato lo stanziamento medio procapite del 12%, portandolo a 11.605 euro. La Germania, del 6 per cento, a 11.842 euro. La Spagna addirittura del 31,1%, a 10.300 euro. Tremila in più rispetto all’Italia.
Tutto ciò non ha certo contribuito a risollevare in questo campo la reputazione internazionale dell’Italia: il Paese che ha dato inventato, mille anni fa, l’insegnamento universitario. Nel Qs World university ranking del 2011 il primo ateneo italiano in classifica è quello di Bologna, che occupa la posizione numero 183. L’anno prima era alla casella 176. La romana Sapienza, ateneo più grande d’Europa, occupa invece la 210, avendo perso in un anno ben venti posti. Per trovare Padova dobbiamo quindi scendere al numero 263. E incrociamo il Politecnico di Milano, pur risalito di 18 gradini, al posto 277.
Il nuovo ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza è certamente consapevole di aver ereditato una situazione catastrofica. Non ha bisogno dei dati. Le è sufficiente guardarsi intorno. Nel parlamento del quale fa parte i laureati sono il 67,9%, considerando anche i titolari di diplomi triennali, contro il 69,7% della precedente legislatura. Nel 1948, in un’Italia dove i possessori di un titolo accademico non arrivavano all’1 per cento, gli onorevoli laureati erano il 91,4%. Tanti auguri. A lei e ai nostri figli.