Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  maggio 10 Venerdì calendario

ANCHE I VERDI INQUINANO

Il movimento che chiede alle istituzioni di interesse pubblico di rinunciare agli investimenti nel settore dei combustibili fossili è sulla cresta dell’onda. Si sono tenute campagne attive pro disinvestimento in 305 campus universitari e in più di cento città e Stati americani. Questo tipo di rivendicazione si è estesa al Canada, all’Australia, all’Olanda e alla Gran Bretagna. Benché nato ufficialmente da appena sei mesi, il movimento può già vantare alcuni successi: quattro college statunitensi si sono detti intenzionati a disfarsi del patrimonio azionario legato ai combustibili fossili e a fine aprile dieci città americane, tra cui San Francisco, si sono impegnate in tal senso (Seattle ha aderito mesi fa).
Mancano ancora i dettagli per adempiere a queste promesse, ma la rapidità con cui l’idea ha preso piede dimostra che si tratta di un’esigenza molto sentita. Per citare la dichiarazione di intenti del movimento Fossil Free : «Se è sbagliato distruggere il clima, è altrettanto sbagliato trarre profitto da quella rovina. A nostro avviso le istituzioni educative e religiose, le amministrazioni locali e statali e altre istituzioni a servizio del bene pubblico dovrebbero rinunciare agli investimenti nel settore dei combustibili fossili». Sono fiera di aver fatto parte del gruppo 350.org che ha collaborato con gli studenti e altri partner a dar vita alla campagna Fossil Free. Mi rendo ora conto però che dalla lista manca un obiettivo importante: l’invito a disinvestire va rivolto anche alle organizzazioni ambientaliste.
È una svista comprensibile. I gruppi verdi raccolgono ogni anno montagne di denaro promettendo che quei fondi verranno impiegati per evitare il riscaldamento globale e i suoi effetti catastrofici. Le società del comparto dei combustibili fossili da parte loro fanno tutto il possibile per rendere la catastrofe inevitabile. Stando ai dati della Carbon Tracker Initiative della Gran Bretagna (è sulla sua impeccabile ricerca che si fonda il movimento per il disinvestimento) le riserve di fonti fossili ammontano a cinque volte la quantità di CO2 che è possibile bruciare restando sotto la soglia dei due gradi Celsius di aumento della temperatura globale. Si dovrebbe dare per scontato che i gruppi ambientalisti vogliano evitare che il denaro raccolto con l’intento dichiarato di salvare il pianeta venga investito nelle società il cui modello imprenditoriale richiede di "cuocere" lo stesso pianeta, società che da vent’anni a questa parte sabotano qualunque seria iniziativa contro il riscaldamento globale.
Ma, in alcuni casi almeno, questo approccio non è scontato. Forse non c’è da stupirsi più di tanto, dato che alcune delle organizzazioni ambientaliste più ricche e potenti per un lungo periodo hanno agito quasi avessero un interesse preciso nell’industria del petrolio e del gas. Hanno spinto il movimento contro il riscaldamento globale in una serie di vicoli ciechi : il carbon trading (scambio di certificati di emissione di CO2), i carbon offsets (compensazione delle emissioni di CO2), il gas naturale come "combustibile ponte": tutte politiche che hanno creato l’illusione di un progresso, ma che hanno invece consentito alle società del comparto fossile di proseguire imperterrite le attività di estrazione e trivellazione. Abbiamo sempre saputo che i gruppi fautori di queste false soluzioni ricevevano donazioni dai grandi emittenti di CO2 e davano vita assieme a loro a partnership imprenditoriali. Ma la cosa veniva sempre presentata come un impegno costruttivo, come il tentativo di usare il potere del mercato per porre rimedio alle sue pecche.
Oggi si viene a sapere che alcuni di questi gruppi vanno oltre al semplice ricevere finanziamenti da parte delle imprese del comparto dei combustibili fossili: ne sono comproprietari e causano la crisi che dichiarano di voler risolvere. E le cifre che i gruppi verdi maneggiano sono ingenti. La Nature Conservancy, ad esempio, ha 1,4 miliardi di dollari investiti in titoli negoziati a livello pubblico ed è fiera di classificare il proprio "salvadanaio" tra i primi cento del Paese. La Wildlife Conservation Society vanta un patrimonio di 377 milioni, mentre quello del World Wildlife Fund-Usa (Wwf-Usa) ammonta a 195 milioni.
Va detto che molti gruppi ambientalisti sono riusciti a evitare questo genere di commistioni. Greenpeace, 350 org. Friends of the Earth, Rainforest Action Network e una quantità di organizzazioni minori come Oil Change International e Climate Reality Project non hanno patrimoni e non investono sui mercati azionari. Non accettano neppure donazioni dalle imprese, oppure le rendono soggette a restrizioni così pesanti da escludere con facilità le industrie estrattive. Alcuni di questi gruppi detengono qualche azione del comparto fossile, ma solo per poter fare azioni di disturbo alle assemblee degli azionisti.
Il Natural Resources Defense Council è una via di mezzo. Ha un patrimonio di 118 milioni e i suoi amministratori dichiarano di escludere per gli investimenti diretti«le industrie estrattive, i combustibili fossili e altre aree del settore energetico». Tuttavia il Nrdc continua a detenere quote di fondi comuni di investimento e di altri asset misti che non discriminano il fossile. (La campagna Fossil Free fa appello alle istituzioni affinché «rinuncino entro cinque anni alla proprietà diretta e agli investimenti in fondi combinati che comprendano titoli azionari e obbligazioni corporate del settore fossile»).
I puristi faranno notare che nessun grande gruppo ambientalista è pulito, perché in pratica tutti ricevono denaro da fondazioni costruite su imperi dei combustibili fossili, fondazioni che continuano a investire il proprio patrimonio nel comparto fossile. È un’obiezione lecita. Prendiamo la maggiore di queste fondazioni , quella di Bill e Melinda Gates. A dicembre 2012 aveva almeno 958, 6 milioni investiti in due soli giganti del petrolio: la ExxonMobil e la Bp. L’ipocrisia è sconvolgente: una delle massime priorità della Gates Foundation è il sostegno alla ricerca sulla malaria, patologia intimamente legata al clima. Sia le zanzare sia i parassiti della malaria prosperano nei climi caldi e fa sempre più caldo. Ha senso combattere la malaria se al contempo si finanzia uno dei motivi che potrebbero inasprirne la diffusione in alcune zone?
Certo che no. E ha ancor meno senso raccogliere fondi in nome della lotta al cambiamento climatico solo per investire quel denaro, ad esempio, in azioni della ExxonMobil. Ma a quanto sembra certi gruppi fanno proprio questo.
Conservation International, famigerato per le partnership che intrattiene con compagnie petrolifere e altri attori negativi (il Ceo di Northrop Grumman è membro del consiglio di amministrazione!) ha quasi 22 milioni di dollari investiti in titoli negoziati a livello pubblico e, stando a un portavoce, non applica «alcuna politica esplicita che vieti di investire nel comparto energetico». Lo stesso vale per Ocean Conservancy, che ha 14,4 milioni di dollari investiti in titoli negoziati a livello pubblico, di cui centinaia di migliaia in pacchetti azionari dei comparti energia, materie prime e utilities (le imprese che si occupano dell’erogazione dei servizi pubblici e ambientali). Un portavoce ha confermato per iscritto che l’organizzazione non applica alcuna discriminante di stampo ambientale o sociale alla sua politica di investimento.
Nessuna delle due organizzazioni ha rivelato quanta parte del rispettivo patrimonio sia investita nel settore dei combustibili fossili né pubblicato una lista dei propri investimenti. Ma secondo Dan Apfel, direttore esecutivo della Responsible Endowments Coalition, a meno che un’istituzione non dia istruzioni precise ai propri dirigenti di non investire nel comparto fossile, è sicuro che ne deterrà un certo quantitativo di azioni, perché esse (comprese quelle delle società erogatrici di energia tratta dal carbone) costituiscono circa il 13 per cento del mercato azionario Usa, stando a un indice generale di Borsa. «Tutti gli investitori fondamentalmente detengono azioni del comparto dei combustibili fossili», sostiene Apfel.«È inevitabile, a meno che non si impegnino seriamente in senso contrario».
Un altro gruppo apparentemente ben lungi dal disinvestire nel fossile è la Wildlife Conservation Society. Nel rendiconto finanziario per l’anno fiscale 2012 indica una sottocategoria di investimenti nei settori «energia, estrazione, trivellazione e agroalimentare». Quanta parte del patrimonio da 377 milioni di dollari della Wcs è investito in società del comparto energetico e della trivellazione? Nonostante le ripetute richieste la società non ha fornito questa informazione.
IL Wwf-Usa ha negato di investire direttamente in industrie del settore fossile ma non ha risposto alla domanda se applichi o meno discriminanti di tipo ambientale al suo considerevole patrimonio in fondi misti. Il National Wildlife Federation Endowment applicava tali discriminanti al patrimonio di 25,7 milioni di dollari investiti in titoli negoziati a livello pubblico, ma ora, a detta di un portavoce, si orienta «verso società leader che attuano prassi di conservazione, tutela dell’ambiente e sostenibilità». In altre parole non attua una politica di disinvestimento nel settore dei combustibili fossili.
Stando al suo rendiconto finanziario Nature Conservancy - il più ricco di tutti i gruppi ambientalisti - dispone di almeno 22,8 milioni di dollari di investimenti nel settore energetico. Come la Wcs, la Tnc ha rifiutato categoricamente di rispondere alle mie domande o di fornire ulteriori informazioni circa il proprio patrimonio e le proprie politiche.
Ci sarebbe da sorprendersi se la Tnc non investisse in combustibili fossili, dati i suoi molteplici legami con il settore. Un piccolo esempio: nel 2010 il "Washington Post" ha rivelato che la Tnc «ha accettato circa 10 milioni di dollari in liquidità e donazioni in terreni da parte della Bp e società affiliate»; Bp, Chevron, ExxonMobil e Shell fanno parte del suo consiglio di gestione; Jim Rogers, Ceo di Duke Energy, una delle maggiori imprese americane erogatrici di energia derivante dal carbone, siede nel consiglio di amministrazione dell’organizzazione; e porta avanti vari progetti di conservazione sostenendo di «compensare» le emissioni delle società petrolifere, carbonifere e del gas.
La questione del disinvestimento spiazza questi gruppi perché per decenni hanno potuto fare accordi con gli inquinatori senza batter ciglio. Ma oggi, a quanto pare, la gente è stufa di sentirsi dire che il modo migliore per contrastare il cambiamento climatico è cambiare le lampadine e pagare per compensare le emissioni, quando i grandi inquinatori vengono lasciati agire indisturbati. Ed è impaziente di dare direttamente battaglia all’industria più fortemente responsabile della crisi climatica.
Hannah Jones, una delle organizzatrici del movimento studentesco per il disinvestimento, mi ha detto: «I grandi gruppi ambientalisti ci deludono, proprio come i nostri college e le nostre università, nel momento in cui non agiscono attivamente contro le forze responsabili del cambiamento climatico. Ci hanno deluso cercando di preservare incontaminati piccoli angoli del mondo e rifiutandosi al contempo di sfidare quei potenti interessi che rendono il mondo intero invivibile per tutti». Ma ha aggiunto: «Gli studenti ora sanno ciò che le comunità che si confrontano con le estrazioni hanno capito da decenni. Che si tratta di una lotta per il potere e per il denaro e tutti, persino i grandi gruppi ambientalisti, devono decidere se stanno dalla nostra parte o dalla parte delle forze che distruggono il pianeta».
Non sembra una pretesa esagerata. Voglio dire, se la città di Seattle disinveste, perché non dovrebbe farlo il Wwf? Le organizzazioni ambientaliste non farebbero bene a pensare ai rischi ecologici e umani posti dalle società del comparto fossile piuttosto che a quelli immaginari per il loro portafoglio azionario? Il che pone un altro interrogativo: con che finalità questi gruppi raccolgono montagne di denaro? Se danno credito ai loro stessi ricercatori questo è il decennio decisivo per cambiare le cose in campo climatico. La Tnc pensa forse di costruire un’arca da un miliardo di dollari?
Grazie a Dio ci sono gruppi che accettano la sfida. Nel mondo dei finanziatori un piccolo movimento in crescita preme sulle grandi fondazioni progressiste affinché allineino i propri investimenti al loro intento dichiarato: ossia dire basta ai combustibili fossili. «È ora che le fondazioni siano coerenti», dice Ellen Dorsey, direttore esecutivo del Wallace Global Fund. Secondo la Dorsey, la sua fondazione, che è stata tra i principali finanziatori della campagna per disinvestire dal carbone oggi è «al 99 per cento fossil free e completerà l’opera di disinvestimento entro il 2014».
Ma convincere le fondazioni maggiori a disinvestire richiederà tempo e i gruppi verdi , che in teoria devono render conto ai loro membri, dovrebbero essere pionieri in questo senso. Alcuni lo stanno facendo. Il Sierra Club, ad esempio, ora attua una politica contraria agli investimenti nel comparto dei combustibili fossili e ad accettare fondi dalle società del fossile (non è sempre stato così, da qui un’aspra polemica).
Buone nuove per i 15 milioni di dollari che il Sierra Club ha investiti in titoli negoziati a livello pubblico. Ma l’organizzazione gemella, la Sierra Club Foundation, dispone di un portafoglio molto maggiore (61,7 milioni di dollari di investimenti) ed è ancora in fase di elaborazione di una politica di pieno disinvestimento, come spiega il direttore esecutivo del Sierra Club, Michael Brune: «Siamo pienamente fiduciosi che investendo nell’economia emergente dell’energia pulita potremo contare su rendimenti maggiori di quelli derivanti dagli investimenti nei combustibili sporchi del passato».
Per molto tempo i gruppi verdi per dar prova di serietà hanno stretto partnership con gli inquinatori, ma i giovani fautori del disinvestimento (nonché i gruppi di base in lotta contro i combustibili fossili ovunque siano in atto estrazioni, trivellazioni, presso ogni centrale, oleodotto o punto di spedizione) hanno un’idea diversa di serietà. Sono seriamente intenzionati a vincere. E il messaggio rivolto alle grandi organizzazioni ambientaliste o "Big Green" è chiarissimo: tagliate i ponti con il fossile se non volete diventare dei fossili a vostra volta.