Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  maggio 10 Venerdì calendario

SU INTERNET LO STATO NON PARLA

La pubblica amministrazione italiana si rivela ancora chiusa ai cittadini e allergica a Internet. Una somma di indizi nelle ultime settimane spingono verso questa evidenza. La Pa sta vivendo un balletto: mentre da una parte arrivano norme che cercano di svecchiarla, dall’altra parte nulla cambia nei palazzi. E i servizi e i dati pubblici restano come sempre opachi e analogici. Allo stesso modo: mentre qualche dirigente e funzionario si arma di forza e pazienza per guidare la Pa verso il digitale, manca ancora una guida strategica politica che spinga in questa direzione. Eppure dalla trasformazione della Pa verrebbero 19 miliardi di euro di risparmi all’anno, per lo Stato, secondo il Politecnico di Milano.
L’associazione Diritto di Sapere, in uno studio di aprile, intitolato "The Silent State", ha rivelato che il 65 per cento delle Pa non ha risposto a 300 richieste di informazioni fatte da 33 persone, come test, su una decina di temi, tra cui la spesa pubblica, i servizi sociali, l’ambiente, la salute. È durato un mese il monitoraggio condotto da quest’associazione no profit, su cento Pa. Solo il 27 per cento di loro ha dato una risposta in base alle norme. Già, le norme: sarebbe una del 1990 (la 241) a darci il diritto ad accedere a quelle informazioni. «Diritto di Sapere dimostra che la Pa non applica una norma di oltre vent’anni fa. È una fotografia impietosa della trasparenza delle nostre amministrazioni», dice Ernesto Belisario, avvocato tra i massimi esperti di Pa digitale.
«Non rispondono perché hanno paura del cambiamento», spiega Giuliano Noci, docente del Politecnico di Milano e specializzato in questi temi. «La Pa italiana ha sempre vissuto di burocrazia. Con il digitale il cittadino può rapportarsi direttamente con il potere. Ciò comporta una rivoluzione culturale della cosa pubblica, ma la Pa ne ha paura e quindi reagisce con il silenzio e la chiusura», continua. "The Silent State", appunto.
«Siamo ben lontani dal rendere l’autorità pubblica una casa di vetro, come avviene invece nei Paesi anglosassoni. Vedi il caso di Agcom (Autorità garante delle comunicazioni)», denuncia Fulvio Sarzana, avvocato esperto di diritto in Internet e storico promotore di campagne per la libertà di espressione on line. Le norme si susseguono, ma la loro efficacia è un altro paio di maniche. «Il 20 aprile è entrato in vigore un nuovo provvedimento in materia di trasparenza (il decreto 33/2013)», dice Belisario: «Ma se la gran parte delle Pa non risponde nemmeno alle richieste di accesso, quante pubblicheranno le tante informazioni previste dalla nuova normativa?».
La nuova normativa per altro è al centro di una curiosa vicenda mediatica. Una nota di Palazzo Chigi l’ha annunciata come l’avvento del Foia, il "Freedom of information act" statunitense, che dal 1966 consente a chiunque di accedere a qualsiasi atto pubblico (salvo quelli protetti dal segreto di Stato): sancisce il diritto dei cittadini di controllare l’operato dei governanti e rafforza la libertà di stampa. Ma un’analisi condotta da Access-Info Europe e da Diritto di Sapere ha rivelato che in realtà siamo ancora lontani dall’avere un Foia. Insomma, lo stesso annuncio della norma per la trasparenza è stato poco trasparente, generando confusione.
«Il decreto obbliga infatti le amministrazioni a pubblicare tutti quei dati che già in base alla vecchia legge del 1990 potevano essere pubblici. La differenza è che prima il cittadino poteva avere solo i dati che lo concernevano. Adesso invece c’è il diritto civico di conoscerli senza bisogno di motivarne l’interesse», spiega Belisario.
«Da oltre vent’anni l’Italia non amplia il recinto dei dati pubblici che il cittadino ha diritto a conoscere», conferma Guido Scorza, avvocato esperto di nuove tecnologie. L’Italia resta il solo Paese europeo a non avere il Foia, attivo invece in 80 Paesi al mondo, tra cui l’India, il Kenya, la Tanzania, la Croazia. «Il ritardo che stiamo accumulando rispetto al resto del mondo è ormai divenuto intollerabile», continua Scorza. Come si vede, la chiusura della Pa al digitale è solo parte di una chiusura più grande, che riflette un ritardo sui diritti civili, sulla libertà di informazione, sulla trasparenza della cosa pubblica. È uno dei motivi per cui è reazionario anche il pensiero che considera il digitale un settore a parte. Invece è una prospettiva nuova che cambia tutto.
Se in Italia ci fosse il Foia, per esempio, potremmo sapere senza dubbi (secondo Belisario) quanti sono gli esodati; quali sono le principali cause di decesso nel Comune in cui viviamo da quando è stato aperto uno stabilimento industriale; quali sono le spese per cui i nostri parlamentari hanno chiesto il rimborso.
Ma il balletto delle norme continua imperterrito. Così il decreto Sviluppo Bis di ottobre 2012 (quello dell’Agenda digitale) pone un altro tassello su questa strada: l’obbligo di pubblicare i dati della Pa (sempre quelli della legge del 1990) su Internet in formato aperto. È il cosiddetto "open data", su cui i Paesi anglosassoni fanno scuola.
Peccato che manchi ancora una strategia nazionale per gli open data. A realizzarla - secondo il decreto - deve essere il neonato ente dell’Agenzia per l’Italia Digitale, il cui capo è da gennaio Agostino Ragosa (ex Poste Italiane). La burocrazia e il tira e molla politico sulle ultime nomine dell’Agenzia impediscono a Ragosa - da mesi - di averla appieno operativa. E così l’intero progetto di innovazione della Pa viene rallentato. La cosa più importante che attende la Pa e che spetta all’Agenzia fare, è l’avvento di un sistema unico, centralizzato, per tutti i servizi e tutti i dati del cittadino.
«È il problema causa di tutti i problemi: non c’è interoperabilità tra i sistemi informatici della Pa», spiega Maurizio Dècina, consigliere Agcom e già docente del Politecnico di Milano. «Esempio di sistemi che ora non si parlano: all’Inps a luglio scorso risultava ancora che abitavo a Milano, ma io ho cambiato residenza nel 1976. Quando gliel’ho fatto notare, mi ha spedito 1.200 euro che non riusciva a recapitarmi da decenni», aggiunge.
«Da qui al 2015 faremo gare da 26 miliardi di euro per la Pa digitale», dice Ragosa. «Subito quella per un sistema pubblico di connettività che colleghi i servizi di tutte le Pa. Poi la gara per avere, dal 2014, una Anagrafe unica nazionale, così i dati non saranno più sparsi fra tanti enti», continua. Sono le fondamenta delle innovazioni previste nel decreto dell’Agenda digitale. Tra l’altro, un documento unificato (evoluzione della carta d’identità) per accedere in modo sicuro e facile ai servizi on line della Pa. E pensare che l’ex ministro Francesco Profumo (Miur) aveva annunciato che l’avremmo avuto ad aprile. Ma anche, su quella base, poggia il Fascicolo Sanitario Elettronico (ora disponibile solo in poche regioni), per consultare on line i referti. «Adesso i servizi digitali della Pa sono frammentati, poco usabili, troppo complessi», rimarca Noci. La Pa spende 10 miliardi di euro in informatica, all’anno. Ma senza una strategia nazionale, ogni Pa ha investito per conto proprio: ne derivano sprechi, disservizi, incapacità dei sistemi di parlarsi, come rileva un recente studio del Politecnico di Milano. Adesso Ragosa proverà in due anni a cambiare tutto, trasformando i 4 mila datacenter della Pa (vecchi, disomogenei) in soli 50, centralizzati. Missione possibile solo se a supportare Ragosa sarà una volontà politica unitaria sul digitale. Cioè proprio quanto è mancato finora in Italia. L’assenza, nel nuovo governo, di una figura istituzionale dedicata ai temi dell’Agenda digitale è un primo segnale poco incoraggiante.

E L’AGENDA NON VA –
L’Agenda digitale tarda a mostrare gli effetti: colpa di troppi decreti attuativi (una trentina) e di una governance frammentata fra molti decisori istituzionali in disaccordo. È quindi un esordio difficile quello che sta vivendo l’Agenda, un pacchetto di norme che mirano all’impresa di traghettare l’Italia verso la modernità digitale (nelle Pa, nelle aziende, nelle famiglie). Sono otto le innovazioni che sarebbero già dovute scattare e ancora non si vedono, secondo un’analisi di Paolo Colli Franzone dell’osservatorio Netics. Uno dei problemi più gravi riguarda le facilitazioni burocratiche per la banda ultra larga. Sarebbe un decreto attuativo in grado di ridurre i costi infrastrutturali agli operatori telefonici: per circa 2 miliardi di euro su scala nazionale (secondo stime del ministero allo Sviluppo economico). Significa favorire le coperture territoriali, accelerare i lavori ma anche ridurre i disagi ai cittadini, perché tra le semplificazioni c’è il via libera all’uso di tecniche di scavo veloci e poco invasive per la fibra ottica. Ma l’attuazione di tutto questo tarda per colpa di un braccio di ferro tra Sviluppo economico e ministero dei Trasporti. I due dovrebbero concordare il decreto attuativo, ma su Trasporti pesa il parere negativo dell’Anas, che considera le semplificazioni come una perdita di potere decisionale a favore degli operatori. In forse anche uno degli incentivi più importanti alla crescita digitale previsto: gli incentivi fiscali alle aziende startup innovative. Dovranno fare un lungo giro di approvazioni, tra cui le verifiche di copertura finanziaria da parte della Ragioneria generale e del Tesoro. A giugno, infine, dovrebbe scattare l’obbligo delle Pa di accettare pagamenti elettronici (per multe, tasse…), ma se ne riparlerà se va bene nel 2014: prima, l’Agenzia per l’Italia digitale dovrà mettere in piedi un sistema di pagamento unico, utilizzabile “via cloud” da tutte le Pa.