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 2013  maggio 10 Venerdì calendario

UN PO’ NOI UN PO’ ANGELA

I pro e i contro delle varie opzioni sono stati valutati con la massima attenzione. Prima della partenza del presidente del Consiglio Enrico Letta per il suo tour nelle capitali europee. Alla fine il nuovo governo ha deciso di presentarsi all’Europa con quella che si potrebbe definire "strategia della fiducia". «Intendiamo rimanere al di sotto della soglia del 3 per cento nel rapporto deficit-Pil anche nel 2013, dopo aver centrato l’obiettivo nel 2012», ha detto Letta ai suoi interlocutori. «E se decideremo di correggere qualcosa nella politica fiscale, lo faremo prendendo provvedimenti compensativi, in modo da mantenere invariati i saldi».
Letta e il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni hanno fatto una scelta: mostrarsi determinati a mantenere gli impegni di finanza pubblica per ottenere la chiusura della procedura di disavanzo eccessivo che l’Italia si porta dietro dal 2009. «Con due vantaggi», spiega uno dei mediatori con la Commissione Ue: «l’Italia non avrà più il fiato di Bruxelles sul collo ogni volta che toccherà il bilancio pubblico e segnalerà ai mercati di avere il pieno controllo dei suoi conti, lanciando un messaggio chiaro: siamo tra i Paesi virtuosi». Nella speranza che il segnale venga accolto e si traduca in tassi d’interesse sempre più bassi sui titoli di Stato del Tesoro. E proprio questo è stato il fattore decisivo. Oggi il tasso sui Btp a dieci anni è intorno al 3,8 per cento: già questo livello è una manna per via XX settembre dove guardano sempre con la massima attenzione alla voce interessi della spesa pubblica che nel 2012 ha raggiunto il 5,5 per cento del Pil (quota mai toccata da quando l’Italia è entrata nell’euro). È vero che i Btp al 3,8 per cento sono frutto di una congiunzione astrale favorevole: la liquidità pompata dalla Bank of Japan e dalla Federal Reserve americana, la rete di protezione predisposta dalla Bce di Mario Draghi per far fronte agli attacchi speculativi. Ma è anche vero che solo la percezione di un’Italia in linea con i suoi impegni convince i mercati ad accettare rendimenti così bassi.
Naturalmente anche questa strategia ha delle controindicazioni. Una soprattutto: a qualsiasi mossa espansiva del bilancio pubblico bisogna trovare subito la copertura. Silvio Berlusconi vuole abolire l’Imu sulla prima casa? I commercianti non vogliono far scattare l’Iva dal 21 al 22 per cento? I sindacati vogliono rifinanziare la Cassa integrazione in deroga? La Confindustria vuole ridurre le imposte sul lavoro? Occorre trovare i soldi. Con altre tasse, tagliando spese, vendendo beni dello Stato e degli enti territoriali.
Letta e Saccomanni avrebbero potuto imboccare un’altra strada: fare quello che chiedono i partiti della maggioranza e le parti sociali, allargare i cordoni della borsa e saltare sul carro della Francia e della Spagna che hanno ottenuto dalla Commissione Ue più tempo per rientrare dallo sconfinamento oltre la soglia del 3 per cento di deficit-Pil. In questo momento il partito del rigore si è indebolito anche in Europa. E Bruxelles ha fatto sconti importanti: due anni in più a Francia e Spagna, un anno a Olanda e Slovenia. L’Italia si sarebbe potuta accodare, intervenendo sull’Imu, sull’Iva e sulla Cig, e lasciando salire il rapporto deficit-Pil di circa mezzo punto percentuale. Avrebbe così rinunciato a chiudere subito la procedura di disavanzo eccessivo e la Commissione Ue avrebbe chiesto un impegno a riforme strutturali per centrare più in là nel tempo gli obiettivi di finanza pubblica. Può sembrare una questione di lana caprina: la manovra correttiva o ce la facciamo da soli o ce la impone Bruxelles. Ma, secondo il governo, va evitato qualsiasi rischio di entrare in conflitto con l’Europa. E non va data l’impressione ai mercati che l’Italia agisca sotto la pressione della Commissione o della Bce, e che non è in grado di sistemare i propri conti da sola.
«Non c’è molto spazio», commenta Paolo Onofri, l’economista che dirige il centro di ricerche Prometeia, «per una riduzione della pressione fiscale. Si può agire sulla composizione delle entrate, spostando il peso da una voce all’altra. Più a lungo termine, si può arrivare a una riduzione della spesa pubblica non sociale: numero e retribuzione dei dipendenti pubblici, acquisti di beni e servizi, trasferimenti. Altri spazi non ne vedo».
Insomma, con il debito che l’Italia ha accumulato (quest’anno raggiungerà il 130 per cento del Pil) è difficile contare sulla comprensione dei partner europei. E l’imminenza delle elezioni in Germania attenua l’effetto del ripensamento in corso sull’efficacia delle politiche di austerità di bilancio. La tutela del contribuente-elettore tedesco continua a prevalere in un’Europa poco solidale. Come ha fatto notare Erik Nielsen, chief economist di Unicredit, finora il contribuente tedesco non ha ancora speso un euro per i paesi periferici dell’Europa: ha solo prestato dei soldi alla Grecia e agli altri Pigs in cambio di interessi e ponendo delle condizioni politiche. «Negli Stati Uniti», osserva Nielsen citando dati del Milken Institute, «il 32 per cento delle tasse raccolte in California vanno a sussidiare altri Stati. E non si tratta di prestiti, ma di trasferimenti puri e semplici, senza interessi, rimborsi o condizioni politiche».
Non sarà certo la Merkel a imporre più solidarietà, tanto meno alla vigilia delle elezioni, in calendario nel prossimo settembre. In un clima di diffidenza crescente, come dimostra la campagna sugli italiani più ricchi dei tedeschi (articolo a pagina 124). Non solo: anche la luna di miele con i mercati del governo Letta potrebbe non durare. «È vero che lo spread si è ridotto ed è basso, sotto i 250 punti», spiega ancora Onofri, «ma il 3,8 per cento sui Btp si spiega pure con il bassissimo livello toccato dai titoli di Stato tedeschi: i Bund decennali sono all’1,22 per cento. Non è normale che un investitore si prenda un rischio così a lungo termine in cambio di un rendimento tanto basso. La bolla del debito tedesco potrebbe sgonfiarsi e a parità di spread il costo del nostro debito salirebbe».
La "strategia della fiducia" portata a Berlino da Letta non impedisce però al governo italiano, d’intesa con quello francese e con quello spagnolo, di premere sulla Merkel perché l’Europa attui una politica espansiva: o con programmi comunitari o adottando nuove regole che consentano, più o meno temporaneamente, agli Stati di escludere dal computo del deficit alcune voci di spesa pubblica, come gli investimenti in infrastrutture e quelli nella formazione e persino nell’istruzione. L’argomento sarà al centro del vertice europeo di fine giugno insieme alla richiesta alla Germania di spingere di stimolare i suoi consumi e i suoi investimenti.
Un’altra mano potrebbe darla la Bce con uno stratagemma per superare la stretta creditizia: la cartolarizzazione dei crediti. Ovvero, l’impacchettamento di vari prestiti in obbligazioni che le banche possono vendere a sconto sui mercati finanziari o portare in garanzia alla Bce stessa per ottenere altri fondi a basso costo e alimentare così il circuito del credito. Il meccanismo sembra perfetto. Se non per il fatto che il rischio della mancata restituzione dei prestiti finirebbe in capo alla Bce. E quindi, almeno in parte, al contribuente tedesco. Così, anche il progetto "cartolarizzazioni" rischia di ritornare nei cassetti. Almeno fino alle elezioni di settembre in Germania.