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 2013  maggio 10 Venerdì calendario

IO FALLISCO, TU PAGHI

Il "Corriere della Sera" amministrato da un commissario? Il quotidiano e la casa editrice con i soci più potenti d’Italia - Mediobanca e Intesa Sanpaolo, Fiat e Pirelli, Giuseppe Rotelli e i Benetton - nelle mani del tribunale fallimentare? La proposta è arrivata da uno che d’industria se ne intende: Diego Della Valle, proprietario della Tod’s. Ha visto il bilancio in profondo rosso del gruppo editoriale e i forti debiti con le banche. E ha tentato, senza successo, di indurre gli altri azionisti a trangugiare una medicina che va di moda: il concordato preventivo.
Tutto nasce da una delle eredità del governo Monti, meno conosciuta dell’Imu ma con effetti che stanno mettendo in difficoltà tante imprese, soprattutto piccole. L’idea, contenuta in un provvedimento dell’estate 2012, era proteggere le aziende che non riescono più a far fronte ai debiti. Sono state così rifatte le regole del concordato preventivo, uno strumento della legge fallimentare nato per quelle realtà produttive che, se superano la crisi, sembrano avere le qualità per potersi riprendere.
Così, per bloccare le istanze di fallimento, è diventato sufficiente che il proprietario scriva una richiesta di due righe al tribunale. Ottiene un periodo di garanzia più o meno lungo, terminato il quale deve sottoporre al giudice un accordo con i creditori e un piano di salvataggio. Evitare che un fallimento dettato da ragioni contingenti faccia sparire per sempre un’impresa, è un obiettivo del tutto ragionevole, al punto che diversi altri paesi hanno delle norme ad hoc. In Italia però, a causa delle molte insensatezze dell’ordinamento fallimentare, la novità ha finito per amplificare problemi annosi. Permettendo ai più furbi tra i "quasi falliti" di ripresentarsi sul mercato a stretto giro di posta. E lasciando a secco molti piccoli fornitori, costretti a inseguire per anni un risarcimento spesso inferiore al 10 per cento di quanto era loro dovuto.
In effetti, non c’è voluto molto perché sui tribunali si rovesciasse una valanga di richieste di concordati del nuovo tipo, subito ribattezzato "in bianco". Nei primi tre mesi del 2013 quelle accolte sono salite in tutta Italia a 449, rispetto alle 262 dello stesso periodo dell’anno prima (vedi tabella). Solo a Milano, dove c’è il tribunale fallimentare più grande d’Italia, si è abbondantemente superato il ritmo di una domanda al giorno: ai primi di maggio il sito Web dell’amministrazione giudiziaria ne contava 147. Un dato che a fine anno porterà a raddoppiare le 218 cumulate nell’intero 2012.
Alla Rcs, la casa editrice del "Corriere", la proposta di Della Valle è stata respinta da una parte dei grandi soci, che ora cercano di convincere gli altri a tirar fuori di tasca propria i 400 milioni necessari per ridurre l’indebitamento. Ma tra chi ha fatto ricorso al concordato non mancano nomi storici della finanza, dall’Acqua Marcia di Francesco Bellavista Caltagirone alla finanziaria Sopaf della famiglia Magnoni. E c’è un bel pezzo del comparto aereo. Hanno fatto richiesta i charter Blue Panorama e la low cost WindJet, mentre in prospettiva molti pensano che toccherà alla Meridiana. Un’eventualità quest’ultima che potrebbe irritare non poco i creditori. Il nome dell’ex numero uno Giuseppe Gentile, il primo a proporre di mandarli "in bianco", ma anche l’artefice di una gestione disastrosa, è spuntato di recente fra gli italiani titolari di una società offshore a Samoa. E l’uomo che ha estromesso Gentile, promettendo di ricapitalizzare la compagnia, è niente di meno che Karim Aga Khan, il principe che ha costruito la Costa Smeralda. Uno che, a occhio, non dovrebbe avere problemi di liquidità.
Al di là dei big, bastano alcuni dei tanti marchi coinvolti per farsi un’idea della diffusione del fenomeno. Le cucine pesaresi Berloni stanno trasferendo l’attività a una nuova società partecipata dalla famiglia del fondatore, e lasciando i debiti nella vecchia. I creditori dei polli Arena hanno ottenuto dai giudici di Campobasso un rimborso del 20 per cento delle somme vantate. I 138 dipendenti dell’acqua Sangemini di Terni si sono visti annunciare una brutta sorpresa: poiché la procedura non prevede la nomina di un curatore, pare non sia possibile chiedere gli ammortizzatori sociali. Come non sanno cosa accadrà loro i mille addetti della Mondo di Alba, una griffe dei materiali sportivi, che ha realizzato i seggiolini dello Juventus Stadium e le piste di Pechino e Londra dove Usain Bolt ha vinto i suoi sei ori olimpici. C’è chi può dirsi fortunato: le ceramiche Richard Ginori sono passate alla Gucci, i megastore Fnac - libri, musica, elettronica - alla Trony. E chi invece ha un conto aperto con la iella: i lavoratori della Vinyls di Ravenna, già commissariata, acquistata due anni fa dalla Coem, che ha chiesto a sua volta il concordato.
Oltre alle aziende che chiudono, il boom sta mettendo nei guai anche quelle che figurano tra i loro fornitori. Giuliano Secco, un piccolo imprenditore veneto nel settore della moda, racconta di essere incappato in ben otto concordati. Il più clamoroso è quello del maglificio trevigiano Magreb: «Con la crisi ha iniziato a pagare le forniture a singhiozzo. Quando il debito era arrivato a 100 mila euro, ci ha proposto una cambiale da presentare in banca, dicendo che l’avrebbe saldata entro un anno. A pochi giorni dalla scadenza, però, ha aperto il concordato e le banche hanno chiesto a noi di coprire il debito delle cambiali scoperte». Secco è riuscito a rientrare fra i creditori privilegiati, e dei suoi soldi spera di rivederne la metà. «Ma altri artigiani non ce l’hanno fatta e riavranno solo il 10 per cento di quanto spetterebbe loro», spiega. Alberta Marniga, proprietaria di una piccola impresa che produce nastri di metallo, la Euroacciai di Brescia, quando sente parlare di concordato si mette subito sul chi vive: ben 20 tra i suoi clienti ci sono finiti, causandole un buco da 2,5 milioni. «Il disastro del concordato in bianco è l’ennesimo delle varie riforme che si sono susseguite. Chi lo fa cancella i debiti, che ricadono sui fornitori. E ne esce pulito», dice. Anche stanare i furbi è difficile: «Ho aperto un procedimento penale contro un cliente che aveva avviato il concordato e intestato la ditta ai genitori. Ma ho perso».
Il perché di questi guai Roberto Fontana, giudice al Tribunale fallimentare di Milano, lo spiega con una serie di lacune normative che permettono a chi è già fallito di tirare avanti per anni, falsificando i bilanci, gonfiando il buco e assottigliando i beni che potrebbero risarcire i fornitori. Grazie ai vari passaggi previsti, invece, quando fa richiesta di concordato il proprietario può continuare a gestire l’azienda per un ulteriore anno. E magari stringere un accordo con le banche, che a differenza dei fornitori possono rivalersi sugli yacht e le case a Cortina. «Se fossero introdotti anche da noi gli strumenti di allarme esistenti in Francia e Germania, tutti si accorgerebbero subito che un’azienda è in difficoltà. E il rischio di fallimento emergerebbe quando i danni possono essere limitati», spiega. Risultato: nel gorgo del crac spariscono, tra l’altro, anche i contributi destinati a Fisco e Inps, che per i soli fallimenti in atto a Milano superano i 5 miliardi. Altro che Imu.