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 2013  aprile 26 Venerdì calendario

COME DALÍ SIAMO ARRIVATI A QUESTO PUNTO


MADRID. Nei primi anni Sessanta Salvador Dalí avviava una nuova fase della propria opera. Quella della bufala dop. Invasato dal demone della riproducibilità tecnica, il Divino prese a macinare quattrini autografando in bianco a ritmi da Topolino apprendista stregone. C’è chi giura che – nei momenti più tonici – arrivasse a firmare mille fogli l’ora. Altri ritoccano il record al rialzo, parlando di una firma ogni due secondi. Comunque sia, l’impresa raggiunse presto organizzazione e cadenze quasi tayloristiche: un collaboratore allungava il foglio a Dalí, lui apponeva l’imprimatur e già un terzo complice aveva ritirato il pezzo per impacchettarlo e spedirlo. Su quelle candide superfici sarebbero state impresse immagini più o meno daliniane. Poco importa. Salvador se ne fotteva maestosamente. La direttiva era: «Dei fogli firmati in bianco fate quello che vi pare». L’importante era incassare. Subito. Secondo Peter Moore – il più leggendario tra i segretari di Dalí – le tariffe viaggiavano sui dieci dollari ad autografo. Moore, detto El Capitán, per via di un passato da militare sparviero – succhiava una commissione del dieci per cento. Esosa, concluse Dalí. Che, in breve, prese a firmare ad insaputa del consigliori.
Il Divino aveva scoperto la moltiplicazione dei pani e dei pesci. E il miracolo divenne compulsivo. «Ancora... ancora...» squittiva eccitato il Maestro. Una specie di manìa. Ma anche di wellness. Di relax. Dopo cena, non era raro che Dalí si ritirasse annunciando: beh, adesso vado a metter giù qualche firmetta. Risultato: dall’Europa agli Stati Uniti al Giappone, il mercato venne invaso da decine di migliaia di cloni con autentica firma di Dalí. Che inaugurava così un nuovo genere: l’opera a-tiratura limitata-ma-non-tanto. Sul piano legale era una truffa (formalmente si vendevano a caro prezzo serie di, mettiamo, 500 opere numerate che, sottobanco, diventavano 50 mila). E la frode affondò le quotazioni ufficiali oltreché la credibilità personale di Dalí. Ma lui se ne fregava. Aveva fatto i suoi calcoli. Da tempo non cercava più il consenso di esperti ed élite: mirava ad acchiappare consumatori. Tutto quello che perse in termini di rating gli rientrò – e con carnosi interessi – dal sommerso.
Epperò, la proverbiale venalità di Dalí era soltanto cruda sete di guadagni oppure racchiudeva una diagnosi spietata e a suo modo profetica, sulla mercificazione dell’arte? In questo senso, il Divino ha inciso sugli andazzi di certa creazione contemporanea, magari rafforzando i cliché negativi che le pesano addosso (esibizionismo, megalomania, affarismo, gusto bottegaio della provocazione...)? E poi, cosa fu SD, un grande Sopra o Sottovalutato? Gli enigmi si riaprono adesso con Dalí. Tutte le suggestioni poetiche, tutte le possibilità plastiche, mostra-monstre che si inaugura domani nel madrileno Museo Reina Sofia. Duecento opere da collezioni pubbliche e private di tutto il mondo. Ma l’universo dell’ineffabile catalano attira ancora la gente? Stando ai numeri, pare di sì. A Parigi, Dalí ha appena calamitato al Centre Pompidou 800 mila visitatori. Un record.
«Malgrado tutto, Dalí andrebbe preso più sul serio di quanto lui non si prendesse da solo» sostiene Angela Vettese, che insegna Teoria dell’arte contemporanea alla Bocconi di Milano e alla Iuav di Venezia. «In fondo, resta il più noto dei pittori surrealisti. Il più vicino al pubblico. Se eclissa gente come Max Ernst, Magritte o Paul Delvaux un motivo ci sarà». O magari più d’uno. «C’è il personaggio, ma anche l’autore che con i suoi comportamenti anticipa in certo modo la Pop art. E c’è l’artista che materializza i fantasmi della mente, mediando tra incubi orrendi e bellezza».
Sono note le parole di Sigmund Freud che, incontrando il suo fan Dalí a Londra nel 1938, commentò: «Finora ero incline a considerare i surrealisti – che a quanto pare mi hanno adottato come santo patrono – pazzi completi o diciamo al 95 per cento, come per l’alcol. Ma questo giovane spagnolo, con i suoi occhi innocenti e fanatici e la sua innegabile maestria tecnica, mi ha fatto cambiare idea». Meno citato è invece un altro episodio. Mentre Dalí gli faceva febbrilmente il ritratto, l’ottantaduenne Freud avrebbe mormorato in tedesco: «Questo giovanotto mi pare fuori di testa. Se tutti gli spagnoli sono come lui, non mi sorprende che siano in piena Guerra civile».
Riviste oggi, molte tele sembrano un baedeker dell’inconscio, la psicoanalisi in versione manga o playmobil. Eppure nemmeno questo aspetto di volgarizzazione andrebbe preso sottogamba. Se non altro perché fu tra le chiavi della popolarità di Dalí. Specie a partire dagli anni americani (40-48), quando il Divino si impose rumorosamente anche cavalcando con furbizia il freudismo come moda, mito diffuso. A riguardo, si pensi alle visionarie (benché mutilate in sede di montaggio) scenografie dell’hitchockiano Io ti salverò, psico-melodrammone in giallo. Negli Usa, con la consorte Gala (musa e faìna del marketing – più che una coppia formavano una joint venture), Salvador Dalí fece i salti mortali pur di mantenere altissima la pubblica attenzione su di sé. Fondando un ego-giornale che, a scimmiottare il Daily News, chiamò Dalí News. Firmando di tutto, dai profumi alle cravatte. Coltivando l’antico sogno di un film con Harpo («il più surrealista dei fratelli Marx) o con Walt Disney. Oppure organizzando cene dove alle star – Clark Gable, Ginger Rogers, Bob Hope – venivano serviti rospi ricoperti di sugo che, essendo vivi, saltavano in faccia ai commensali.
Ma quella dell’America fu una conquista a metà: «Dalí riuscì a sedurre il grande pubblico, non l’intellighenzia, le classi colte, i collezionisti raffinati. Non a caso – inaugurando la sua nuova galleria a New York – Peggy Guggenheim si presentò indossando orecchini disegnati uno da Calder, l’altro da Yves Tanguy» ricorda Angela Vettese. Magari schiumando in segreto, Salvador faceva il superiore: «A lui interessavano i grandi numeri». Da un lato i nuovi ricchi; dall’altro il box office – col ceto medio in fila alla cassa. Assetato di brividucci porcelli, ma protetti dai grandi alibi dell’Arte, della Cultura. Lui, che si proponeva di cretinizzare il pubblico – e più segnatamente la neoborghesia – gliene vendette a secchiate. In forma di opere o di leggende mitobiografiche. Gossip che ruotavano intorno a due temi inossidabili: denaro e sesso.
Dopo averlo cacciato dal gruppo surrealista come un intollerabile cialtrone, André Breton anagrammò il nome di Salvador Dalí in Avida Dollars. Formula «che però per me si è trasformata un talismano» spiegava il Divino. «Mi ha aperto le porte delle banche e delle casseforti. Oro e banchieri sono i sommi sacerdoti della religione daliniana». In materia erotica, l’iperbole e l’autosputtanamento rispondevano alla medesima logica promozionale. Perciò l’insistenza affabulatoria di SD sulla propria impotenza. O sull’allergia all’amplesso che lo rese precocemente autarchico («Evito sempre il contatto. Un filo di voyeurismo, un tantino di masturbazione sono più che sufficienti»). Perciò il tormentone sulle microdimensioni del suo sesso. Favoleggiate, tirate in ballo così spesso da farne una sorta di porno-fenomeno alla rovescia. Il più impressionante dei subdotati. Con i baffi sempre impennati a simulacro erettile.
Senza contare le altre protesi: il pomo del bastone utilizzato per raccogliere gli umori ascellari di Amanda Lear e poi inebriarsene. O la bacchetta con cui carezzava, valutandole, natiche e cosce di modelle (malgrado il celebre scatto accanto a Raquel Welch in bikini, detestava le ragazze floride) e di boys (il suo sogno di gay inespresso rimase fino all’ultimo quello di incontrare un bel «muchacho con le tette»). Casting in cui Dalí selezionava il proprio bracciantato artistico. Per sessioni di posa (durante le quali si tocchettava dietro il cavalletto); oppure per le famose orge – condite di strabici, ermafroditi, nani, gemelli – che poi vere orge non erano, ma coreografie. E quindi tutta la retorica dell’ambiguità e dell’androginia che nella Spagna tardofranchista già anticipava l’estetica della Movida.
Una factory in salsa catalana? «Forse, salvo che Warhol fu critico e innovativo, mentre Dalí al massimo folkloristico e del tutto innocuo» dice Serena Giordano, che con Alessandro Dal Lago è autrice di Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea (Il Mulino). Nel libro si ricorda, tra l’altro, come SD considerasse false solo le opere da cui non aveva spremuto quattrini. Tutto il resto era ok. Nella mistificazione si era spinto troppo lontano, fino a farne un dogma. E ormai non poteva più tornare indietro. «Mi imitano? Ottimo. Significa che sono famoso». Frullò le nozioni di vero e falso annegandole in una torbida indifferenza. E creando un gran casino di patacche con firma autentica o di opere autentiche con firma taroccata.
Ma come si fa a perseguire una contraffazione se l’autore la approva? E quanti Dalí fasulli saranno finiti nei musei? «Per quanto riguarda la pittura, pochi. Il Dalí delle tele non è facilmente imitabile. Le falsificazioni toccano soprattutto la scultura e, in misura assai maggiore, litografie e stampe» precisa Víctor Fernández, studioso di Dalí del quale sta curando il carteggio con Federico García Lorca. Rammentando però come, negli ultimi anni, dall’atelier del Maestro siano usciti almeno un centinaio di quadri spacciati per autentici, ma che mai avrebbero potuto esserlo. Dato che, per via del Parkinson, « Dalí era ormai incapace di tenere in mano un pennello».
Certo, «nelle stampe e nei bronzi divenne una macchina ripetitrice di se stessa» dice Angela Vettese. «Ma, facendo implodere le categorie di autenticità e contraffazione, intendeva affermarsi come autore. Come a dire: quello che faccio, quello che esce da me non sono che deiezioni, merci. L’opera vera sono io. Un filone che sarebbe stato sviluppato anche altri. Si pensi a Piero Manzoni». Nel lavoro degli artisti contemporanei « Dalí non è molto presente». E delle sue provocazioni rimarrebbe poco pure in materia di pregiudizi negativi: «Oggi l’arte è accusata casomai di essere incomprensibile, elitaria, antipatica. Lui rimane un figurativo. Nei musei resta protagonista. I suoi quadri resistono. Anche per fattura materiale. Mentre quelli di altri mostri sacri del Novecento si vanno disfacendo».
Sarà. Ma forse l’archetipo Dalí riposa nelle falde inconsapevoli di certo immaginario artistico. Ad esempio: nel Jeff Koons che due anni fa si presentava a Parigi su una Bmw rifatta a modo suo, non riaffora forse il gremlin del Dalí che in America viaggiava su una Cadillac coi vetri multicolori e le maniglie in stile Louis XVI? O quello che arrivò alla Sorbona su una Rolls-Royce sommersa di cavolfiori? E che differenza c’è tra quel Dalí del cavolo e l’uomo che sotto Franco si dichiarò franchista (magari per pura ripicca nei confronti del comunista e inarrivabile rivale Picasso) e poi monarchico quando arrivò re Juan Carlos? Forse nessuna. Salvador Dalí ripeteva di non ritenersi un bravo pittore «perché i grandi sono sempre un po’ tonti, mentre io sono troppo intelligente». Di un’intelligenza cronometrata su gusti e reconditi desiderata del pubblico: «Poco importa che gli orologi siano molli o rigidi. Basta che segnino l’ora esatta». Quella del successo. La gloria? Pagatemela in contanti, por favor. Nell’89 morì solo. Di veri amici non ne aveva mai voluti. Soltanto pedine. O clienti. In una delle ultime interviste gli chiesero: È vero che vuole farsi ibernare? Rispose: «Verissimo. Non si sa mai: un giorno potrei resuscitare». E infatti rieccolo qua.
Marco Cicala