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 2013  maggio 08 Mercoledì calendario

PERISCOPIO

[Giulio Andreotti]

Francesco Cossiga diceva di Andreotti: «Giulio è un grande statista: Ma non dell’Italia. Del Vaticano». Agi.

Una volta, durante un viaggio in Egitto, mi feci fotografare, disse Andreotti, in una gara di gibbosità con le dune e un dromedario. Vinse il dromedario. Agi.

Se posso dirlo, il processo che mi ha visto accusato di mafia a Palermo è stato, per me, un colpo gobbo. Giulio Andreotti. Ansa.

I giurati del premio della satira di Forte dei Marmi riconobbero ad Andreotti «il merito d’aver inventato le orecchie di Pericoli, le gobbe di Forattini, il ghigno di Altan, il bianconero di Chiappori e l’esistenza di Evangelisti». Ansa.

Nell’appartamento di famiglia dove è morto Andreotti c’è anche la moglie, la signora Livia, ma, per fortuna, non si è accorta di nulla. E anche adesso, alle cinque del pomeriggio (Andreotti è morto a mezzogiorno, ndr) mentre un silenzioso via vai di amici e mondi tramontati viene accompagnato a salutarlo per l’ultima volta, la moglie è in cucina in compagnia della cognata Antonella Danese. Forse non capisce quanto è successo. I figli vogliono che non si accorga che il marito Giulio se ne è andato a novantaquattro anni. Massimo Franco. Corsera.

Era solo quattro anni fa. Andreotti compiva novant’anni. Ancora eterno, pareva. Concesse un sacco di interviste. La quattordicesima all’Unità. E al quotidiano fondato da Gramsci diede, in quell’occasione, la perfetta definizione di potere. Rispose: «Non lo so, ma se lo sapessi, non lo direi». Saggezza politica. SDM, il Foglio.

Nel 1976, eravamo alle prese con il governo delle cosiddette «larghe intese», con il Patto di Varsavia da una parte e il Patto Atlantico dall’altra, il cancelliere tedesco, Helmut Schmidt, al ritorno da un G5 a Lisbona, fece sapere che gli alleati occidentali avrebbero sostenuto un simile governo italiano solo alla condizione che alla sua guida ci fosse, appunto, Andreotti. Paolo Cirino Pomicino, ex deputato dc. Corsera

A chi, a Washington, criticava Andreotti per la sua politica filo araba e lo scarso appoggio dato ad Israele, Andreotti rispondeva che un paese i vicini non se li sceglie. Massimo Gaggi. Corsera.

Vincenzo Scotti, un tempo detto «Tarzan» per l’agilità con la quale cambiava corrente dc, dice: «La morte di Andreotti è la conclusione della Repubblica parlamentare e della politica come arte del realismo: creazioni di consenso sulla base di una proposta politica, non adeguamento della politica alle tendenze spontanee della società». Maurizio Caprara. Corsera.

Una volta Andreotti confessò che il massimo del piacere sarebbe stato «visitare» lo studio di un cardinale crepato di schianto, poche ore prima, in modo che il poveretto non avesse avuto il tempo di far sparire gli altarini o di infiocchettare gli inevitabili scheletri nell’armadio. Filippo Ceccarelli. la Repubblica.

Vuol sapere cosa vorrei fosse scritto sulla mia epigrafe? Data di nascita e data di morte. Punto. Le parole delle epigrafi sono tutte uguali. A leggerle, uno si chiede: scusate ma se sono tutti buoni, dov’è il cimitero dei cattivi? Gian Antonio Stella. Corsera.

Chiesero ad Andreotti che cosa avrebbe fatto se avesse avuto il potere assoluto. Andreotti ci pensò un secondo. Poi rispose: «Sicuramente qualche sciocchezza». Massimo Franco. Corsera.

Di Andreotti, Craxi diceva: «Tutte le volpi finiscono in pellicceria». Paolo Guzzanti. Il Giornale.

Agli italiani non dispiaceva la figura di Andreotti, metà bigotta è metà malandrina, ironica e pregnante, che rappresentava l’anima ambigua di un paese devoto e peccatore, che ammira Gesù ma tresca con Belzebù. Marcello Veneziani. Il Giornale.

Per Cossiga, Andreotti era «il popolo del Papa dentro la Dc». Oppure era «un cardinale esterno» nella definizione dello storico Andrea Riccardi. Massimo Franco. Corsera.

Come direttore de il Tempo avevo avuto dall’amministrazione del giornale l’incarico di dimezzare il compenso per la collaborazione al giornale di Giulio Andreotti. Non era facile con quell’uomo che aveva fatto la storia d’Italia. Ma lo trovai arrendevole. «So di essere stato ben pagato in questi anni», disse Andreotti, «ma sa, ne avevo bisogno perché i miei difensori, il professore Coppi e Giulia Bongiorno, hanno onorari assai salati. Ora i processi sono finiti, e ne ho meno di bisogno. Però mi piacerebbe continuare a rispondere alle domande dei lettori del Tempo. Scrivere mi fa sentire ancora in vita anche alla mia età?». Quando disse «ancora in vita» mi sembrò un vezzo: la voce si incrinò, era sincero. Franco Bechis, Libero.

Giulio era davvero un tipo di quelli forti. Come un vero Belzebù era doppio o triplo. Poteva apparire un signore timorato di Dio e incapace di fare male a una mosca. Ma un attimo dopo si trasformava in una tigre pronta a sbranarti. Anche la signora con la falce deve avere avuto timore di lui. E della sua certezza di durare. Giampaolo Pansa. Libero.

Dacché è nato lo Stato italiano mai, dico mai, c’è stato un capo di stato o di governo che fosse romano. Quattordici capi dello stato, re inclusi, la metà piemontesi, più tre napoletani, due sardi, uno ligure, uno toscano. Mai un romano. E così anche alla guida del governo. L’unica eccezione fu Andreotti. Perciò quando si dice di Roma che tutto corrompe nel suo ecumenico abbraccio, l’unico esempio che ricorre è sempre Andreotti e solo lui. Come si vedeva anche a occhio nudo, la sagoma di Andreotti fu l’ombra dello Stivale. Marcello Veneziani. Il Giornale.

Andreotti fu un marito quasi perfetto, un padre assente, un nonno tenerissimo. Filippo Ceccarelli. la Repubblica.

Le segretarie di Andreotti, Daniela e Patrizia, raccontano che lo studio di Andreotti a Palazzo Giustiniani ormai era un guscio da mesi; e che da febbraio i figli avevano deciso di restituirlo al Senato per non tenere occupate le stanze in nome di una finzione. Massimo Franco. Corsera.

Andreotti praticava la formula della riduzione in frammenti perché sapeva che ogni singolo frammento, preso a sé, poteva essere inglobato in un mastice colloso e poi neutralizzato. Era dunque un artista del rinvio, ma non perché volesse evitare le soluzioni, quanto piuttosto perché sapeva che non ci sarebbe stata mai nessuna soluzione. Paolo Guzzanti. Il Giornale.

Andreotti era abitudinario. Di notte dormiva tre ore e dopo pranzo faceva una pennichella di un’oretta. Un giorno fu costretto a incontrare il ministro degli esteri tedesco, Hans Dietricht Gensher, nel primissimo pomeriggio. Gli calavano le palpebre. Gli portai un caffè ma, niente, crollava. Allora presi a tossicchiare per tenerlo sveglio. Gensher mi rassicurò: «Lo lasci fare». Il ministro tedesco continuò a parlare a lungo. Io prendevo appunti. Andreotti infine si risollevò e rispose al ministro, punto su punto. Non ci potevo credere. Pio Mastrobuono, a lungo capo ufficio stampa di Andreotti. La Stampa.

Oggi le stesse alte e medie e basse cariche dello stato che l’altro ieri piangevano la morte di Agnese Borsellino, piangono la morte di Giulio Andreotti. Ma non è vero che fingono sempre: piangendo Andreotti, almeno, sono sincere. Marco Travaglio. Il Fatto quotidiano.

La nonna Rosa di Andreotti era amica di mia nonna Amelia. Così dispongo di alcune testimonianze sul bambino Andreotti, sempre vestito di vellutino nero e con il taccuino da giornalista in tasca, il giornalista come gioco. Sua madre commentava: «Questo figlio non mi sembra normale. O diventa qualcuno, oppure avrà una vita difficile». Diventò qualcuno, come sappiamo. Paolo Guzzanti. Il Giornale.

Quando Stefano Andreotti presenta a un Gianni Letta affranto il figlio, dicendogli: «Ecco Giulio Andreotti», c’è un attimo di sorpresa. Poi spunta un ragazzo alto, con i capelli un po’ lunghi, in giacca blu e cravatta, che ha il nome del nonno e fa l’avvocato. L’altro, quello «vero», è sul letto con la coperta verde di lana a fiori e la foto di madre Teresa di Calcutta sul comodino, nella stanza a metà corridoio: quella annunciata dalla mensola in vetro dove è esposta una parte dei campanelli d’argento che il senatore a vita ha collezionato per gran parte della sua lunga vita. Massimo Franco. Corsera.

Andreotti non tramonta. Andreotti non perdona. Andreotti non dimentica: ha gli occhi obliqui di un mandarino cinese. Le labbra strette di un gesuita del Settecento. L’andatura circospetta di chi nasconde a se stesso la propria ombra. Averlo nemico può essere un guaio. Eugenio Scalfari, su la Repubblica del 10 settembre 1989.

Per uno statista, e quindi anche per Andreotti, vale la stessa formula usata da Cuccia: un banchiere che scappa con la cassa commette un peccato veniale; un banchiere che parla, commette un peccato mortale. Rino Formica, già ministro delle finanze, socialista. La Stampa.

«Andreotti preferisce dire nulla, piuttosto che parlare di ciò che non sa». Federico Fellini, regista.

Siamo in un’epoca di uomini mediocri di effimero potere che ogni cosa raccontano, di ogni confidenza fanno pubblica dichiarazione, beatificati dalla loro stessa incontinenza. Andreotti confidava: «Dite sempre la verità, ma non dite tutta la verità. È scomoda e spesso arreca dolore». SDM, Il Foglio.

Nel suo appartamento riposa colui che per decenni è stato considerato il sopravvissuto per antonomasia. Al punto che gli piaceva dire con civetteria: «Io, in fondo, sono postumo di me stesso». Massimo Franco. Corsera.