Jenner Meletti, la Repubblica 10/5/2013, 10 maggio 2013
“NOI, SU UNA BARCHETTA PER TIRARE FUORI I SUPERSTITI CON DUE BADILI COME REMI”
GENOVA — Si guardano in faccia l’uno con l’altro, prima di rispondere. «Noi eroi? Eravamo andati lì per pescare e ci è capitata addosso una cosa troppo grande. Eroi ci sembra una parola grossa: abbiamo solo cercato di dare una mano».
Tre uomini escono dal traghetto dove lavorano poco prima delle 23. Mettersi a letto a quell’ora è troppo presto, le cabine per il personale non sono quelle di lusso delle crociere e si entra solo quando già si sente il sonno pesante. «All’improvviso, a venti metri da noi, è arrivato l’inferno. Abbiamo visto il cargo che batteva contro la banchina, il crollo della torre, il fumo che si alzava… Subito siamo scappati, ma poi abbiamo
sentito le grida di aiuto. Non potevamo fare finta di nulla». Volevano pescare qualche totano e si sono trovati in mare a salvare chi, senza le loro mani robuste, forse non sarebbe mai arrivato all’ospedale.
Francesco Marcellino, Francesco D’Alè e Giuseppe Papasergi, marittimi addetti alla ristorazione, sono stati i primi soccorritori dopo il crollo al molo Giano. «In mezzo al fumo e alla polvere non si vedeva niente. Poi abbiamo sentito una voce. “Sono qui, aiutatemi”. Era un uomo in acqua, per fortuna accanto alla banchina, nel punto in cui c’è una scaletta di pietra. Stava soffocando, perché
la cravatta si era impigliata a un pezzo di cemento». Francesco Marcellino racconta e gli altri fanno sì con la testa e a volte lo correggono. «Ci siamo organizzati. Siamo scesi in acqua, lo abbiamo preso per le spalle e le gambe. “Mi fanno male, state attenti”. Una gamba era tutta storta, nell’altra un piede penzolava, quasi staccato. Lo abbiamo portato sulla banchina, ho trovato un pezzo di moquette caduta dalla torre e l’ho steso sul cemento, così non si faceva male. Gli abbiamo aperto la camicia, perché potesse respirare meglio».
L’uomo tirato fuori per primo dal mare scuro è Enzo Pecchi, 40 anni, della Capitaneria di porto. È all’ospedale ancora in prognosi riservata, ma l’intervento per riattaccare il piede sembra riuscito. Un’altra voce arriva dalla punta della torre caduta a pelo dell’acqua. «Fuori dalla cabina vedevo solo la testa di un uomo che chiamava, e le sue mani. Lì non potevamo buttarci, perché c’erano i vetri della torretta, ma per fortuna abbiamo visto altre persone che arrivavano in aiuto ». Erano Luciano Mantero e tre suoi uomini della Geam, società che si occupa di pulizie dentro al porto. «Eravamo al bar per un caffè — ha raccontato Luciano Mantero — e siamo subito corsi verso la torre. Abbiamo visto un uomo in acqua e allora abbiamo buttato in mare una barchetta in vetroresina e siamo andati da lui usando per remo un badile». «Sembravamo — dice Francesco Marcellino — una squadra organizzata. “Girate da quella parte, di là si può passare”, gridavamo. E poi abbiamo raccolto l’uomo alla scaletta, l’abbiamo portato sul molo, proprio mentre arrivava la prima ambulanza che ha caricato subito Enea Pecchia».
Il secondo uomo messo al sicuro è Gabriele Russo, 32 anni, anche lui della Guardia costiera. È l’uomo che ha trovato la forza di non lasciarsi andare pensando a suo figlio di appena sette mesi. «Gabriele era lucido, anche se aveva un male cane a un braccio. Ci faceva tante domande: dove sono i miei colleghi, vedete altre persone da salvare? Ci ha detto che sulla torre erano in cinque e altri invece erano nell’ascensore che stava scendendo, perché pochi minuti prima c’era stato il cambio di turno. Gli abbiamo detto una bugia: non preoccuparti, li stanno salvando tutti. Gli ho strappato la maglietta, per pulirlo dai detriti che aveva addosso. Francesco D’Alè si è tolto la sua felpa e lo ha tenuto al caldo. Continuava a lamentarsi. “Ho tanto freddo”. Ho preso una coperta dall’ambulanza per ripararlo meglio e ho mandato un ragazzo sul traghetto per prendere altre tre coperte».
Dall’altra parte del molo c’è un terzo ferito, con una maglia nera. Viene raggiunto dagli operatori di un’ambulanza. «Il quarto è stato portato alla scaletta da quelli della barchetta». Ecco, il film di quella notte è finito. Un film durato in tutto venti minuti, dal crollo alla partenza delle ambulanze. «Certo, quando si dice il destino… Poco sonno, la voglia di andare fuori dal traghetto per fumare una sigaretta e cercare qualche pesce… Ecco perché siamo arrivati proprio sotto la
torre. Qui sei vicino al mare più aperto e, con una lenza senza canna, con attaccato un pesce finto con l’amo, si tirano su i totani e anche i polipi. Anche i cefali, ma quelli puzzano… Noi abbiamo capito che stava succedendo qualcosa di strano perché abbiamo sentito i motori dei rimorchiatori che si imballavano. E abbiamo visto la grande luce della portacontainer che stava finendo contro la torre. Sì, fuggire è il primo istinto, e noi siamo scappati. Ma poi abbiamo sentito delle voci, delle grida e il cuore e il cervello ci hanno detto: fermatevi. Non è stato facile, in mezzo ai vetri, ai pezzi di cemento e una puzza forte di gas. Anche noi ci siamo messi a gridare: sono vivi, sono vivi. E ci siamo messi a dare ordini l’uno all’altro: tu prendi quello, tu allungami quella cima… Quando sono arrivati i soccorsi veri, ci siamo messi da parte. Siamo andati via dopo due ore, quando hanno cominciato ad arrivare figli e genitori che cercavano genitori e figli sotto le macerie. Eroi? Davvero non crediamo sia la parola più giusta. Ma siamo contenti di avere fatto una cosa buona». Alla fine, una confessione. «Con Gabriele Russo c’è stata un’emozione vera. Quando starà meglio, vorremmo andarlo a trovare. Lì sul molo lo accarezzavamo, gli facevamo coraggio. E quando è salito sull’ambulanza ci ha chiamati e ci ha detto: grazie, grazie. Lì c’è scappata qualche lacrima».