Gabriella Bosco, La Stampa 9/5/2013, 9 maggio 2013
ELSA MORANTE E JEAN-NOEL SCHIFANO UN AMORE FINO ALL’ULTMO RESPIRO
Lei si chiama Elisa, lui Giannatale. Ma è un lievissimo travestimento romanzesco, come un buffetto dato ai nomi: i due sono in realtà Elsa (Morante) lei, Jean-Noël (Schifano) lui. Il libro poi, apertamente, è una lunga dichiarazione d’amore, 160 pagine rivolte con il tu alla donna che da trent’anni ossessiona con il fantasma della sua presenza cuore e mente del più napoletano degli scrittori di Francia.
Comincia con lui, Giannatale, seduto accanto al letto di Elisa, in una clinica romana, la clinica Villa Margherita, dove lei è ricoverata. Tempo prima ha tentato il suicidio, ed è poi stata operata alla testa. Ha un foulard con le cocche annodate sotto il mento, prende la mano a quell’uomo che la guarda, gliela stringe. Le due mani sarebbero tornate a toccarsi tante e tante volte nei giorni a venire, in quella stanza in cui la passione del traduttore francese dei libri di lei, insensibilmente, sarebbe passata dalla scrittura alla persona, per farne una cosa sola e non smettere più di occupare il suo pensiero.
Presto avrà settant’anni, Schifano. Ne aveva quaranta quando strinse non solo quella mano, ma una vera e propria relazione amorosa con Elsa Morante, posto che l’aggettivo possa essere ampliato a contenere la passione che Jean-Noël concepì per la sua dea. E il cui ardore poteva solo sfogare, la notte, in un’altra stanza, con la giovane donna che qui, nella finzione romanzesca, porta il nome di Polina.
E. M. la Divine Barbare: roman confidentiel non finito (questo il lungo titolo, la collana è la prestigiosa «blanche» dell’editore Gallimard) covava sotto le ceneri da tutto quel tempo. Schifano aveva pubblicato, a ridosso dei fatti, o meglio della morte di Elsa Morante, un lungo articolo sotto forma di intervista, in cui aveva svelato i «segreti» che la scrittrice gli aveva confessato sulla sua vita in quella camera della clinica Villa Margherita, colta lei stessa da trasporto amoroso. E poi, anno dopo anno, aveva alimentato il culto nelle forme più varie: con i Cahiers a lei dedicati e che portano il suo nome, creati da Schifano con Tjuna Notarbartolo. In tanti altri modi, evocandola sempre, ma soprattutto coltivando la passione dentro di sé. Come gravido di lei. Era inevitabile che, un giorno o l’altro, ne nascesse un romanzo. Schifano è uomo di forti sentimenti, li fa crescere finché esplodono.
Letto in controluce, è un romanzo che fa rivivere come in un presente mai interrotto la Roma della cultura, gli Anni Sessanta, in cui si aggirano Moravia, Pasolini… Ma il cuore palpitante del libro sta in quel tu, la scrittura rivolta alla Divina, le parole carezzevoli che ne avvolgono il povero corpo.
«Stringi gli occhi. Mi stringi la mano. Stringi le labbra» sono le prime parole della lunga dichiarazione d’amore. «Non sbatti più le palpebre. Ho l’impressione che non respiri più. Fai la morta. Come tanto tempo fa, qualche anno dopo il vostro matrimonio – che lui non voleva, mi hai detto, che gli hai strappato… Sì, sapevo che Alberto non mi amava…». Procede così, con una sorta di dialogo che è insieme riportato – il dialogo che effettivamente Elsa e Jean-Noël scambiarono fitto e senza pudori in quei giorni estremi – e sognato, scorre onirico, le battute si intersecano, si stringono come le mani dei due interlocutori. Ed è lui, ad esempio, Giannatale, a riraccontare a lei, Elisa, il giorno in cui le venne presentato Moravia: «Nel novembre del ’36, in quella birreria in piazza Santi Apostoli: salutando l’autore degli Indifferenti , dopo due bicchieri di bianco dei Castelli gli fai scivolare in tasca la chiave della tua stanza…».
«Ché forse tutto l’inventare è ricordarsi» aveva scritto lei nel suo Diario, citazione riportata in esergo da Schifano.
«Ho fatto anche di peggio», risponde a Giannatale, parlando di quel giorno in piazza Santi Apostoli… «Stringi gli occhi, stringi le mie dita… Sotto il foulard rosa che trattiene le prime piccole mèches del tuo cranio rasato per l’operazione, sotto le lenzuola bianche, più nulla muove… La tua mano nella mia è un marmo che brucia».
E via ancora a raccontarle: fai la morta come quella volta dopo la guerra, eri tondetta, occhi da gatta siamese, per terra, nell’entrata, in via dell’Oca. Lui, Alberto, spaventato, aveva chiamato i soccorsi, che erano arrivati subito, e tu eri saltata in piedi, alcune ciocche già bianche anche se sembravi una bambina, e gli avevi riso in faccia. «Non il riso che conosco io, il tuo riso argentato da fata… un riso di strada, che strazia».
Nel dialogo poi s’inserisce anche Alberto: «Mi ha fatto vivere un inferno, sai! Ma anche in qualche modo ha compiuto la mia educazione sentimentale, e quando ho rischiato la deportazione dei nazi-fascisti, ha dato prova di un coraggio, sai, senza pari…».
«Sono sospeso», intercala il narratore, Giannatale, «trattenendo il respiro, alla stretta delle tue dita». Per sei mesi lui trattenne il respiro, fino all’ultimo di lei, «come un ammutinato silenzio».
Il libro si chiude con un pennacchio di farfalle d’oro che volano via nel vento sul mare di Arturo: quelle ceneri liberate «secondo la tua volontà segreta», scrive Schifano, «in quello che tu chiami, Elisa, il mistero delirante dell’amore».
Era stato Carlo Cecchi, come lui stesso rivelò candidamente all’epoca, a prestarsi al gesto. Ma questo Schifano lo tace.